Pietro Berti

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Anchorage

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domenica 10 ottobre 2010

Il Malato di mente tra Ospedale Psichiatrico Giudiziario e Trattamento Sanitario Obbligatorio

Il Malato di mente tra Ospedale Psichiatrico Giudiziario e Trattamento Sanitario Obbligatorio


Aspetti storici e normativi dell'ospedale psichiatrico giudiziario

tratto da Giulia Simonetti (http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/sanita/simonett/ ) dove sarà possibile leggere tutto il lavoro svolto dall’Autrice


Il termine "manicomio" deriva dal greco: "manía" significa pazzia e "komêin" vuol dire curare. Dal significato del termine, quindi, si deduce che il manicomio sia un istituto preposto al ricovero dei malati di mente. Il termine include genericamente e nel linguaggio familiare i due diversi concetti di ospedale psichiatrico, o casa di cura per malattie mentali, e di quello che un tempo si definiva manicomio giudiziario, ora detto ospedale psichiatrico giudiziario.
Nati per rispondere ad un bisogno di accoglienza e trattamento medico di soggetti detenuti con indubbia presenza di malattia psichica e di difficile gestione in istituti penitenziari, gli OPG hanno mantenuto l'organizzazione penitenziaria, subendone nel tempo i flussi, e riflussi, culturali e organizzativi derivanti dal mutevole volere socio-politico in tema di trattamento della devianza carceraria e della delinquenza.
Da secoli il tema della follia ha sempre ispirato sentimenti contrastanti di fascino e di disprezzo. Oggi, finalmente, sentendo parlare di continuità tra salute e malattia, di stabilità degli interventi sul territorio, di interazione tra pazienti in cura e cittadini, ci si accorge che sta cominciando faticosamente a diffondersi nella mentalità e nella sensibilità, non solo degli esperti, ma anche della gente comune, una cultura di partecipazione, basata sulla volontà di reintegrare nel tessuto collettivo quella "marginalità" da sempre considerata tra le più problematiche e le più "pericolose" per la società.
Per quanto i progressi e i segnali di cambiamento di cultura siano incoraggianti, la strada da percorrere in questa direzione si è dimostrata alquanto accidentata e densa di difficoltà: l'obiettivo di questo studio consistite proprio nel verificare quali siano stati i passaggi cruciali di questo faticoso cammino verso una "riabilitazione" della follia in termini di riconoscimento della sua dignità umana e civile.
Occorre premettere che occuparsi di salute mentale, in Italia, significa avere a che fare con una realtà estremamente sfuggente, confusa e spesso troppo compromessa per prestarsi ad una trattazione semplice e lineare. Per quanto sia di centrale importanza per tutto il sistema sanitario sia pubblico che privato, il settore relativo all'assistenza psichiatrica rimane uno dei più trascurati sotto il profilo organizzativo e amministrativo e, al contempo, uno dei meno studiati sotto il profilo della ricerca sociale e dell'osservazione epidemiologica. In questo senso, il lavoro proposto nella presente tesi, prende le mosse dall'analisi della complessa realtà sottesa alla gestione del disturbo psichico di soggetti autori di reato, attraverso tutti i suoi aspetti culturali, sociali, medici, tecnici e politici, al fine di verificarne lo stato dei lavori, gli sviluppi operativi, le proposte legislative, i problemi attuali e le prospettive future.
I capitoli che seguono cercano di affrontare il tema della storia e della riforma psichiatrica sotto diversi profili: da quello storico-culturale a quello giuridico, da quello politico-istituzionale a quello socio-sanitario, al fine di ricostruire un quadro il più che possibile organico e coerente intorno al sistema di salute mentale nel nostro paese. Naturalmente ognuna di queste realtà non si presenta del tutto a sé stante e isolata da altri fattori, ma anzi dimostra di avere diversi legami con dimensioni più o meno diversificate che interagiscono su più piani: da quello storico-culturale a quello giuridico-amministrativo, da quello politico-istituzionale a quello socio-sanitario, da quello di ricerca scientifica a quello di analisi del contenuto.
Partendo da una ricostruzione antropologica della storia della follia che attraverso i secoli cerca di analizzare i vari tipi di interpretazione dati alla sfera dell'insensatezza e dell'alienazione, si approda alla trattazione della malattia mentale in tutte le sue accezioni, da disturbo psichico a disagio sociale, attorno alla quale si è sviluppato il dibattito parlamentare sulla riforma psichiatrica.
Nel primo capitolo ci occuperemo degli aspetti storici e normativi dell'OPG, ripercorrendone la storia dalle origini, in particolare nel nostro paese, analizzando in primo luogo i presupposti filosofici che ne hanno determinato l'istituzione, e in secondo luogo, la disciplina normativa nei diversi codici italiani, in particolare nel codice Zanardelli e nel codice Rocco. In particolare, del codice Rocco verranno analizzati due aspetti fondamentali: uno relativo al tema dell'imputabilità e responsabilità, l'altro relativo alla concezione del manicomio giudiziario come misura di sicurezza.
Successivamente, saranno ripercorse le trasformazioni giuridiche e amministrative degli OPG dagli anni '70 ad oggi: le innovazioni legislative e giurisprudenziali prima del 1975 e quelle apportate dalla Legge 354 del 1975 (Ordinamento Penitenziario), la quale, oltre a modificare la dicitura "manicomio giudiziario" in "ospedale psichiatrico giudiziario"(art. 62), ha introdotto interessanti innovazioni alla disciplina previgente, in particolare, istituendo le misure alternative alla detenzione e potenziando notevolmente il ruolo della Magistratura di Sorveglianza; parallelamente verranno analizzate alcune norme del vecchio regolamento di esecuzione (DPR 431/1976).
Inoltre, verranno discussi gli effetti prodotti dalle Leggi 180, cosiddetta "Legge Basaglia", dalla quale prende avvio il processo di "deistituzionalizzazione" dell'OPG", e 833 del 1978, legge istitutiva del SSN, la quale, recependo i contenuti della 180, accolse le norme di argomento psichiatrico inserendole nel contesto più ampio dell'intervento sanitario pubblico ed eliminando ogni differenziazione tra patologia psichiatrica e patologia generale.
Verrà inoltre analizzata la giurisprudenza degli anni '80, in particolare la sentenza della Corte Costituzionale n. 139 del 27.7.1982 con la quale la Corte ha affermato l'incostituzionalità della presunzione assoluta di durata della pericolosità sociale prevista dell'art. 222 c.p. nella parte in cui affermava l'obbligo di applicare sempre la misura di sicurezza, dichiarando obbligatorio il nuovo accertamento della preesistente pericolosità sociale nel momento dell'applicazione della misura. Verranno, inoltre, analizzate le innovazioni proposte nel Progetto di Legge "Grossi", in particolare quella relativa all'abolizione del concetto di non-imputabilità.
Successivamente, ci occuperemo delle innovazioni introdotte dalla Legge Gozzini, la quale ha abolito tutte le presunzioni di pericolosità previste dal codice penale, sia quelle di pericolosità qualificata (abitualità, professionalità, tendenza a delinquere), sia le presunzioni nei confronti dei portatori di vizio totale o parziale di mente. Analizzeremo, inoltre, la novità più significativa introdotta dall'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale del 1989 che, seguendo l'indirizzo della Corte Costituzionale, ha sancito la soppressione della presunzione di pericolosità e di durata: oggi, infatti, la misura di sicurezza è applicata sulla base di una valutazione discrezionale del magistrato di sorveglianza, in riferimento al momento in cui le deve essere data esecuzione, e revocabile in qualsiasi momento.
Sempre nel corso del primo capitolo, ci occuperemo dell'analisi della popolazione reclusa in Ospedale psichiatrico giudiziario, distinta per categorie giuridiche, e si confronterà l'evoluzione del sistema normativo italiano relativo agli OPG rispetto a quello degli altri paesi europei, evidenziandone le analogie e le distinzioni.
Per quanto riguarda le innovazioni più recenti, sarà trattato il tema della separazione del sistema sanitario penitenziario da quello nazionale e del progetto sperimentale di unificazione del sistema sanitario proposto dal Decreto legislativo n. 230 del 1999, attraverso il quale, sancendo il passaggio del personale e delle risorse al SSN, si dà avvio a un periodo di sperimentazione in tre Regioni (Toscana, Lazio e Lombardia) durante il quale le ASL provvederanno alla gestione dell'assistenza sanitaria, restando invariati il regime giuridico del personale sanitario e le strutture in proprietà dell'Amministrazione penitenziaria. Discuteremo degli scarsi risultati del Decreto e del processo di "sanitarizzazione" avviatosi a livello amministrativo nei diversi istituti, nonchè di alcune norme chiave del nuovo regolamento del sistema carcerario (D.P.R. 230/2000), il quale ha attribuito all'esigenza di un trattamento sanitario individuale e di strumenti di cura efficienti un ruolo prioritario rispetto a quella di mera custodia.
Al termine del capitolo ci occuperemo della più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale che, con la sentenza del 18 Luglio 2003, n. 235, ha sancito il principio secondo il quale, ove in concreto la misura coercitiva del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario si riveli tale da arrecare presumibilmente un danno alla salute psichica dell'infermo, non può essere considerata giustificata e deve essere sostituita con il ricovero in comunità terapeutiche o con la libertà vigilata.
Nel secondo capitolo, l'attenzione verrà focalizzata sull'OPG di Montelupo Fiorentino: in particolare, in tale sede, verrà ripercorsa la storia della villa medicea dell'Ambrogiana, dalle origini, fino alla trasformazione in prigione psichiatrica, passando in proprietà alle più importanti famiglie nobili fiorentine; inoltre, si descriveranno le trasformazioni subite dagli edifici che compongono la villa per adattarsi all'esigenza di divenire il secondo manicomio criminale italiano, a partire dal 1886.
Nel corso del capitolo si tratterà inoltre dell'organizzazione dell'istituto di Montelupo e delle caratteristiche della popolazione nel primo decennio di attività 1886-1896: in particolare verranno riportati i dati relativi alle nuove entrate in istituto e ai trasferimenti, all'età, alla provenienza, alla condizione sociale, alla professione, al grado di istruzione, ai reati commessi, alle amnistie ed indulti di cui gli internati hanno potuto beneficiare, al motivo di uscita e alla destinazione al momento della dimissione. Inoltre, analizzeremo le cure e i trattamenti di quell'epoca.
Per offrire uno spaccato della vita condotta in quel tempo all'interno dell'istituto verrà ricostruita, attraverso alcuni documenti reperiti presso l'archivio dell'OPG, la storia di Pietro Acciarito, personaggio dei primi del Novecento, vissuto per quasi 40 anni internato a Montelupo.
La situazione all'interno dell'istituto di Montelupo sarà successivamente confrontata con quella attuale, ripercorrendo la trasformazioni che questo ha subito durante il secolo scorso: per quanto riguarda la situazione odierna, verranno riportati i dati relativi all'attuale popolazione dell'OPG, inerenti l'età, la provenienza, il grado d'istruzione, lo stato civile, la durata della permanenza e i disturbi psichici presentati. Il taglio dato alla ricerca non risulta di carattere puramente storico-teorico, visto che non sono stati trascurati fattori di natura statistica ed empirica, il cui studio richiede un insieme di strumentazioni e dati censimentari, oggi disponibili grazie alla ricerca relativa ai dati riguardanti la popolazione degli OPG italiani, prodotta nel 2002 dall'ufficio studi e ricerche del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, curata e presentata dallo psichiatra Vittorino Andreoli.
Verranno inoltre messe a confronto le esperienze di alcuni internati a Montelupo e verrà descritta particolareggiatamente la struttura interna dell'istituto, analizzando gli aspetti sostanziali delle modalità di gestione giuridica e sanitaria e di impiego del personale sanitario e di custodia, focalizzando l'attenzione sugli strumenti di "sanitarizzazione" adottati in particolare a Montelupo e sulle modalità di somministrazione di cure e trattamenti.
Nel terzo capitolo, invece, sarà affrontato il tema delle attività di reinserimento organizzate presso l'OPG di Montelupo, partendo, innanzitutto dall'analisi dei principi generali e della normativa vigente, proseguendo con la descrizione delle modalità di organizzazione delle attività intramurarie (scolastiche, lavorative e culturali) e di trattamento esterno (lavorative, concessione di licenze orarie e giornaliere, attività svolte grazie al volontariato, licenza finale d'esperimento, ruolo dei servizi psichiatrici territoriali). Sarà affrontato anche il problema dell'individuazione della sede più idonea al reinserimento, ponendo l'attenzione sulle difficoltà di rientro in famiglia e sulle modalità di organizzazione e gestione di residenze autonome e comunità terapeutiche.
Nel quarto e ultimo capitolo, verrà affrontato il tema generale dell'incertezza del futuro degli OPG, focalizzando l'attenzione sull'inadeguatezza dei precedenti normativi e sull'esigenza di apportare significative riforme alla disciplina attuale: a tale proposito, verranno analizzate nel dettaglio le proposte di legge Riz, Corleone, e Toscana/Emilia-Romagna, cercando di evidenziare di ognuna aspetti condivisibili e difetti, anche attraverso la ricostruzione e il confronto delle diverse esperienze ed opinioni dei direttori degli istituti di Trieste, Aversa e Montelupo e delle diverse testimonianze raccolte in merito alle molteplici dinamiche relative al trattamento terapeutico della malattia mentale e all'assistenza sanitaria in ambito psichiatrico: educatrici, magistrati di sorveglianza, agenti di custodia, internati, assistenti sociali, volontari. Le osservazioni critiche scaturite da tali interviste hanno offerto un quadro assai composito di opinioni intorno al concetto di follia, mostrando quanto la materia dibattuta sia controversa.
In particolare, attraverso la testimonianza del Dr. Scarpa, direttore dell'OPG di Montelupo, sarà affrontato il tema relativo alle prospettive di "Sanitarizzazione" e "Regionalizzazione" degli istituti. A tale proposito, al termine del quarto capitolo e nelle conclusioni alla presente tesi, si cercherà di enucleare gli interventi auspicabili per il compimento del processo di superamento della vecchia concezione dell'Ospedale psichiatrico giudiziario: tale argomento è stato trattato all'OPG di Montelupo Fiorentino, durante il convegno "Psichiatria slegata. L'ospedale psichiatrico giudiziario tra custodia e percorsi di salute," organizzato dalla Regione, dal Ministero della giustizia e dal Comune di Montelupo, nel maggio di quest'anno, convegno che ha rappresentato un momento di apertura della struttura OPG verso l'esterno, segno evidente della necessità di superamento dell'alienazione e dell'isolamento che caratterizza la condizione degli internati
Aspetti storici e normativi dell'ospedale psichiatrico giudiziario
1.1. L'origine del manicomio criminale
I soggetti caratterizzati da disturbi psichici scaturiti in un comportamento "criminale", non possono subire lo stesso trattamento punitivo previsto per comuni autori di reati e, né l'istituzione penitenziaria, né l'ospedale psichiatrico giudiziario, risultano adeguati ad accoglierli: la prima perché concepita solo per coloro che violano le norme penali colpevolmente; il secondo perché, avendo finalità soprattutto terapeutiche, non è idoneo a controllare la pericolosità sociale di tali soggetti. Per questo motivo, già nel secolo scorso, molti studiosi hanno cercato di offrire una soluzione a tale problema: indubbia era la necessità di creare una diversa tipologia di custodia, in un luogo dove la follia, volontà sconvolta, passione pervertita, doveva incontrare una volontà retta, con regole ortodosse, in uno scontro destinato a vederla sconfitta.
Nasce così il manicomio criminale (in seguito rinominato manicomio giudiziario e infine Ospedale psichiatrico giudiziario), traendo le sue origini dalla fusione delle due classiche istituzioni totali che la società moderna utilizza per correggere le forme più gravi di devianza: il carcere e il manicomio.
1.1.1. La nascita del manicomio criminale
L'istituto del manicomio criminale, antenato dell'OPG, nasce in Inghilterra alla fine del Settecento con il nome di Criminal's Asylums e soltanto successivamente si afferma anche nel resto d'Europa.
La storia narra diversi episodi dai quali si può risalire alle origini del manicomio: ad esempio, nel 1786 Margareth Nicholson, che aveva tentato di uccidere Re Giorgio III, dichiarata pazza e quindi irresponsabile del suo atto, venne internata in una speciale sezione del manicomio di Bedlem; altro caso si verificò nel 1790, quando un uomo di nome John Frith scagliò alcune pietre contro la carrozza del re: nonostante il suo arresto per alto tradimento, egli venne prosciolto per irresponsabilità e quindi ricoverato in un manicomio.
Dopo anni di pratica amministrativa priva di regolamentazione, seguì una statuizione giudiziaria che istituzionalizzò il ricovero dei folli criminali in manicomio: venne finalmente promulgata nel 1800 una legge, chiamata Insane offender's bill (1), con la quale si prevedeva che tutti coloro che avessero commesso un delitto in condizione di alienazione mentale, venissero prosciolti da ogni pena e ricoverati, sotto stretta custodia, in un manicomio, per un tempo discrezionalmente stabilito dal re.
Ben presto tale legge rivelò tutta la sua inefficacia: le strutture si dimostrarono inadeguate alle necessità terapeutiche di tali soggetti e le difficoltà di gestione resero ancor più disumane le condizioni degli internati.
Il primo vero e proprio Manicomio criminale di Stato venne istituito nel 1857 nella parrocchia di Sandhurst e nel 1863 fu fondato il celebre stabilimento di Broadmoor, situato nella periferia di Londra, da sempre preso ad esempio per efficienza e funzionalità, concepito come speciale reparto ospedaliero. Uno dei casi più eclatanti di reclusione in manicomio fu quello di un signore di nome Hadfield, che nel 1880 attentò alla vita del re nel teatro di Drury Lane: il giudice lo riconobbe pazzo, lo dichiarò non colpevole e emise una sentenza speciale d'isolamento in manicomio.
Successivamente, ai sensi delle norme "The Criminal Lunatic Act" del 1884 e "The Trial of Lunatic Act" del 1885, si stabilì che a Broadmoor potevano essere ricoverati non solo coloro che avessero commesso un reato in stato di pazzia, ma anche coloro che fossero impazziti durante il processo e coloro che, per sopraggiunta alienazione mentale, fossero diventati incapaci di sottostare alla normale disciplina carceraria.
Circa un secolo più tardi rispetto alla data di apertura del primo manicomio inglese, anche negli Stati Uniti d'America furono aperti alcuni istituti adibiti a manicomio criminale: il primo fu quello di Auburn, nello Stato di New York, aperto nel 1855; nel 1872 ne venne aperto uno nello Stato del Massachussets; nel 1874 ne fu istituito uno nella stessa città di New York e nel 1877 uno anche in Canada.
1.1.2. Il manicomio criminale in Italia
1.1.2.1 Aspetti filosofici
L'esempio inglese fu seguito da altri paesi europei, fra cui anche l'Italia.
Il dibattito sull'opportunità di istituire i manicomi criminali si svolse alla luce delle conoscenze psichiatriche della seconda metà del XIX secolo: secondo l'impostazione organicistica allora dominante, essendo i disturbi mentali malattie del cervello e non dello spirito, era opportuna l'introduzione di un metodo empirico-sperimentale, fondato sull'analisi di dati misurabili (antropometria, craniometria, esame somatico e statistiche). La pretesa di assoluta scientificità della psichiatria e la particolare attenzione per fattori come l'ereditarietà, nonché una concezione della realtà sociale ispirata al riduzionismo biologico, per cui un soggetto malato doveva essere curato e guarito, costituiscono i presupposti del manicomio giudiziario, nato come risposta all'esigenza di creare una struttura per i detenuti impazziti in carcere, detti "rei-folli", e per i malati di mente che avevano commesso un reato, detti "folli-rei".
Fin dai tempi più remoti c'era sempre stato un atteggiamento di diffidenza, se non di vero e proprio terrore, nei confronti della malattia mentale: il folle era pericoloso per la società e per questo andava isolato, allontanato e messo in grado di non nuocere a nessuno.
Si rese necessario anzitutto capire le cause della follia e la sua natura: da questo punto di vista, Foucault (2) ha cercato, attraverso la ricostruzione della storia della follia, di descrivere i modi attraverso i quali la collettività si è difesa da questa: già a partire dalla fine del XIV secolo, i pazzi venivano riuniti su speciali battelli che navigavano senza sosta per fiumi e mari, quasi a voler sottolineare la non appartenenza territoriale del carico indesiderato; la follia era considerata da un punto di vista spirituale, quasi metafisico: il folle era identificato con l'ossesso, con il demonio.
Dalla fine del XVII secolo, però, la concezione della follia mutò soprattutto grazie a molti studiosi e in particolare medici che, interrogandosi sulle cause della follia, si mostrano insoddisfatti della spiegazioni spirituali; si cercavano cause più concrete, concependo la follia come un'alterazione comportamentale le cui cause non interessano l'anima, bensì il cervello.
Nel 1830, un medico italiano di nome Fantonetti avanzò una spiegazione di stampo organicista della pazzia: le facoltà mentali, cioè la ragione e l'intelligenza, secondo la sua teoria, derivano dall'anima ma, per manifestarsi, si avvalgono di uno strumento corporeo, cioè del sistema nervoso e del cervello; e poiché l'anima, in quanto spirito puro e perfetto, non può essere pervertita o sviata, il pervertimento e lo sviamento che generano la pazzia devono essere ricercati nel cervello, quale strumento corporeo di manifestazione, che non riesce a ricevere e comprendere gli ordini dell'anima. Nonostante la posizione organicista, quindi, nella teoria di Fantonetti, continuava ad avere un ruolo il fattore spirituale.
Dopo pochi anni, si abbandonò definitivamente tale fattore spirituale, per sostenere tesi compiutamente organiciste.
Un illustre psichiatra di nome Andrea Verga, nel 1873, in occasione dell'inaugurazione dell'anno psichiatrico, definì la pazzia nel modo seguente:
...affezione congiunta del cervello, per la quale essendo rimasto più o meno viziato lo sviluppo del medesimo, un individuo non può esercitare che imperfettamente e irregolarmente le speciali funzioni della sensibilità, dell'intelligenza e della volontà e appare perciò diverso dalla comune degli uomini; oppure un'affezione acquisita ed accidentale del cervello, per la quale, alterandosi le relative funzioni della sensibilità, dell'intelligenza e della volontà, un individuo appare diverso dalla comune degli uomini e da quel che era egli stesso (3).
Successivamente, continuarono a consolidarsi le tendenze organicistiche della follia e questo considerare la follia alla stregua di malattie come la polmonite, la tubercolosi, ecc., comportò una serie di implicazioni anche in ambito medico e scientifico. Si procedette a quella che è stata definita come la "medicalizzazione" della follia, cioè al rifiuto di ogni tesi moraleggiante o spirituale delle anomalie psichiche. Nacque la scienza della Freniatria, considerata scienza appunto perché esatta, quantificabile, verificabile. Inoltre, si giunse a ritenere opportuno l'allontanamento dai manicomi di tutto il personale religioso, perché gli psichiatri erano convinti che lo spirito religioso, con i suoi riti, le sue penitenze, il suo timore per il peccato e per il castigo divino, al contrario dei principi della moderna psichiatria, non facesse altro che peggiorare ed eccitare gli animi già disordinati dei folli (4).
Nel 1872, il tema del reo folle fu ampliamente trattato da Cesare Lombroso, studioso e fondatore della Scuola di Antropologia Criminale, convinto che le cause della delinquenza dovessero essere ricercate nelle caratteristiche biologiche di ogni soggetto. Sulla scia delle teorie filosofiche della Scuola positiva, si aprì anche in Italia il dibattito sull'opportunità di aprire dei manicomi criminali, nei quali sarebbero stati accolti i delinquenti folli. Le teorie della Scuola positiva, il cui oggetto principale era lo studio della personalità del reo e l'individuazione della malattia mentale come causa biologica e psichica della delinquenza, si contrapposero le teorie della Scuola classica che, essendo fondate sul libero arbitrio, sull'assoluta libertà di scelta tra bene e male, attribuivano alla pena una finalità essenzialmente retributiva: la pena deve essere inflitta allo scopo primario di difesa sociale.
Nel 1875 si tenne ad Imola il primo Congresso della Società Freniatrica Italiana, durante il quale, di particolare interesse scientifico si rivelò il discorso tenuto da Carlo Livi, che affermava con forza la necessità di considerare le malattie mentali come mere patologie dell'organo celebrale, da studiare attraverso la sperimentazione e l'osservazione clinica.
Nel primo numero della Rivista Sperimentale di Freniatria, da lui stesso ideata e realizzata, Livi scrisse:
Freniatria non è una parola nuova. La lingua italiana ne accettò il radicale greco da un pezzo con la bella parola frenesia. La parola freniatria ha diritto ad entrare nella scienza e a starvi: starvi a significare quella parte delle mediche discipline che prende a studiare e curare le malattie che sin qui impropriamente si dissero mentali. Dico impropriamente perché chi vorrebbe oggi sostenere che la mente, l'anima di per sé, può ammalare? ...
...Li psicologi e i filosofi i quali fin qui si arrogarono il monopolio della scienza dello spirito umano, son quelli che forse meno seppero del suo organismo: perché salvo pochissimi e fortissimi intelletti che non furono intesi dal secolo loro, o furono torturati e bruciati vivi, tutti li altri dei fatti interiori non si curarono minimamente: teorizzarono senza osservare: e non dettero alla scienza fondamento empirico: gonfiarono i loro sistemi di parole vane e di astruserie. (5)
Se con l'avvento della freniatria, lo psichiatra diventava l'unica autorità competente a curare la follia, il manicomio diventava l'unica e vera pratica terapeutica.
Il folle doveva essere sottratto dalla società per la quale era potenzialmente pericoloso e dalla quale riceveva stimoli di eccitazione che comportavano un peggioramento della malattia; per lui veniva previsto un mondo artificiale, sano, privo di elementi di disturbo, in cui tutto, dall'architettura all'arredamento, dal lavoro alla disciplina, aveva una funzione terapeutica. Solo all'interno di questo microcosmo, le pratiche idroterapiche, la contenzione, l'uso di sostanze calmanti, acquistavano il valore di validi ausili alla terapia principale, che consisteva fondamentalmente sempre e soltanto nella vita manicomiale.
Le considerazioni organiche della follia come malattia vera e propria, se da un lato contribuirono ad eliminare tutti gli approcci di tipo psicologico e spirituale, dall'altro però liberarono la società da ogni influenza e responsabilità dei confronti dell'alienato: se la follia doveva essere attribuita a difetti di tipo organico, ad alterazioni dell'organo celebrale, allora diventava superfluo ricercarne le fonti sociali; al massimo, si potevano individuare situazioni di povertà, di miseria, di arretratezza, di difficoltà di adattamento, di indebolimento dell'individuo che, in rapporto ad esse, diveniva più esposto a soccombere alla pazzia; la società ora poteva stare tranquilla perché non era sua la colpa della follia, ma soltanto del folle: era lui a doversi curare presso un luogo apposito con personale qualificato e terapie adeguate. Da questo momento si realizza così una crescente indifferenza sociale nei confronti del malato, sempre più chiuso nel suo piccolo mondo e sempre più isolato dalla vita reale.
Dai presupposti organici della follia posti alla base delle tesi freniatriche, si sviluppò nella seconda metà del XIX secolo un'altra disciplina, il cui campo di studio si interpose tra lo psichiatrico e il giuridico: la criminologia. Questa disciplina, che si interessò dell'uomo delinquente e della sua responsabilità, fondandosi su conoscenze sia psichiatriche che giuridiche, in Italia si affermò soprattutto grazie alla figura di Cesare Lombroso e alle sue teorie, secondo le quali esistevano due diverse tipologie di delinquente: quello occasionale e quello abituale.
Il delinquente occasionale, cioè colui il cui reato è determinato da circostanze fortuite e, appunto, occasionali, da un punto di vista criminologico non presenta caratteristiche particolarmente interessanti; socialmente è un soggetto facilmente reinseribile in società, la sua pericolosità sociale non desta eccessive preoccupazioni; per recuperarlo è sufficiente rimuovere le cause, sociali o meno, che lo hanno portato alla realizzazione del reato.
Invece, il vero interesse criminologico si concentra sul delinquente abituale, sul recidivo su colui che agisce come spinto da una forza irresistibile: questo soggetto, socialmente pericoloso e temibile, collocato fuori dalla società, non può essere recuperato, perché la sua natura è congenita, le sue passioni e i suoi istinti sono come quelli dell'uomo selvaggio.
Nel 1876 la pubblicazione della prima edizione de L'uomo delinquente (6) di Lombroso affermò il primato del modello medico-psichiatrico su quello giuridico-normativo: venne così introdotta una concezione deterministica del criminale, secondo la quale la condizione dell'uomo delinquente e di quella del nato pazzo, riconoscibile per determinate stigmate somatiche correlate a deformità mentali, debbono essere considerate equivalenti. Le cause delle anomalie psichiche, secondo le teorie lombrosiane, vanno ricercate in fattori come l'atavismo (possibile ricomparsa, dopo molte generazioni, di caratteristiche tipiche dell'uomo primitivo), la degenerazione (disturbo mentale concepito come degenerazione mentale), l'epilessia (esplosività e incontrollabilità del soggetto). Secondo Lombroso esiste quindi il "delinquente nato", inteso come soggetto equiparabile più ad un animale che ad un essere umano, caratterizzato da una condotta incontrollabile e spesso anche violenta.
Lo studio attento e dettagliato del "delinquente nato" era fondato sul metodo antropologico: l'individuo veniva pesato, misurato, studiato, esaminato in ogni suo aspetto fisico, morale e mentale; di lui veniva annotata la statura, la circonferenza del cranio, le caratteristiche delle orecchie, della dentatura, degli occhi, del mento, della barba, dei baffi. Tutti questi elementi contribuivano a definirlo e riconoscerlo.
Nella già citata Rivista Sperimentale di Freniatria, Livi spiegava:
Il reo, studiato coscienziosamente, scrupolosamente, non nel momento solo del reato, ma in tutta la sua vita antecedente, non nel suo essere morale soltanto, ma nella sua organica complessione, nelle sue imperfezioni fisiche, nei morbosi germi ereditari, nelle sinistre influenze dell'età, del sesso, della corrotta atmosfera fisica e morale in cui sempre visse, quali aspetti nuovi dee presentare all'uomo di mente e di cuore, quali sentimenti nuovi e nuove idee non deve ispirare ?
È per questo che il nostro giornale si presenta ai giurisperiti, ai magistrati, ai legislatori e dice loro: venite con noi, guardate, dimandate, tastate, pesate, contate e poi deciderete, voi stessi deciderete, col vostro stesso giudizio e la coscienza, se vi sono altre vie per assicurare alla società e modi migliori per correggere il male del carcere e della forca (7).
E ancora secondo Enrico Ferri:
Come da un secolo si ammise, contro le opinioni medievali, che la pazzia non dipende dalla nostra libera volontà, così ora bisogna riconoscere che non ne dipende nemmeno il delitto. Delitto e pazzia sono due sventure: trattiamoli entrambi senza rancore, ma difendiamoci da entrambi (8).
Tali affermazioni sollevarono forti conflitti e lunghi dibattiti tra medicina e legge. Psichiatri e giudici reclamavano reciprocamente competenza e autorità sul delinquente: i primi per la natura patologica del reo, per la loro capacità di individuare le alterazioni congenite, il quadro medico completo del delinquente, tutta la sua storia fisica, morale e sociale e per la loro conoscenza terapeutica; i secondi per la necessità di corretta applicazione della legge, per il mantenimento dell'ordine sociale e per il dovere di giustizia.
Si trattava di un vero e proprio conflitto di competenze che, nella maggior parte dei casi, si risolse a favore dei giuristi; l'intera categoria degli psichiatri usciva sconfitta dal confronto "facendo la parte di gente, che dopo aver passato anni a studiare sui libri e sui cervelli umani, vivi e morti, non sa distinguere un imbecille da un sano di mente" (9).
Giudici e psichiatri erano d'altra parte uniti dal comune fine di garantire l'ordine sociale: anche gli psichiatri, infatti, per i rei con alterazioni psichiche non chiedevano l'affidamento alle famiglie, né tanto meno la libertà, bensì la reclusione nei manicomi criminali. Quello che gli psichiatri non potevano accettare era l'autorità che la legge riconosceva ai giudici di stabilire se effettivamente il reo, nel preciso momento del compimento del reato, fosse stato nella pienezza delle facoltà mentali: questo compito doveva essere affidato a medici competenti, che erano diventati tali grazie alle conoscenze scientifiche di tipo freniatrico.
La concezione della follia come disadattamento sociale, che conduce a un vero e proprio darwinismo criminologico, pur non trovando sempre consensi e adesioni, ebbe un notevole ruolo nel processo di istituzione dei manicomi criminali: partendo da una tale concezione deterministica, secondo la quale l'individuo ha sempre la possibilità di scegliere tra bene e male, di essere conforme o deviante, in quanto dotato di libero arbitrio, sul piano giuridico si giunge inevitabilmente a sostituire il principio della responsabilità morale con quello della responsabilità sociale, del controllo e della difesa sociale; l'uomo deviante subisce una pena di carattere retributivo, commisurata alla gravità del reato: questa poteva consistere nell'affidamento a carceri comuni, oppure alle istituzioni manicomiali. Con la reclusione il delinquente pagava il suo debito con la giustizia e l'espiazione della pena lo rendeva libero di essere riconsegnato alla collettività. Bisogna peraltro notare che il determinismo proprio di quella teoria di stampo positivista, fu in più casi dai positivisti stessi relativizzato, prendendo in considerazione anche altri fattori sociali e individuali che, condizionando gli atteggiamenti e le azioni del soggetto, limitavano la sua libertà di scelta, talvolta fino al punto di annullarla.
Secondo una tale concezione della delinquenza, comunque, la pena acquistava il valore di strumento di "bonifica sociale" da attuarsi anche prima del momento del compimento del reato, attraverso una serie di interventi da attuare prima che la norma penale sia infranta.
Gli elementi della psichiatria organicistica e della scuola positiva si fusero dunque nella criminologia, a partire da una complessa serie di nuove considerazioni:
nel delinquente si trovavano segni antropologici che dimostravano il carattere patologico della criminalità e quindi il suo ricadere nella sfera d'interesse medico e non solo giuridico;
la criminalità era in costante e preoccupante aumento; a tale proposito diceva Tamassia nel 1881:
... se per quasi tutti i paesi si constata una linea ascendente del delitto, l'Italia ha questa cifra scritta a colori più scuri, giacché fatalmente e pel numero e per la gravezza dei reati, essa ha il triste primato fra le nazioni civili.
Davanti a questo fatto doloroso, unanime n'è il desiderio di soffocare il male nei suoi germi, d'impedire che il delitto dilaghi ed irrompa ancor più (10);
erano sempre più numerosi i delinquenti che, già rinchiusi nelle prigioni, davano segni di pazzia;
il sistema delle pene si era rivelato inadatto alle nuove considerazioni del reo e incapace di fornire sia un elemento di emenda, sia un deterrente alla delinquenza.
A tale proposito scrisse Morselli:
Al concetto di una pena espiatrice, vendicatrice, esemplare e intimidatrice, occorre sostituire quello utilitario, ed invece alla cura infruttuosamente fin qui tentata contro il delitto, dietro la vana speranza di migliorare il delinquente entro i nostri stabilimenti penali, fa d'uopo dare opera a un trattamento più equo e più radicale, il quale non può essere che profilattico (11).
Esistevano ora tutte le premesse atte a rendere i manicomi criminali una necessità sempre più forte e una risposta concreta alle nuove scienze, al nuovo modo di considerare il folle, il delinquente e la sua responsabilità: se il delinquente nato non poteva essere considerato responsabile del suo comportamento, altrettanto non poteva essere considerato responsabile e quindi punibile, nei termini previsti dalla giustizia classica, il folle affetto da alterazioni organiche.
Restava comunque il problema della sicurezza sociale: folli e rei, punibili e non punibili, restavano potenzialmente pericolosi e la società doveva essere difesa da tale minaccia.
Di conseguenza, rimaneva il problema di dove accogliere questi soggetti, a partire dall'idea che quei luoghi non potessero certo essere i manicomi comuni e neppure nelle carceri, perché entrambe le strutture erano inadeguate alle caratteristiche e alla condizione di tali individui.
L'unico luogo in cui si potesse attuare contemporaneamente la detenzione, la custodia e la cura era il manicomio criminale, la cui istituzione si diffuse su tutto il territorio nazionale: la sua realtà, come sottolineò Tamburini, era diventata ormai una necessità ineludibile per un paese che voleva essere considerato moderno e avanzato:
Folli e criminali troveranno nel manicomio criminale il luogo adatto in cui scontare quello che, malgrado s'infligga loro come una pena, pure non può essere razionalmente considerato che come custodia (12).
1.1.2.2 Aspetti normativi
Prima dell'unificazione italiana, i vari Stati avevano leggi penali diverse e nessuna di queste prevedeva istituti o norme particolari per gli autori di reato non punibili a causa di una malattia mentale: il loro destino era sempre quello del manicomio comune.
Invece, per le persone che a causa di una condanna erano già in carcere, e che in quel luogo manifestavano segni di malattia mentale, erano previste dalle norme dell'esecuzione penitenziaria, punizioni corporali quali la privazione del cibo, la permanenza in luoghi bui, umidi e freddi, l'isolamento perpetuo dagli altri detenuti.
L'individuazione dei soggetti da internare in manicomio era spesso arbitraria e irrazionale: con l'uso generalizzato della categoria scientifica di "malattia mentale" divenivano facilmente perseguibili anche i riformatori sociali, coloro che criticavano le condizioni politiche ed economiche del paese, propugnando dottrine socialiste ed anarchiche. Lo stesso trattamento era poi applicato abitualmente anche ai soggetti giudicati pericolosi, cioè coloro che persistevano nel tenere condotte oppositive nei confronti dell'istituzione carceraria e che creavano disordine. I soggetti considerati come psicopatici o folli determinavano, inoltre, grossi problemi di gestione, situazioni di fermento e di crisi, che qualsiasi istituzione totale avrebbe sentito come minaccia alla propria stabilità.
Dopo l'unificazione, il Codice penale sardo del 1859 fu esteso a quasi tutto il territorio nazionale.
L'imputabilità dell'autore di reato malato di mente era disciplinata dagli artt. 94 e 95.
Art. 94: non vi è reato se l'imputato trovasi in istato di assoluta imbecillità, di pazzia o di morboso furore quando commise l'azione, ovvero se vi fu tratto da una forza alla quale non poté resistere.
Art. 95: allorché la pazzia, l'imbecillità, il furore o la forza non si riconoscessero a tal grado da rendere non imputabile affatto l'azione, i Giudici applicheranno all'imputato, secondo le circostanze dei casi, la pena del carcere estensibile anche ad anni dieci, o quella della custodia, estensibile anche ad anni venti.
La nuova realtà politica e sociale dell'Italia unita rese necessario un codice penale comune che fosse adeguato al nuovo assetto: per tale motivo, nel 1876 fu istituita una Commissione per stendere il progetto di un nuovo Codice del Regno d'Italia, che il Ministro Mancini presentò alla Camera, nel quale all'articolo 60, n. 2, veniva confermato il concetto scientifico dell'esistenza di cause minoranti o dirimenti dell'imputabilità, e si stabiliva che se tali cause avessero lasciato un minimo di volontà cosciente, si doveva riconoscere al giudice la facoltà di ordinare il ricovero del soggetto, per il tempo della pena, in una casa di custodia.
Inoltre, nel Titolo II, Capo I, relativo alle cause che escludono o diminuiscono l'imputabilità, si prevedeva:
Art. 61. Non è imputabile di reato colui che, nel momento in cui commise il fatto, era in tale stato da non avere la coscienza di delinquere; ovvero vi fu costretto da una forza alla quale non poté resistere.
Art. 62. Colui al quale l'infermità di mente, o la forza esterna non tolse del tutto, ma scemò grandemente la coscienza degli atti, o la possibilità di resistere, è imputabile: ma la pena è diminuita da uno a cinque gradi.
La commissione che esaminò il progetto propose che, nei casi di follia permanente, il giudice potesse ordinare il ricovero in un "manicomio speciale", dal quale non si potesse uscire se non a guarigione completa, con altro decreto del giudice stesso.
Non tutti si dimostrarono favorevoli alla tecnica punitiva prospettata dalla commissione: Cesare Lombroso, in particolare, sostenne che fra i delinquenti e quelli creduti tali, ve ne erano molti, per i quali la prigione sarebbe stata un'ingiustizia, ma la libertà un pericolo; per tali soggetti egli propose l'istituzione di un Manicomio criminale, come soluzione al conflitto fra giustizia e sicurezza sociale; inoltre ravvisò nel codice penale una forte contraddizione: dall'articolo 94 si deduceva che ove riscontrata la pazzia, l'autore del reato non poteva esserne ritenuto responsabile, mentre nel seguente articolo 95 si prevedeva di diminuire semplicemente la pena di qualche grado, ma comunque di punire quando la pazzia non fosse in grado di rendere il soggetto non imputabile.
Sulla base di tali contraddizioni del sistema penitenziario, Lombroso propose la fondazione di un Manicomio criminale che avesse una capienza di almeno 300 letti; questo avrebbe dovuto ricevere:
Tutti i servi di pena impazziti, e con tendenze pericolose incendiarie, omicide od oscene, dopo trascorso lo stadio acuto del male.
Tutti gli alienati che, per tendenze omicide, incendiarie, ecc., vennero sottoposti a inquisizione giudiziaria, restata sospesa per la riconosciuta alienazione.
Tutti quelli imputati di crimini strani, atroci, senza un movente chiaro, o con un movente sproporzionato al delitto.
Quelli che furono spinti al delitto da un abituale, evidente infermità, come: pellagra, alcoolismo, epilessia; massime quando abbiano parentele con alienati o con epilettici, e presentino una mala costruzione del cranio.
...Gli alienati provenienti dalle carceri, che notoriamente passarono una parte della loro esistenza nei vizi, nei delitti, dovranno essere segregati in appositi comparti.
Gli altri alienati non saranno riuniti che in piccoli gruppi, a seconda dei ceti e delle abitudini; dormiranno ciascuno in una cella; la disciplina dovrà essere severa, la vigilanza maggiore che nei manicomi comuni, e analoga a quella delle case penali, ma il lavoro proporzionato alle forze, all'aria aperta, alternato da lunghi riposi, da divertimenti, ecc.
...
La direzione dovrebbe essere medica, il personale carcerario. Gli individui riconosciuti abitualmente pericolosi, e già sottoposti a vari processi, non potranno essere dimessi mai; gli alienati a follia istantanea, od intermittente, che offrano segni di perfetta guarigione, saranno segnalati per la dimissione dopo uno o due anni di osservazione, ma sottoposti, dopo la loro uscita, a visite mediche mensili per molti anni di seguito (13).
In attesa della riforma legislativa, Lombroso auspicava che venissero stabiliti su base amministrativa dei reparti per i condannati impazziti nelle case di pena, così come nei manicomi dei grossi centri, per le forme intermedie di pazzie criminali, in cui la dimissione doveva aver luogo solo con accurate cautele.
Concordi con le obiezioni del Lombroso si dimostrarono altri studiosi, tra i quali anche Augusto Tamburini: per i soggetti affetti da disturbi psichici erano necessarie strutture differenziate rispetto a quelle previste per i delinquenti comuni, i quali avrebbero potuto subire le influenze negative di tale convivenza; i pazzi potevano esercitare una dannosa influenza per l'indole stessa della loro malattia, che li faceva essere turbolenti, violenti ed osceni; tale convivenza in centri di infezione morale e intellettuale avrebbe potuto creare disordine, obbligando all'adozione di misure coercitive anche per i rei comuni. La creazione dei manicomi criminali avrebbe reso conciliabili la disciplina di un carcere, la sicurezza di una fortezza e il benessere di una famiglia, con le maggiori garanzie di custodia ma anche con tutte le maggiori cure ed attenzioni per la malattia. Secondo Tamburini avrebbero dovuto essere internati: "gli individui nei quali o è assai arduo stabilire se furono mossi a delinquere da impulsi morbosi o da perversità d'animo, oppure dal carattere tale da doverli collocare tra le forme intermedie tra delitto e pazzia,...le pazzie limitate ad un certo ordine di idee e sentimenti e quella forma frequente di pazzia morale".
Inoltre, i periti avrebbero dovuto pronunciarsi sempre, anche se non espressamente richiesto, sulla pericolosità degli autori di reato; la lacuna legislativa andava così colmata:
I medici periti, prima di chiudere le loro relazioni, dovrebbero richiamare l'attenzione dei Magistrati sulle qualità pericolose di questi individui: se essi li riconoscono ancora malati dichiarando assolutamente necessario che siano collocati in luoghi di cura per essi e di sicurezza per gli altri; oppure, se non vi riconoscono più traccia di malattia in corso, ma solo qualche segnale per cui, date certe occasioni, le tendenze morbose si riaccendano e gli atti pericolosi si ripetano, domandano che siano custoditi in modo da proteggere la società (14).
Il primo grave problema da risolvere era indubbiamente quello relativo alle condizioni igienico-sanitarie: a tale scopo, nel 1872, il Ministero dell'Interno inviò una circolare a tutti i Direttori dei manicomi italiani per evitare spiacevoli conseguenze per l'ordine, l'igiene e la sicurezza delle case penali del Regno: si volevano sostanzialmente raccogliere informazioni su come dovesse essere attrezzato un locale da destinarsi in modo utile alla cura dei delinquenti alienati, cioè di quei condannati riconosciuti affetti da alienazione mentale o presunti tali; per un controllo più incisivo si prescrisse ai Direttori dei Manicomi e dei Bagni penali di inviare ogni anno una statistica degli alienati criminali accolti nei rispettivi stabilimenti. Con tale circolare, che il Ministro degli Interni inviò ai direttori dei manicomi comuni, tramite i Prefetti, si chiedeva sostanzialmente se, secondo la loro opinione, non convenisse aprire uno o più reclusori per concentrare in essi ogni condannato riconosciuto affetto da alterazione mentale o gravemente indiziato di esserlo a giudizio degli ufficiali sanitari governativi addetti ai diversi stabilimenti penali del regno.
Per quanto riguarda la procedura con la quale un soggetto veniva riconosciuto pazzo e quindi assegnato al manicomio, occorre precisare che il Magistrato, di fronte a un caso di pazzia, non avrebbe potuto ordinare la reclusione in carcere, in quanto ne era stata riconosciuta la non reità, ma al tempo stesso non poteva mandarlo in manicomio, considerata la sua non imputabilità: egli doveva soltanto promuovere le pratiche presso l'autorità amministrativa, trattenendo il soggetto in carcere e successivamente il suo invio al manicomio doveva essere autorizzato dall'autorità amministrativa, sempre a condizione che la famiglia non avesse avuto possibilità economiche tali per potersi accollare il mantenimento del soggetto.
Alcuni anni più tardi anche Ferri riprese e sviluppò le tesi di Lombroso e di Tamburini: la pazzia e il delitto non dipendevano dalla volontà dell'individuo; il pazzo cosiddetto delinquente non apparteneva al diritto comune: apparteneva al diritto difensivo come il vero delinquente; un pazzo che aveva ucciso poteva essere rinchiuso a tempo indeterminato, considerata l'alta percentuale di ricadute in ogni forma di pazzia e di pericolosità sociale. La scuola positiva era interessata più al reo che non al reato: l'autore del reato costituiva un pericolo sociale dal quale doversi difendere e tale difesa, proporzionata alla temibilità del delinquente, doveva essere intesa non come semplice e temporaneo allontanamento del reo, ma in senso attivo, come riabilitazione, come bonifica sociale, come una serie di interventi da attuare prima che la norma penale fosse stata infranta.
Il 14 dicembre 1875 l'on. De Renzis presentò alla Camera dei Deputati una risoluzione a proposito della concreta istituzione dei manicomi criminali nella quale si diceva:
La Camera, vista la necessità di raccogliere in ospedali governativi i mentecatti condannati o giudicabili, invita il ministero a studiare se sia conveniente ed economico per lo Stato, l'impianto di uno o più ospedali governativi atti a raccogliere mentecatti condannati o giudicabili... (15)
La risoluzione venne approvata ma ancora per anni non si giunse all'emanazione di una vera e propria normativa che istituisse ufficialmente i manicomi criminali.
Negli anni successivi non furono compiuti progressi verso la fondazione del Manicomio criminale. Sulla base di tali presupposti culturali e giuridici, l'apertura dei manicomi criminali rappresentò una vera e propria prevalenza della Scuola Positiva su quella Classica: nel 1876, con un semplice atto amministrativo, senza alcuna delibera da parte dello Stato, la Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena inaugurò la "Sezione per Maniaci" di Aversa, presso la preesistente casa penale.
Negli anni successivi, in sede parlamentare, in particolare nella tornata del 14 aprile 1877, sorsero numerose polemiche circa l'opportunità di istituire i manicomi criminali: particolarmente accesa fu quella tra l'on. Righi ed il guardasigilli Mancini.
Secondo Righi:
...le condizioni nostre legislative sono tali oggi che, allorché un individuo qualunque, riconosciuto autore del più grave, o di qualsiasi numero dei più gravi reati, dei più offensivi alla sicurezza sociale, una volta che sia dichiarato aver compiuto queste azioni in condizione di mente alienata, egli viene senz'altro ricondotto libero sulla porta della Corte di Assise, e rimandato in seno alla società, nella libera padronanza di esercitare i suoi pravi istinti puramente e morbosamente animali ed ostili.
...formulo la mia interpellanza all'onorevole guardasigilli e gli chiedo quali siano i suoi intendimenti riguardo all'istituzione di questi manicomi criminali, nei quali debbono essere accolti tutti coloro anzitutto che abbiano commesso un reato in condizioni di mente riconosciuta aberrante, tutti coloro in secondo luogo i quali siano diventati pazzi durante lo svolgimento del procedimento penale e finalmente tutti quelli i quali possono essere diventati pazzi durante il periodo dell'espiazione della pena (16).
Il Ministro Mancini forniva una risposta articolata relativa alla opportunità della istituzione dei manicomi criminali, dichiarando che il governo, pur non essendo disposto ad introdurre speciali manicomi criminali, era incline ad adottare la legge belga del 1850, che prevedeva delle sezioni speciali "criminali" nei manicomi ordinari. Per quanto riguardava le categorie di persone da rinchiudere nei manicomi criminali, il Mancini indicava: i colpiti da alienazione durante la fase istruttoria del processo penale e quelli impazziti mentre scontavano la pena.
Dopo di che aggiungeva che rimanevano altre due categorie bisognose di studi più approfonditi:
...quella degli imputati i quali sono assolti perché il giurì dichiara che non erano imputabili a causa di vizio ed alienazione di mente nel tempo in cui commisero il fatto; quella dei condannati alla semplice custodia, perché furono dichiarati non assolutamente pazzi, ma in uno stato vicino a quello di pazzia, o di mancanza di libertà, in applicazione della disposizione dell'articolo 93 del vigente Codice Penale, il quale ammette una specie di semipazzia, di semicoazione, ed in tal caso alle pene ordinarie sostituisce una specie particolare di detenzione qual è il regime della casa di custodia (17).
Soltanto nel 1885 il Ministero dell'Interno stabilì di trasformare in manicomio criminale la casa di pena dell'Ambrogiana, situata vicino a Montelupo Fiorentino. Ma questo provvedimento che, nel progetto del codice penale del 1889, dava facoltà al giudice di rinchiudere i prosciolti in un manicomio criminale, non fu accettato dalle Commissioni parlamentari. L'anno successivo fu istituito il secondo manicomio criminale italiano, proprio a Montelupo, al quale seguirono ulteriori esperienze manicomiali.
Per quanto riguarda la legislazione, il primo progetto sui manicomi pubblici e privati fu presentato da Depretis; seguirono poi quelli di Crispi, Nicotera e Giolitti. Nessuno di questi progetti fu tradotto in legge (18).
1.1.2.3 Il codice Zanardelli
Anche quando finalmente nel corso del 1889 venne promulgato il nuovo codice penale ("codice Zanardelli"), non si giunse immediatamente alla regolamentazione dei manicomi criminali. Il nuovo codice si limitò ad escludere l'imputabilità dell'autore di reato malato di mente secondo principi di stampo classico. Infatti all'art. 46 si prevedeva il proscioglimento per infermità mentale:
Non è punibile colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto, era in tale stato di infermità mentale da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti.
Il giudice, nondimeno, ove stimi pericolosa la liberazione dell'imputato prosciolto, ne ordina la consegna all'Autorità competente per i provvedimenti di legge.
L'assegnazione alla casa di custodia, con cui il giudice poteva sostituire la pena della reclusione, era revocabile, ove fossero cessate la ragioni che l'avevano determinata. Ammissione, custodia, licenziamento, trasferimento, evasione o semplici permessi di uscita dall'istituzione dovevano essere segnalati all'autorità di pubblica sicurezza che controllava la potenziale o supposta pericolosità sociale del malato di mente: questa rimaneva, in fin dei conti, la ragione principale che guidava e condizionava l'intervento psichiatrico istituzionale.
Nell'operare in tal modo era assoluto l'accordo tra le esigenze di controllo sociale e la psichiatria.
Nel 1891 venne effettuata una ispezione nei manicomi del Regno, promossa dal Ministro dell'Interno e affidata a tre personaggi illustri: Lombroso, Tamburini e Ascenzi. Nella relazione finale essi denunciarono, però, gravi problemi di gestione di tali strutture, derivanti soprattutto dall'affollamento degli istituti manicomiali, dalla mancanza di una legislazione unitaria, valida per tutte le regioni italiane, dall'assenza di una efficace sorveglianza, dalle grandi disparità di trattamento ed organizzative tra i diversi manicomi nonché dall'inadeguatezza della direzione dei manicomi criminali esistenti. Essi criticarono il fatto che nel nuovo codice penale non si facesse esplicito riferimento alla difesa sociale; invece lo scopo primario del Manicomio criminale, quello effettivamente innovativo, doveva essere proprio quello della tutela da soggetti che, avendo compiuto gravi reati in condizioni mentali incontrollabili, dovevano essere rinchiusi in luoghi dove fosse ridotta al minimo la possibilità di recidiva.
Ufficialmente fu il Regio Decreto del 1 febbraio 1891, contenente il regolamento generale degli stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi ad utilizzare per la prima volta il termine "Manicomio giudiziario" e a stabilire quali tipologie di persone dovessero esservi internate:
art. 469: ... per i condannati che devono scontare una pena maggiore di un anno, colpiti da alienazione mentale, sono destinati speciali stabilimenti, o manicomi giudiziari, nei quali si provveda ad un tempo alla repressione e alla cura...
art. 470: I condannati che devono scontare una pena minore di un anno, colpiti da alienazione mentale, ma inoffensivi, paralitici o affetti da delirio transitorio, possono rimanere negli stabilimenti ordinari, ove non manchino i mezzi di cura e non si porti nocumento alla disciplina interna.
art. 471: Gli accusati o imputati prosciolti, ai sensi dell'art. 46 del codice penale, e per i quali il presidente del tribunale civile pronunzia il ricovero definitivo in un manicomio, giusta l'art. 14 del r.d. 1 dicembre 1889, n. 6509 sono trasferiti, con decreto del ministro dell'Interno, e su proposta dell'autorità di pubblica sicurezza, in un Manicomio giudiziario, ma in sezioni separate.
art. 472: Nelle sezioni indicate nell'art. precedente possono essere fatti ricoverare, con decreto del ministro dell'Interno, anche gli accusati prosciolti che, ai sensi dell'art. 13 r.d. 1 dicembre 1889, n. 6509, debbono essere provvisoriamente chiusi in un manicomio, in istato di osservazione.
art. 473: Sopra apposita domanda dell'autorità giudiziaria, possono essere ricoverati in una sezione speciale dei manicomi giudiziari, anche gli inquisiti in istato di osservazione. L'assegnazione è fatta per decreto del ministro dell'Interno.
Indipendentemente dal dibattito politico e culturale dell'epoca, i manicomi criminali non furono mai strutture concretamente sanitarie: sebbene destinati ad un uso profilattico rispetto al crimine, essi furono usati come luoghi per la gestione punitiva della follia criminale. Essi erano gestiti da un Direttore amministrativo, come tutti gli stabilimenti di pena ordinari e mediante un Regolamento che non differisce in alcun punto da quello carcerario.
Non fu mai veramente realizzata la non afflittività del Manicomio criminale, unica vera differenza fra segregazione carceraria e manicomiale.
A tale proposito, in una relazione fatta dal Direttore Sanitario di Aversa, pubblicata nel 1900, si legge:
Quivi il trattamento alimentare è uguale a quello delle carceri, i giacigli sono gli stessi che si accordano ai detenuti, la disciplina, se non è più rigorosa, non è certo informata e subordinata alle speciali condizioni dei reclusi, e quel che è peggio, vi fanno assoluto difetto i mezzi igienico-terapeutici, che sono indispensabili al trattamento degli psicopatici; difetto che, peraltro non reca altrimenti meraviglia, quando si sappia che la direzione di questi particolari istituti è disimpegnata ad un profano di psichiatria, e che il servizio sanitario è ristretto alla ben limitata orbita di azione in cui possono spaziare i medici addetti ai comuni penitenziari.
Il Manicomio criminale risultò essere qualcosa di molto diverso da ciò per il quale venne ideato (19).
La nuova normativa modificò notevolmente l'assetto interno dei manicomi già esistenti; in particolar modo, a Montelupo fra il 1886 e il 1891 furono ammesse 542 persone: il 69, 9% di queste uscì vivo, delle quali il 37,8% fu trasferito in un altro manicomio, mentre il 32,1 fu ricondotto in carcere; infine il 30,1% morì. In quegli stessi anni, i prosciolti furono solamente sette (Tabella 1).

Tabella 1 - Quadro riassuntivo dei dimessi dal Manicomio criminale di Montelupo Fiorentino che erano stati ammessi tra il 1886 (apertura dell'istituto) e il 1891
Montelupo - anni 1886-1891
Periodo
Usciti vivi 379 (69,9%)
Usciti morti 163 (30,1%)
Dopo 1 anno
128 (23,6%)
48 (8,9%)
Dopo 2 anni
79 (14,6%)
31 (5,7%)
Dopo 3-4 anni
72 (13,3%)
36 (6,6%)
Dopo 5-6 anni
32 (5,9%)
13 (2,4%)
Dopo 7-10 anni
40 (7,4%)
13 (2,4%)
Dopo 11 anni o più
28 (5,2%)
22 (4,1%)
Occorre precisare che il primo stato moderno a regolamentare in modo organico i problemi delle malattie mentali fu la Francia con la legge sugli "alienati" del 30 giugno 1838, che è poi divenuta modello di tutte le legislazioni occidentali in materia (20). La legge italiana arrivò con quasi settanta anni di ritardo nel 1904 dopo venticinque anni di travagliate discussioni e ben sei disegni di legge abbandonati. A giudizio di un illustre professore universitario e studioso di psichiatria forense dell'epoca, di nome Tanzi (21), i primi progetti erano tutti migliori di quello poi approvato, che sarebbe una edizione peggiorativa di un motuproprio granducale, vigente ancora per tradizione in Toscana dal 1838. In effetti la Legge 14 febbraio 1904, n. 36, intitolata «Disposizioni sui manicomi e sugli alienati», era composta di soli undici articoli nei quali si limitava ad indicare sommariamente le norme di ammissione e di dimissione dal manicomio, a determinare i compiti del direttore, a ripartire le spese e a prevedere un meccanismo di controllo, lasciando al regolamento, successivamente emanato, di regolare nella sostanza la materia.
Ai sensi dell'art. 1 di tale legge, i soggetti destinati a "godere" dell'assistenza manicomiale venivano definiti come «persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo». Tali soggetti dovevano essere «custoditi e curati» negli istituti manicomiali. Già da questo è possibile capire come lo scopo primario fosse la custodia e non la cura del soggetto, perché l'obbligo giuridico di custodire il malato di mente insorgeva solo dopo che questi avesse dato prova della propria pericolosità, o avesse turbato l'ambiente sociale dando "pubblico scandalo". Questo perché tali leggi, «se, pel tempo in cui furono promulgate, costituirono un sistema organico e progredito di organizzazione assistenziale, tuttavia furono dominate da preoccupazioni di difesa della società» (22) nei confronti di soggetti diversi e pericolosi, cosicché l'internamento «veniva ad atteggiarsi come una vera e propria misura di prevenzione» (23) molto vicina alle misure di sicurezza previste dalla legislazione penale. Di conseguenza, per tutti i malati di mente che non manifestassero la loro malattia in modo tale da far temere per l'ordine pubblico, era del tutto escluso il ricovero in manicomio, visto che la legge si interessava alla salute del singolo solo in quanto fosse di danno per la salute collettiva. Tale sistema permetteva anche un utilizzo distorto del manicomio, talvolta incoraggiato anche dalla giurisprudenza (24), e che portava ad internare soggetti sicuramente sani di mente, ma di pubblico scandalo, come prostitute che esercitavano troppo "sfacciatamente" la propria attività, o persone che si mostravano abitualmente in pubblico in abbigliamento succinto.
Ai sensi dell'art. 2 della suddetta legge, l'ammissione degli alienati veniva chiesta dai parenti nell'ordine in cui sono tenuti agli alimenti, ovvero dai tutori, procuratori, o curatori, e da chiunque altro nell'interesse degli infermi e della società. Di norma l'ammissione in manicomio poteva essere provvisoria o definitiva. L'ammissione provvisoria, in casi d'urgenza, veniva ordinata dall'autorità di pubblica sicurezza dietro la presentazione di un certificato medico attestante le condizioni mentali del soggetto. Nelle situazioni normali, era il pretore che poteva autorizzare il ricovero dopo aver ricevuto una domanda correlata dal certificato medico o anche da un atto notorio in cui quattro testimoni, non parenti, ma che comunque conoscessero il soggetto, ne descrivessero lo stato mentale. Il Tribunale invece poteva autorizzare il ricovero definitivo in Camera di Consiglio su istanza del Pubblico ministero, in base alla relazione del direttore del manicomio, e dopo un periodo di osservazione che non poteva eccedere in complesso un mese. Fino all'emanazione della Costituzione non era ammesso il ricorso per cassazione, ma solo un reclamo da parte del malato o da parte del pubblico ministero alla Corte d'appello. A quest'ultimo però era consentito solo il reclamo contro i provvedimenti di diniego del ricovero, a dimostrazione, che anche qui l'interesse pubblico era quello all'isolamento dei "malati di mente" e non quello alla corretta applicazione della legge (25). Tutti i provvedimenti di ricovero venivano inoltre trascritti nel casellario giudiziario, e vi rimanevano per sempre cosicché il malato doveva tornare ad affrontare il mondo con un "marchio infamante", che gli impediva praticamente di trovare lavoro, specie negli enti e uffici pubblici. Questo chiaramente non solo non aiutava il malato a vincere la malattia, ma anzi ne provocava, prima o poi, il definitivo ritorno al manicomio. Ma, visto che il principale scopo del legislatore era la custodia e l'isolamento del malato, sembra "logico" che non vi fosse alcun tentativo di recuperare il malato e di consentirgli il reinserimento sociale, familiare e lavorativo. Il "licenziamento" dei ricoverati poteva avvenire per sole due ragioni: la guarigione e il miglioramento tale da consentire di proseguire le "cure" nel domicilio del malato; il provvedimento definitivo di dimissione, in entrambi i casi, era autorizzato con decreto del presidente del tribunale.
1.1.2.4 Il codice Rocco
Il "Codice Rocco" del 1930 introdusse anche in materia di manicomi criminali alcune trasformazioni significative, che è importante analizzare in dettaglio.
A) Imputabilità e responsabilità
Ai sensi dell'art. 85 c.p.:
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile.
Èimputabile chi ha capacità di intendere e di volere.
Inoltre, secondo l'art. 88 c.p.:
Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere.
Secondo la legge vige una vera e propria presunzione di incapacità di intendere e di volere per tutti i soggetti con età inferiore agli anni quattordici (art. 97 c.p.), a causa di un'assoluta immaturità biologica e psicologica: tale presunzione di non imputabilità del minore degli anni quattordici non ammette prova contraria. Per i soggetti di età compresa fra i quattordici e i diciotto anni invece, la capacità di intendere e di volere deve essere dimostrata caso per caso, vista la variabilità del grado di sviluppo del soggetto in riferimento all'ambiente e all'educazione ricevuta. Per i soggetti che hanno compiuto il diciottesimo anno di età, la legge presume l'esistenza della piena imputabilità: l'assenza di questa può derivare solo da cause tassative, predeterminate per legge, e deve essere in ogni caso dimostrata e motivata.
Tra le cause di non imputabilità vengono menzionate in particolare:
la piena ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore (art. 91 c.p.);
l'azione di sostanze stupefacenti derivante da caso fortuito o da forza maggiore (art. 93 c.p.);
l'infermità o la malattia psichica (art. 88 c.p.);
la cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti (art. 95 c.p.);
il sordomutismo (art. 96 c.p.).
La legge esclude esplicitamente che gli stati emotivi e passionali possano escludere o diminuire l'imputabilità del soggetto (art. 90 c.p.). Inoltre, occorre precisare che l'ubriachezza e l'intossicazione da stupefacenti fortuite, sono cause di imputabilità, che però non consentono l'applicazione della misura di sicurezza.
L''uso abituale di alcool o di stupefacenti è considerato una aggravante, mentre la cronica intossicazione esclude la imputabilità (26) (Tabella 2).
Tabella 2 - Imputabilità e cause di esclusione di essa
Condizione del soggetto Giudizio Sanzione

ubriachezza fortuita da forza maggiore non imputabile con misura di sicurezza
e azione di stupefacenti fortuita o da forza maggiore

ubriachezza volontaria imputabile
e azione di stupefacenti assunti volontariamente

ubriachezza preordinata per commettere imputabile pena aumentata

il reato e assunzione di stupefacenti preordinata

per commettere il reato imputabile pena aumentata
ubriachezza abituale
e uso abituale di stupefacenti


cronica intossicazione da alcool non imputabile misura di sicurezza dell'OPG

e cronica intossicazione da stupefacenti

Accertata la responsabilità dell'imputato di aver commesso il fatto, si procede all'indagine sull'imputabilità, svolta anche questa durante il corso del processo penale con specifico riferimento al momento della commissione del reato; attraverso la perizia e gli accertamenti avvenuti in sede penale, il giudice può giungere a tre diverse conclusioni: o si arriva a ritenere che il soggetto autore del reato sia pienamente capace di intendere e di volere e quindi imputabile e, in questo primo caso, sarà condannato alla pena prevista dalla legge; oppure se si ritiene che il reo abbia commesso il fatto in una situazione di assoluta incapacità di intendere e di volere causata da malattia (vizio totale di mente o infermità mentale) e che quindi il soggetto non sia imputabile, egli viene quindi prosciolto dall'accusa e gli viene comminata una misura di sicurezza; oppure se si ritiene che il soggetto abbia commesso il fatto criminoso in una situazione mentale di capacità di intendere e di volere grandemente scemata (vizio parziale di mente o seminfermità mentale), egli sarà imputabile, potrà essergli inflitta una pena diminuita e, in aggiunta, la misura di sicurezza del ricovero in casa di cura e custodia.
Queste prescrizioni rimandano alla concezione della malattia mentale presente nel Codice Rocco del 1930, derivata dalla visione dominante nella psichiatria di allora. In base a quest'ultima il folle era sempre, per definizione, incapace, irresponsabile, pericoloso, inidoneo alla vita sociale tanto da doversi isolare in manicomio; il comportamento abnorme era sempre conseguenza di una malattia mentale; il malato di mente era considerato affetto da una patologia del cervello, che lo aveva privato delle sue caratteristiche umane, divenendo alieno rispetto al resto della società: era persona della quale la malattia si era impadronita, così come, in tempi ancora più remoti, si riteneva che di lui si fosse impadronito il demonio o il maleficio.
Il codice penale risentì notevolmente di tale concezione di malattia: la responsabilità morale e giuridica del delitto non era dunque del reo stesso ma della malattia che rendeva abnorme il comportamento del soggetto, il quale involontariamente seguiva l'impulso criminale; per infermità mentale non si intendevano tutte le alterazioni comportamentali ma solo le vere malattie mentali, quelle causate da alterazioni cerebrali o da anomalie organiche irreversibili, quelle derivanti da modificazioni patologiche; sono quindi esclusi semplici disturbi del carattere, della personalità, le nevrosi, le psicopatie, le violente emozioni, i fattori legati all'indole e alla costituzione.
B) Il manicomio giudiziario come misura di sicurezza
La concezione del manicomio criminale, nel periodo fascista, mutò notevolmente. I principi della scuola lombrosiana, respinti in blocco dal codice Zanardelli, trovarono infatti piena applicazione nel Codice Penale Italiano del 1930 (Codice Rocco) nel quale coesistevano in un medesimo ordinamento sia il sistema delle pene che quello delle misure di sicurezza (cosiddetto "sistema del doppio binario"). Le misure di sicurezza si applicano in via di principio solo alle persone che hanno commesso un reato e che sono state riconosciute "socialmente pericolose".
Ai sensi dell'art. 203:
Agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell'articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati. La qualità di persona pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell'art. 133.
Con il codice penale del 1930 vengono introdotte le categorie della pericolosità sociale e previsti gli istituti per l'esecuzione delle misure di sicurezza, quali le colonie agricole, le case di lavoro e il manicomio giudiziario. L'inquadramento del manicomio giudiziario nell'ambito delle misure di sicurezza consente di comprendere fino in fondo la sua funzione nel sistema penale, fondato sul doppio binario. Il principio di pericolosità sociale legittima l'applicazione della misura di sicurezza, quale sanzione diretta a tutelare la collettività dal rischio di recidiva criminosa e finalisticamente volta alla rieducazione del reo.
Il concetto di pericolosità sociale, quindi, non è un concetto univoco; esso può dipendere da fattori diversi e può essere desunto, di volta in volta, dalla natura, dal carattere, dal temperamento del soggetto; dall'ambiente in cui il soggetto vive e dalle sue frequentazioni; dalle modalità, dal tempo, dal luogo in cui si è realizzata la fattispecie criminosa; dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; dalla intensità del dolo o dal grado della colpa; dai motivi che hanno spinto il soggetto a compiere il reato e dalla condotta del reo; dai precedenti penali e giudiziari, e, in genere dalle abitudini di vita del reo, antecedenti al reato; dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo (art.133 c.p.). Il giudizio di pericolosità deve essere dimostrato sulla base di queste circostanze, ritenute oggettive.
Considerarle oggettive serve, in realtà, a privarle di senso storico e a considerarle come dati individuali, più che prodotti storici e sociali. Inoltre, la legittimità costituzionale di tale norma sembra assai dubbia in relazione a quanto afferma l'art. 3 della nostra Costituzione, al primo comma:
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Sulla base di tali presupposti, la qualità di persona socialmente pericolosa deve essere valutata caso per caso, e solo alla accertata presenza di pericolosità sociale può conseguire l'applicazione della misura di sicurezza (art. 204 c.p., 2º comma).
Prima della riforma, questo non valeva per le persone per le quali era stata pronunciata sentenza di proscioglimento per vizio totale di mente, o di condanna a pena diminuita per vizio parziale di mente. In questi casi, infatti, la qualità di persona socialmente pericolosa era presunta dalla legge e si applicava sempre la misura di sicurezza, rispettivamente del ricovero in un Manicomio giudiziario o in una casa di cura e custodia. Infatti, l'art. 204 c.p. diceva:
Le misure di sicurezza sono ordinate, previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa.
Nei casi espressamente determinati la qualità di persona socialmente pericolosa è presunta dalla legge (...).
I casi espressamente determinati erano, appunto, il proscioglimento per infermità ed il riconoscimento di seminfermità mentale. Questa norma andava contro ogni principio di ragionevolezza e di buon senso, tanto che si dubitò della sua logicità. In realtà, si collocava all'interno di un codice fascista il cui scopo primario era quello di impedire al giudice penale di valutare secondo la propria coscienza e volontà. Si voleva evitare che una persona prosciolta per vizio di mente potesse andare esente da ogni sanzione penale.
Da questo punto di vista, il codice Zanardelli, che affidava la valutazione al giudice, era sicuramente più liberale. Vi furono numerosi tentativi, da parte dei giudici, di far dichiarare l'illegittimità costituzionale di questo articolo, a fronte di una giurisprudenza della Corte di Cassazione, tesa a confermare l'automaticità del provvedimento. Ancora, nella sentenza del 4.4.1985, la Corte ribadisce che:
Nei casi tassativamente previsti dalla legge, questa presume in via assoluta la pericolosità sociale del soggetto prosciolto per infermità mentale e perciò la misura di sicurezza deve applicarsi anche se si esclude la pericolosità o si afferma la guarigione.
La legge prevedeva un solo correttivo alla norma, ovvero la facoltà per il giudice di non applicare la misura di sicurezza del Manicomio giudiziario alla persona prosciolta per vizio di mente, quando siano trascorsi cinque anni, per i reati meno gravi, o dieci anni, per i reati più gravi, fra il momento in cui il reato fu commesso e il momento in cui si pronuncia la sentenza di proscioglimento; oppure tra il momento in cui il proscioglimento fu pronunciato e quello in cui si deve dare inizio all'applicazione della misura di sicurezza. Per effetto di tale pronuncia della Corte, secondo la nuova formulazione dell'art. 204, il giudice può applicare la misura solo se rileva in concreto che il soggetto è "tutt'ora pericoloso" (art. 204 c.p., comma 2º e 3º).
Per effetto dell'art. 31 legge 10 ottobre 1986, n. 663, l'applicazione della misura di sicurezza alla persona prosciolta per infermità psichica non è più automatica. Essa deve essere inflitta solo se il giudice ritiene in concreto sussistente la pericolosità sociale del prosciolto. Ove quest'ultima sia giudicata insussistente, la questione è da ritenersi chiusa sotto il profilo giudiziario.
Nonostante ritenga in concreto esclusa la pericolosità sociale, il giudice può valutare che sussista un disturbo psichico che consigli o imponga un trattamento psichiatrico. In questo caso potrà essere indotto a segnalare la situazione ai servizi di salute mentale perché si occupino del problema.
Per quanto riguarda la durata della misura di sicurezza, essa viene prefissata nel minimo, ma non nel massimo, e la sua durata minima è a sua volta correlata con la pena edittale massima, prevista per il reato commesso. Infatti, l'art. 222 c.p., 1º e 2º, comma dispone:
...nel caso di proscioglimento per infermità psichica, ovvero per intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti, ovvero per sordomutismo, è sempre ordinato il ricovero dell'imputato in un Manicomio giudiziario per un tempo non inferiore a due anni; salvo che si tratti di contravvenzioni o di delitti colposi o di altri delitti per i quali la legge stabilisce la pena pecuniaria o la reclusione per un tempo non superiore nel massimo a due anni (...). La durata minima del ricovero nel Manicomio giudiziario è di dieci anni, se per il fatto commesso la legge stabilisce l'ergastolo, ovvero di cinque se per il fatto commesso la legge stabilisce la pena della reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a dieci anni (...).
La durata minima delle misure di sicurezza dette psichiatriche (ricovero in Manicomio giudiziario o in Casa di cura o custodia), è proporzionale alla pena edittale massima prevista per il reato commesso; la previsione delle circostanze aggravanti o attenuanti nel giudizio può comportare aumenti o diminuzioni della pena da comminare, ma mai modificare il principio per cui il giudice deve muoversi entro un minimo incomprimibile e un massimo non estendibile di quantità di pena. Quando il reo non è imputabile per vizio di mente, si valuta la pena edittale massima prevista per quel fatto-reato e a quella corrisponde una durata minima della misura di sicurezza del ricovero in Manicomio giudiziario.
In caso di proscioglimento per infermità psichica, ai sensi dell'art. 222, quando si tratta di contravvenzioni o di delitti colposi o di altri delitti per i quali la legge stabilisce una pena pecuniaria o la reclusione per un tempo non superiore nel massimo a due anni, non si dà luogo all'applicazione della misura di sicurezza del ricovero in un Ospedale psichiatrico giudiziario, ma la sentenza di proscioglimento è comunicata all'autorità di pubblica sicurezza. Il rapporto stabilito dall'art. 222 c.p. tra pena edittale massima e durata minima della misura di sicurezza del Manicomio giudiziario, crea una situazione di forte disfavore nei confronti di persone prosciolte da reati di lieve entità, rispetto a quelle che lo sono per reati più gravi; si verifica spesso una situazione paradossale in cui, tra due persone, una sana di mente e una altra malata, alle quali sia contestato lo stesso crimine, è previsto un trattamento più afflittivo per reati di lieve entità, per quella prosciolta per vizio di mente; mentre risulta avere un trattamento meno afflittivo quella accusata di reati più gravi: questo spiega come mai vi siano numerosi tentativi da parte di autori di gravi reati, di vedersi riconosciuto un vizio di mente seppure inesistente.
Se già problematica si rivela la questione giuridica, ancor più insostenibile risulta dal punto di vista psichiatrico tale rigido collegamento tra durata minima della misura di sicurezza e misura edittale della pena, visto che, sul piano pratico, tanto più è elevata la pericolosità sociale, quanto maggiore è la pena prevista per il reato commesso.
Per pericolosità sociale, la legge intende genericamente, la possibilità che il soggetto commetta in futuro, non la stessa tipologia di reato, ma altri reati di qualsiasi natura.
Ciò contrasta aspramente con le tesi psichiatriche che per molto tempo hanno cercato di dimostrare l'assenza di proporzionalità necessaria fra reato commesso e tempo in cui è possibile che la persona commetterà ulteriori reati.
In realtà, bisogna considerare la finalità politica che ispirava il Codice Rocco: il legislatore fascista aveva bisogno di uno strumento abbastanza estensibile da poterne fare un impiego prolungato nel tempo a seconda della necessità contingente; a questo scopo, trasse dalle due scuole penalistiche dell'epoca i concetti che più gli erano funzionali: dalla scuola classica l'aspetto retributivo della misura di sicurezza, che ne fissava la durata minima, irriducibile e commisurata al reato commesso; dalla scuola positiva, la indeterminazione della durata massima, funzionale alle esigenze di difesa sociale. Nel nostro paese si è finito per adottare un doppio criterio cronologico: durata predeterminata per le pene vere e proprie, indeterminata per le misure di sicurezza. Per queste ultime, infatti, l'indeterminatezza cronologica è strumentale al loro essere strumenti di repressione criminale, che si applicano quando la sanzione penale o non può giungere, o non è sufficiente per assicurare adeguate garanzie di difesa sociale. In questo modo, il potere giudiziario ha in mano una arma formidabile per suscitare nel reo una spinta a modificare i comportamenti sanzionati e quindi creare una forma molto particolare di consenso (27).
La legge prevede anche il caso della seminfermità mentale, quando sia riconosciuta "grandemente scemata all'epoca del fatto la capacità d'intendere e di volere". Secondo gli psichiatri è impossibile graduare o addirittura quantificarsi la capacità d'intendere e di volere di un individuo, ovvero la sua capacità di autodeterminazione e di conseguenza la sua responsabilità penale.
Il seminfermo subisce un particolare trattamento, per cui è considerato imputabile e punibile, ma la pena è diminuita e si applica in aggiunta la misura di sicurezza del ricovero in una casa di cura e custodia. Anche questa misura può essere prorogata e la sua durata minima è di tre anni, se la pena prevista per il reato è di almeno dieci anni; di un anno per una pena di almeno cinque; di sei mesi per pene minori. Anche in questo ultimo caso, la pericolosità non è presunta e deve essere dimostrata (art. 219 c.p.).
Non sempre la misura di sicurezza deve essere espiata dopo la reclusione, infatti, l'art. 220 del codice penale, prevede che il giudice possa farla espiare prima o durante la pena, interrompendone il decorso temporaneamente.
La misura del ricovero in Manicomio giudiziario può essere applicata anche in via provvisoria:
art. 206 c.p.: Durante l'istruzione o il giudizio, può disporsi che l'infermo di mente, o l'ubriaco abituale, o la persona dedita all'uso di sostanze stupefacenti [...] siano provvisoriamente ricoverate [...] in un Manicomio giudiziario o in una casa di cura e custodia.
Il giudice revoca l'ordine, quando ritenga che tali persone non siano più socialmente pericolose.
Il tempo dell'esecuzione provvisoria della misura di sicurezza è computato nella durata minima di essa.
L'applicazione provvisoria della misura di sicurezza si ha nel caso in cui il giudice che procede valuti che la persona accusata di un reato sia socialmente pericolosa a causa di un vizio di mente. Il tempo trascorso in misura di sicurezza provvisoria, viene calcolato nel periodo minimo della misura di sicurezza, eventualmente applicata in modo definitivo. Se invece la persona viene giudicata imputabile e condannata alla reclusione, nel silenzio della legge, si pone il problema di computare o meno il tempo sofferto in misura di sicurezza provvisoria, ai fini della condanna definitiva.
Con tre sentenze (nn. 96/1970, 16/1971, 74/1973), la Corte Costituzionale si è occupata del problema dell'art. 206 c.p., per affermare l'autonomia, prevista anche dalla Costituzione, tra pene e misure di sicurezza e quindi la non fungibilità dei periodi di detenzione. All'atto pratico questa distinzione si rivela del tutto formalistica: a farne le spese sono i detenuti e gli internati che, reclusi per lungo tempo in Manicomio giudiziario, non in esecuzione della misura definitiva, al momento in cui questa viene loro comminata, si sentono dire che il tempo trascorso precedentemente nello stesso luogo non conta. Le misure di sicurezza detentive non sono fra loro cumulabili, per cui, anche se ad una stessa persona sono applicate più misure della stessa specie, in relazione a diversi reati, commessi in tempi differenti, se ne applica sempre una sola. Se invece le misure sono di tipo diverso si applica, se vi è, quella psichiatrica (art. 209 c.p.). Se un soggetto sta scontando una misura di sicurezza di tipo non psichiatrico, e viene colpito da malattia mentale, sarà internato in Manicomio giudiziario per trasformazione della misura, dove rimarrà finché non sarà giudicato guarito (art. 212 c.p.).
1.2. Le trasformazioni giuridiche e amministrative dagli anni '70 ad oggi
1.2.1. Le innovazioni legislative e giurisprudenziali prima del 1975
Negli anni successivi alla promulgazione del Codice Rocco il manicomio giudiziario fu utilizzato soprattutto come mezzo di difesa sociale e il disinteresse per la materia fece sì che la sua struttura rimanesse invariata fino al dopoguerra.
In quegli anni, la necessità di una riforma della legislazione manicomiale cominciò a farsi pressante: nel 1953, infatti, fu la proposta di legge d'iniziativa del deputato Ceravolo, che si informava a «criteri di umanità e giustizia perché sostituisce al concetto della custodia di chi è colpito da un male guaribile, il concetto di cura e redime l'infermo dalla ingiusta qualifica di delinquente potenziale», come scriveva lo stesso relatore (28).
Le prime innovazioni rilevanti furono quelle introdotte dalla L.431/1968, che introdusse la possibilità di ricovero volontario in manicomio civile su richiesta del malato (art. 4) e l'abolizione dell'obbligo di annotazione sul casellario giudiziale dei provvedimenti di ricovero definitivo disposti dal magistrato. Tali innovazioni si sono tuttavia rivelate di limitato valore pratico.
Il principale merito di tale legge fu quello di restituire potenzialmente l'infermo di mente alla medicina, limitando la funzione custodiale del manicomio ed esaltando al contrario il fine terapeutico.
Sulla scia di ciò, tale legge previde anche la creazione di centri e servizi di igiene mentale con funzioni preventive, specie nella fascia pediatrica della popolazione, e curative per tutti coloro che ne avessero bisogno e ne facessero richiesta volontaria.
Si faceva lentamente strada l'idea di una cura territoriale del malato di mente con lo scopo di non allontanarlo dal suo ambiente sociale e di risparmiargli, per quanto possibile, il manicomio.
Un altro cambiamento di notevole portata fu quello di consentire al malato di chiedere volontariamente di essere ammesso in un ospedale psichiatrico, con la sola autorizzazione del medico di guardia, per essere sottoposto a cure o ad accertamenti.
Il malato di mente vede così riconosciuto il proprio diritto, costituzionalmente sancito dall'art. 32 Cost., ad essere curato da quella che smette di essere considerata un'infamia per essere finalmente riconosciuta come una malattia. Si smise quindi di ritenere la pazzia come una disgrazia ineluttabile e assolutamente incurabile e il malato come un potenziale criminale da isolare dalla comunità e si iniziò a considerare la prima come una malattia da prevenire e da curare e il secondo come persona da rispettare e di cui prendersi cura nel rispetto della sua dignità. Sintomatico del cambiamento di vedute fu anche l'abolizione dell'iscrizione dei ricoveri nel casellario giudiziario del malato.
Un aiuto a vedere le cose in questa maniera venne certamente dalla scoperta degli psicofarmaci, che hanno il potere di ridurre l'eccitazione violenta dei pazienti, e dalle nuove teorie di psicoterapia individuale e di gruppo: da metodi di cura insomma che tendessero alla riabilitazione del soggetto e alla ricostruzione della sua personalità, a dispetto dell'elettroshock, della segregazione e di tutti quei trattamenti che, al contrario, distruggevano la personalità dell'individuo. La legge 431 non si espose in merito al problema della chiusura dei manicomi ed al loro superamento tramite forme di assistenza psichiatrica alternativa. In sostanza non ci fu una vera rivoluzione del sistema psichiatrico, ma non si può negare che tale legge fu l'inevitabile testa di ponte per la successiva legge 180: infatti, come commenta Vecchietti, "la logica del rispetto della personalità, della libertà, e del diritto alla tutela della salute, fu affermata in modo irreversibile e segnò la via alle successive revisioni legislative" (29).
In questi anni si stava cercando di valorizzare la funzione terapeutica del manicomio, rispetto a quella meramente custodiale; infatti, sulla scia di tendenze innovative, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 110 del 23.4.1974, aveva determinato una prima sostanziale modifica al sistema designato nel codice Rocco, dichiarando illegittime le parti dell'articolo 207 codice penale che prevedevano la irrevocabilità della misura prima della scadenza del suo termine di durata minima.
Sul piano concreto la vecchia formulazione dell'art. 207 comportava la permanenza in manicomio di molte persone che avevano cessato di essere pericolose. Nei confronti della norma erano state sollevate più volte eccezioni di legittimità costituzionale, già a partire dagli ultimi anni '60 e finalmente su eccezione del giudice di Pisa, Vincenzo Accattatis, la Corte costituzionale decretò illegittimo l'ultimo comma dell'articolo, attribuendo al giudice di sorveglianza la facoltà di revocare la misura di sicurezza anche prima della decorrenza del termine minimo stabilito per legge. La sentenza ha rappresentato un momento decisivo della battaglia contro gli istituti manicomiali, soprattutto perché, in conseguenza di questa, molte persone non più pericolose sono state finalmente liberate.
1.2.2. Le innovazioni apportate dalla Legge 354 del 1975 e dal relativo regolamento di esecuzione (DPR 431/1976)
Maggiori conseguenze a livello di gestione dei manicomi giudiziari ha avuto la legge sulla riforma penitenziaria del 26 luglio del 1975, n. 354, che, pur riguardando le istituzioni penitenziarie in generale, ha introdotto precise prescrizioni nell'applicazione delle attività trattamentali e disciplinari, determinando una riforma dell'intero sistema penitenziario che si sono riflesse positivamente, benché indirettamente, anche sugli istituti psichiatrici giudiziari, in particolar modo in riferimento alle misure alternative e al ruolo del magistrato di sorveglianza.
Gli anni '70 non furono anni facili per quanto riguarda la gestione degli OPG: ad esempio, in quegli anni occorse la tragedia di Antonietta Bernardini, che morì bruciata viva in un letto di contenzione a Pozzuoli. Il suo caso fu importante per riaprire il dibattito intorno ai manicomi giudiziari, rompendo il silenzio che li circondava. La denuncia più dura e documentata venne ancora una volta dall'interno: fu Alfredo Bonazzi prima con il libro Ergastolo Azzurro e poi con Squalificati a vita a raccontare cosa succedesse in riformatori, carceri e manicomi criminali. Nell'OPG di Reggio Emilia, Bonazzi rimase nel letto di contenzione per sessantotto giorni consecutivi: "C'erano persone con la museruola, uno era stato con le caviglie legate per diciotto anni".
La legge del 1975, che ha modificato la dicitura "manicomio giudiziario" in "ospedale psichiatrico giudiziario" (art. 62), è divisa in due titoli: il primo rubricato «Trattamento penitenziario»; il secondo rubricato «Disposizioni relative all'organizzazione penitenziaria».
Se, da un lato, è innegabile che la legge 354 del 1975 non contenga sostanziali modifiche normative dell'istituzione manicomio giudiziale, eccetto quella relativa al cambiamento della denominazione in ospedale psichiatrico giudiziario e quella relativa alla introduzione di limitate prescrizioni nell'applicazione delle attività trattamentali e degli aspetti disciplinari previsti dal Regolamento, è altrettanto innegabile che i benefici della sostanziale riforma del sistema penitenziario si siano comunque riflessi indirettamente e positivamente anche nell'ambito degli OPG. Infatti, il miglioramento delle condizioni di vita all'interno delle carceri ha reso possibile lo sfoltimento della popolazione degli OPG, soprattutto evitando che soggetti assolutamente sani di mente potessero simulare disturbi psichici al solo fine di abbreviare o alleviare il periodo detentivo.
Come già accennato, nella versione originale del codice Rocco, per i prosciolti per vizio di mente, vigeva la presunzione di pericolosità, e di conseguenza l'obbligo di assegnazione al Manicomio giudiziario, per un tempo predefinito nel minimo, ma non nel massimo, in funzione della gravità del reato e non della malattia. L'avvenuta guarigione prima dello scadere del termine della misura, così come la concreta e reale non pericolosità del soggetto, non avevano alcuna rilevanza e la misura proseguiva inesorabilmente anche se il "pazzo" non era più tale, era un "ex pazzo", o se, pur in costanza di malattia, non era motivo di pericolo per la collettività. Analogo regime vigeva per i semi-infermi. Inutile ricordare che l'alibi della terapeuticità delle misure di sicurezza psichiatriche era soltanto una giustificazione formale, poichè la loro funzione era di fatto custodialistica e di passiva esclusione sociale.
La riforma penitenziaria del 1975 ha modificato profondamente, almeno dal punto di vista formale, la vecchia prospettiva meramente custodiale del sistema penitenziario italiano: in particolare, l'ospedale psichiatrico giudiziario deve essere soprattutto un luogo di trattamento, essendo affermato il diritto dell'internato ad usufruire di opportunità trattamentali finalizzate al reinserimento sociale. In tal modo, la grande innovazione dell'istituzione delle misure alternative alla detenzione, coerentemente con il principio costituzionale secondo il quale la reclusione deve essere usata come estrema ratio, pur lasciando immutata la struttura del doppio binario, fa si che la pena detentiva acquisti il carattere di trattamento - riabilitazione.
Infatti, una delle innovazioni più significative apportate dalla legge, riguardano la previsione della possibilità per l'internato in OPG di trascorrere parte del giorno fuori dall'istituto per partecipare alle attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale (art. 48). Tale regime di "semilibertà" è particolare rispetto a quello applicabile ai detenuti comuni: per questi ultimi infatti la semilibertà può essere concessa solo se la condanna riguardi specifici reati (sono esclusi reati quali rapina, estorsione, sequestro di persona) oppure solo se il condannato ha già scontato almeno la metà della pena; tali restrizioni non valgono per gli internati: la semilibertà può essere loro concessa in ogni tempo e prescindere dall'accusa da cui furono prosciolti. Occorre comunque precisare che, nonostante tale previsione, l'effettivo godimento della semilibertà è rimasto per molti internati solo un'utopia, vista la dislocazione degli OPG in Italia e le difficoltà di percorrere molti chilometri per andare a casa, uscendo la mattina e dovendo rientrare la sera. Delle misure alternative e della semilibertà si dirà più dettagliatamente nel corso del terzo capitolo.
Ulteriore innovazione della legge è contenuta nell'art. 11, 1º comma, in cui si dispone che ogni istituto carcerario, oltre a un servizio medico generale, possa contare sull'opera di almeno uno specialista in psichiatria: tale previsione ha prodotto sull'OPG l'effetto di un notevole sfoltimento della popolazione di detenuti inviati in OPG in osservazione psichiatrica.
Le innovazioni introdotte dall'Ordinamento Penitenziario più rilevanti per gli OPG sono forse quelle contenute nel Capo II del II Titolo della legge (art. 68 e seguenti), dedicato alla Magistratura di sorveglianza ed intitolato «Giudici di sorveglianza» (30) (reminiscenza del sistema penitenziario delineato dai codici Rocco e dal regolamento del 1931, poiché nelle singole norme della legge di riforma tale organo viene indicato come «Magistrato di sorveglianza»). Fin dal 1931, le funzioni in materia di misure di sicurezza erano state assegnate al giudice di sorveglianza ma la riforma del 1975 ha apportato importanti innovazioni. Il vecchio Giudice di sorveglianza acquista il nome di Magistrato, ma soprattutto acquista nuove forme, nuove competenze: le attribuzioni dell'organo monocratico contenute nella legge di riforma dell'ordinamento penitenziario sono espressione di una «concezione del Magistrato di sorveglianza essenzialmente quale organo di garanzia della legalità nell'esecuzione della sanzione detentiva di tipo tradizionale, sia pure in un'ottica più spiccatamente ispirata alla finalità della rieducazione» (31).
Oggi, i magistrati addetti agli uffici di sorveglianza non possono essere adibiti ad altre funzioni giudiziarie, ma prima del 1975, tale previsione non figurava né nel Codice penale, né nel Codice di procedura penale Rocco, e neanche nel Regolamento per gli Istituti di Prevenzione e Pena: in pratica, i Giudici di sorveglianza, prima della riforma del 1975, venivano sistematicamente adibiti anche ad altre funzioni, con grave danno all'efficienza ed efficacia della loro azione in ambito penitenziario. Con la legge del 1975, essendo le funzioni e le competenze del Magistrato di sorveglianza notevolmente aumentate, è stata avvertita dal legislatore la necessità di liberarlo da qualsiasi funzione diversa da quella, appunto, di "sorveglianza".
Dal 1975, il Magistrato di sorveglianza può vigilare sul complessivo comportamento dei detenuti, potendo accedere ai documenti personali e intrattenendo colloqui, ma anche attraverso la comunicazione dell'autorità penitenziaria al Magistrato di sorveglianza di tutti gli atti compiuti, relativi all'organizzazione e al funzionamento dei servizi. A tal fine è stata emanata la circolare del 17 febbraio 1979 nella quale l'allora Direzione Generale degli istituti di prevenzione e di pena (attuale Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria) ha indicato alle direzioni delle carceri gli atti (trasferimenti, rapporti giudiziari da esse redatti a carico dei detenuti e del personale, le particolari disposizioni relative ai servizi che possono influire sul trattamento), da inviare ai Magistrati di sorveglianza (32).
A differenza di quanto avveniva prima della riforma, il Magistrato di sorveglianza ha il potere di emettere provvedimenti riguardanti non soltanto la detenzione domiciliare e la liberazione condizionale, ma anche tutti quei provvedimenti inerenti la concessione, le prescrizioni, le modalità di esecuzione, la revoca delle misure alternative. Infatti, nelle disposizioni contenute nel Capo dedicato alla Magistratura di Sorveglianza, si dispone che le decisioni sulla concessione, sulle modalità di attuazione, sulla revoca anticipata delle misure di sicurezza, siano di competenza delle nuove Sezioni di Sorveglianza: gli Uffici di sorveglianza sono concepiti come entità autonome, sia da un punto di vista organizzativo, che da un punto di vista amministrativo. Gli Uffici di sorveglianza appartengono all'organizzazione giudiziaria: questa configurazione risponde alla necessità di prevedere un organo esterno all'amministrazione, competente in materia di controllo sull'attuazione della legge penitenziaria; si vuole creare una fase esecutiva nuova, dinamica, tesa a dare attuazione alla previsione costituzionale della finalità rieducativa della pena, senza però creare un processo bifasico (33).
In particolare, con la legge del 1975, i poteri del Magistrato di sorveglianza si sono notevolmente potenziati: egli ha assunto il compito di ispettorato e vigilanza sulle condizioni ambientali degli istituti di sua competenza, potere prima appartenente alla Procura Generale della Repubblica; in particolare l'articolo 69 della legge di riforma:
al comma 1º statuisce che il Magistrato di sorveglianza «vigila sull'organizzazione degli istituti [...] e prospetta al Ministro le esigenze dei vari servizi»;
al comma 2º stabilisce quali sono le funzioni esercitate dal Magistrato di sorveglianza nei confronti degli imputati: l'autorità giudiziaria deve vigilare al fine di assicurare che la custodia di questi soggetti venga eseguita «in conformità delle leggi e dei regolamenti» (34);
al comma 4º stabilisce che il Magistrato di sorveglianza provvede al riesame della pericolosità, nonché all'applicazione, esecuzione, trasformazione o revoca, anche anticipata, delle misure di sicurezza (35).
Affermare che il Magistrato di sorveglianza deve assicurare l'attuazione della legge penitenziaria, e che uno degli strumenti per fare ciò è il suo potere di vigilanza, implica che il suo controllo può riguardare tutto ciò che concerne, non solo l'organizzazione, ma anche la gestione degli istituti, compresi gli OPG. Tale attribuzione del Magistrato di sorveglianza è stata definita «un potere diffuso di conoscenza e valutazione riguardante i vari servizi [...] e la loro adeguatezza alle prescrizioni dell'ordinamento penitenziario ed alle esigenze della popolazione carceraria» (36). Il controllo del Magistrato di sorveglianza non deve, inoltre, essere inteso solo come mezzo per assicurare unicamente la legalità dell'attività penitenziaria, ma deve intendersi comprensivo anche di una valutazione di merito, in quanto si tratta di «valutare la funzionalità dell'azione penitenziaria rispetto al raggiungimento degli scopi che le devono essere propri».
L'importanza del trattamento rieducativo è sottolineata dal comma 1º dell'articolo in esame: nella sua ultima parte si legge che l'attività di vigilanza deve essere svolta «con particolare riguardo all'attuazione del trattamento rieducativo»: nel caso specifico degli internati prosciolti, l'organizzazione e la gestione del trattamento rieducativo, tappa fondamentale dell'internamento, costituisce uno dei maggiori problemi, viste la difficoltà derivanti non soltanto dalle deficienze strutturali e finanziarie, ma soprattutto dalle difficoltà di interazione tra personale medico e pazienti.
Il comma 2º dell'articolo 69, invece, si occupa, come già si è sottolineato, delle funzioni esercitate dal Magistrato di sorveglianza nei confronti degli imputati. Tale Magistrato deve vigilare al fine di assicurare che la custodia di questi soggetti venga eseguita «in conformità delle leggi e dei regolamenti». In relazione a questo comma, dobbiamo procedere al collegamento con l'articolo 15, comma 3º ord. penit., nel quale si afferma che gli imputati possono essere ammessi a partecipare ad attività educative, culturali, lavorative o di formazione professionale, in seguito ad una loro richiesta, salvo che l'autorità giudiziaria competente non ritenga opportuna la partecipazione (autorità che può essere anche il Magistrato di sorveglianza in accordo con l'autorità procedente) (37).
Al 6º comma dell'articolo 69 ord. penit. si stabilisce che, con ordinanza, il Magistrato di sorveglianza «provvede [..] sull'affidamento al servizio sociale dei sottoposti alla libertà vigilata, sulla remissione del debito di cui all'articolo 56, sui permessi e sulle licenze, nonché in ordine ai trasferimenti di cui al secondo comma dell'articolo 11 ed ai ricoveri di cui all'articolo 148 del codice penale».
Nel Regolamento di esecuzione della legge 354/75 (D.P.R. 431/76), oggi non più in vigore perché sostituito dal nuovo Regolamento di esecuzione dell'Ordinamento Penitenziario (DPR 230/2000), vi erano alcune norme concernenti in particolare gli infermi e i seminfermi di mente: l'art. 20, ad esempio, prevedeva una limitazione discrezionale dei diritti che la legge riconosce a ogni detenuto; i diritti alla corrispondenza epistolare o telefonica, ai colloqui, al lavoro, alla partecipazione alla attività interne all'istituto risultavano diritti civili diminuiti per i malati di mente, quasi una concessione del medico, più che un diritto. La norma era insostenibile non soltanto dal punto di vista delle finalità terapeutiche dell'internamento, ma anche e soprattutto dal punto di vista della parità di trattamento e del rispetto della dignità umana. L'attuale Regolamento di esecuzione dell'Ordinamento Penitenziario, all'art. 20, prevede invece che nei confronti dei detenuti e degli internati infermi o seminfermi di mente, debbano essere attuati interventi che favoriscano la loro partecipazione a tutte le attività trattamentali e in particolare a quelle che consentano, in quanto possibile, di mantenere, migliorare o ristabilire le loro relazioni con la famiglia e l'ambiente sociale, anche attraverso lo svolgimento di colloqui. Si prevede, inoltre, che il servizio sanitario pubblico, territorialmente competente, possa accedere all'istituto per rilevare le condizioni e le esigenze degli interessati e concordare con gli operatori penitenziari l'individuazione delle risorse esterne utili per la loro presa in carico da parte del servizio pubblico e per il loro successivo reinserimento sociale. Per quanto riguarda in particolare la corrispondenza, si stabilisce inoltre che la sottoposizione a visto di controllo delle lettere dei detenuti e degli internati infermi o seminfermi di mente possa essere proposta, oltre che nei casi previsti dall'art. 38 del Regolamento (controllo eventuale presenza di valori o altri oggetti non consentiti, sospetto che nella corrispondenza epistolare, in arrivo o in partenza, siano inseriti contenuti che costituiscono elementi di reato o che possono determinare pericolo per l'ordine e la sicurezza), anche per esigenze connesse al trattamento terapeutico, accertate dal sanitario.
Collegata alle norme relative ai poteri e alle competenze della Magistratura di Sorveglianza era la disposizione contenuta nell'articolo 99 del Regolamento del 1976, il quale stabiliva che l'accertamento delle infermità psichiche sopravvenute nei condannati doveva essere disposto dal magistrato di sorveglianza ed espletato nel medesimo istituto in cui il soggetto si trovava o in un altro della medesima categoria o, per motivi particolari, presso un OPG o una casa di cura e custodia o in un istituto o sezione per infermi o minorati psichici ovvero presso un ospedale civile. Attualmente, la materia è regolata dall'art. 112 del Regolamento di esecuzione dell'Ordinamento Penitenziario (DPR 230/2000), secondo il quale:
1. L'accertamento delle condizioni psichiche degli imputati, dei condannati e degli internati (...) è disposto, su segnalazione della direzione dell'istituto o di propria iniziativa, nei confronti degli imputati, dall'autorità giudiziaria che procede, e, nei confronti dei condannati e degli internati, dal magistrato di sorveglianza. L'accertamento è espletato nel medesimo istituto in cui il soggetto si trova o, in caso diinsufficienza di quel servizio diagnostico, in altro istituto della medesima categoria.
2. L'autorità giudiziaria che procede o il magistrato di sorveglianza possono, per particolari motivi, disporre che l'accertamento sia svolto presso un ospedale psichiatrico giudiziario, una casa di cura e custodia o in un istituto o sezione per infermi o minorati psichici, ovvero presso un ospedale civile. Il soggetto non può comunque permanere in osservazione per un periodo superiore a trenta giorni.
3. All'esito dell'accertamento, l'autorità giudiziaria che procede o il magistrato di sorveglianza, ove non adotti uno dei provvedimenti previsti dagli articoli 148, 206 e 212, secondo comma, del codice di procedura penale o dagli articoli 70, 71, e 72 del codice di procedura penale e dal comma 4 dell'articolo 111 del presente regolamento, dispone il rientro nell'istituto di provenienza.
Occorre comunque precisare che, nonostante le critiche mosse, entrambe le normative (Ordinamento penitenziario del 1975 e relativo Regolamento di attuazione del 1976) apportarono significative innovazioni anche ai poteri e alle competenze della Magistratura di sorveglianza, sia nella sua attività di organo monocratico che in quella di membro di un organo collegiale, sono stati sensibilmente aumentati, anche in riferimento agli OPG: il suo intervento si presenta potenzialmente molto più incisivo rispetto a quello del Giudice di sorveglianza previsto dai codici firmati dal Guardasigilli Rocco; come si è già detto, in questo ampliamento di competenze, hanno molto pesato l'introduzione nell'ordinamento penitenziario di istituti come l'affidamento in prova o la semilibertà, il processo di "giurisdizionalizzazione" la fase esecutiva del processo penale oltre che la mutata natura, e finalità, della stessa.
A testimonianza del potere acquisito dalla Magistratura di Sorveglianza, si ricorda l'episodio accaduto negli anni '70, in cui il giudice di sorveglianza di Firenze, Alessandro Margara, effettuando alcuni controlli sul manicomio criminale di Montelupo, scoprì che molti internati erano reclusi lì, senza nessuna condanna: come P. P. arrestato nel 36 per omicidio e liberato nel 71 per non avere commesso il fatto, o come F. M. imputato nel 1923 per omicidio e mai processato che venne messo in libertà provvisoria nel 1973, dopo cinquanta anni di carcerazione preventiva (38). Per questi soggetti il Giudice emise immediatamente provvedimenti di scarcerazione.
1.2.3. Le Leggi 180 e 833 del 1978
Fino al 31 maggio del 1978 vigeva in Italia un sistema assistenziale psichiatrico dominato dalla finalità della difesa sociale, rispetto alla quale la cura del malato veniva ad essere un carattere secondario della organizzazione manicomiale.
Infatti, la legge 11/2/1904 n. 36 recante "Disposizioni sui manicomi e gli alienati", integrata dal regolamento di esecuzione 16/8/1909 n. 615, prevedeva e regolava il complesso sistema di istituti per l'assistenza psichiatrica in cui dovevano essere "custodite e curate le persone affette, per qualunque causa, da alienazione mentale quando siano pericolose a sé e agli altri o riescano di pubblico scandalo" (39). Pertanto, per essere ricoverati, bastava che qualcuno lo richiedesse al pretore, dietro presentazione di un semplice certificato medico ratificato dall'autorità locale di Pubblica Sicurezza.
Fin dagli inizi degli anni Sessanta il movimento culturale cosiddetto "antipsichiatrico" capeggiato da Franco Basaglia (40) iniziò un percorso di rinnovamento che, passando per la costituzione di una prima comunità terapeutica, si pose l'obbiettivo di scardinare l'istituzione psichiatrica, intesa come scienza medica, ma soprattutto come strumento di controllo sociale, e sfociò nella legge 180/1978.
Sostanzialmente, partendo dalla contestazione radicale dell'ideologia del controllo sociale l'ideologia antipsichiatrica si basa sui seguenti principi:
1. abrogazione della legge psichiatrica del 1904 e disconoscimento della pericolosità quale connotato proprio della malattia mentale da equipararsi ad ogni altra malattia che possa colpire l'uomo;
2. abolizione degli ospedali psichiatrici esistenti e di ogni altra possibile istituzione psichiatrica di ricovero;
3. un concetto di cura connotato dai caratteri della volontarietà e della territorialità, intendendosi con questo ultimo termine che la terapia deve essere instaurata nell'ambiente di origine del malato, senza ricovero ospedaliero;
4. istituzione per legge regionale di dipartimenti di salute mentale, ove si svolgano le funzioni preventive, curative e riabilitative relative alla salute mentale;
5. limitazione dei trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale in condizione di degenza ospedaliera;
6. esecuzione dei trattamenti in Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura all'interno degli ospedali generali e dotati di un numero limitato di posti letto.
La legge 180 ha di fatto completamente modificato la situazione precedente riconoscendo il diritto alla libertà del cittadino nei confronti del trattamento sanitario quale deriva dall' art. 31 della Carta Costituzionale, sostituendo il concetto di "pericolosità" con quello di "tutela della salute pubblica" ai fini della legittimazione dell' obbligatorietà del trattamento stesso. La stessa legge tende inoltre alla progressiva eliminazione degli Ospedali Psichiatrici, indicati dalle nuove concezioni quali "luoghi di esclusione e sofferenza" di cui si denuncia la reale funzione di controllo sociale sotto la pretestuosa forma di cura della malattia, ove invece appare impensabile qualunque terapia all'interno di istituzioni totali (41). Restano, al contrario, in funzione, in quanto non vi si fa cenno nella legge e restano quindi soggetti alla normativa finora in vigore, gli OPG, regolati dalla legge di ordinamento penitenziario n. 354/1975 e dal nuovo regolamento di esecuzione emanato con D.P.R. 30/06/2000, n. 230.
Il varo della L.180/1978, legge relativa agli accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, riguardante soltanto i manicomi civili e non quelli giudiziari, rappresentò un momento davvero innovativo, stabilendo il diritto del cittadino con disturbi psichici ad essere curato e che il progetto terapeutico dovesse trovare attuazione a livello territoriale, nell'ambiente d'origine del malato. La cosiddetta "legge Basaglia", se da un lato si rifà alla lunga lotta antimanicomiale, dall'altro, a livello prettamente psichiatrico, apporta l'innovazione della soppressione del concetto di pericolosità sociale che fino a quel momento aveva costituito il presupposto per l'internamento nei manicomi ma anche per l'adozione della misura di sicurezza dell'OPG.
La legge 180 ha cambiato la definizione di folle, che non è più "chi è pericoloso a sé o agli altri o è di pubblico scandalo", come nella precedente legge del 1904, ma ora la definizione di disturbo psichico è una definizione solo di carattere medico, non facendo più riferimento al concetto di pericolosità. Inoltre, la distinzione sostanziale tra le due leggi sta nel fatto che mentre il legislatore del 1904 affidava all'internamento il compito di coprire i bisogni di sussistenza, sopprimendo i diritti dei suoi portatori e di difendere gli interessi della collettività sociale, occultando quelli delle sue fasce marginali, il legislatore della 180 affida ai servizi pubblici il compito di mediare tra tali necessità.
La legge riformò completamente il campo degli interventi sulla salute mentale, stabilendo il diritto del cittadino con disturbi psichici ad essere curato e non semplicemente custodito perché pericoloso; la cura non doveva essere attuata negli ospedali psichiatrici, che invece dovevano essere soppressi, né potevano essere più effettuati coattivi; la cura doveva avere carattere di volontarietà e di territorialità: la terapia doveva essere disposta nell'ambiente d'origine del malato, senza ricoveri ospedaliero, e soltanto in casi eccezionali si poteva ricorrere al ricovero coattivo in appositi reparti con pochi posti-letto all'interno degli ospedali comuni.
La legge del 1978 puntava all'abolizione dei manicomi civili e alla creazione di "Servizi di diagnosi e cura" ma anche di "appartamenti protetti" e altre strutture d'appoggio per ex degenti manicomiali o per nuovi utenti dei servizi psichiatrici. Osteggiata in mille modi e mai sufficientemente finanziata, la legge 180 è stata applicata, con esiti alterni, solo in alcune zone d'Italia. In realtà, si è dovuto attendere il 1994, anno di varo della legge finanziaria n. 724, che ha previsto la chiusura di tutti i presidi manicomiali ancora presenti sul territorio entro il 31/12/96, perché la finalità della legge 180 potesse dirsi compiuta. Per quanto riguarda i vecchi "manicomi criminali", ribattezzati Ospedali psichiatrici giudiziari, le riforme legislative in campo penitenziario e psichiatrico li hanno di fatto riguardati solo marginalmente, lasciandoli sostanzialmente immutati. Probabilmente si è convinti che chi finisce in un OPG sia quasi sempre un pericoloso assassino. Non è così: ci si può trovare qui anche per un furto o per avere procurato lesioni guaribili in dieci giorni. Impedendo il ricovero coatto in manicomio, in assenza di una riforma degli OPG, la "180" ha avuto l'effetto paradossale (e non voluto) di incrementare l'ingresso negli ospedali psichiatrici giudiziari di individui imputati o condannati per reati anche particolarmente lievi e per vicende che palesemente non ineriscono alle turbe psichiche (qualunque cosa si intenda con questa definizione): ad esempio, l'ubriaco che insulta gli agenti o chi vuole spacciare assegni falsi. E, considerata la lentezza della giustizia italiana si può rimanere per molti mesi in OPG aspettando la perizia ordinata dai giudici.
In altri termini, la legge non si limitava ad abolire l'ospedale psichiatrico come istituzione manicomiale, ma ha dettato precise ed inequivocabili norme tese a rendere assai difficile l'istituzionalizzazione della malattia mentale e della stessa psichiatria.
In realtà, la sua applicazione, realizzata attraverso le scarse strutture disponibili, non solo, non è tutt'ora in grado di dare risposte terapeutiche efficaci alla malattia mentale, ma neppure di svolgere le funzioni di prevenzione previste (42).
In riferimento particolare all'OPG, il trattamento dell'infermo di mente-reo è risulto essere per molti anni una questione quasi inesplorata. Invece, il cambiamento dell'atteggiamento sociale e dello approccio scientifico verificatosi negli ultimi decenni, nei confronti del disturbo psichico, ha determinato un rinnovamento radicale non solo nei metodi terapeutici, ma anche nella normativa sull' assistenza psichiatrica.
In realtà, la storia degli OPG dimostra come una vera e propria riforma non sia mai stata attuata e anche quando fu varata la legge 180/1978 la situazione non cambiò poi molto: i manicomi criminali rimasero, mutando, come ricordato, solo il loro nome in Ospedali psichiatrici giudiziari.
Tuttavia, benché non attraverso interventi legislativi, qualcosa si è mosso intorno alla riforma: gli istituti e la loro conduzione hanno perso progressivamente una parte del rigore della custodia per aprirsi a veri e propri interventi di terapia riabilitativa, gestita a livello amministrativo dai direttori degli istituti e dal personale interno, attraverso una ristrutturazione dei luoghi e delle terapie mediche, ma anche e soprattutto attraverso iniziative come la terapia occupazionale, l'arte-terapia, attività di gruppo, ecc. Infatti, come mostrerò nel secondo capitolo con specifico riferimento alla situazione dell'OPG di Montelupo Fiorentino, anche se le riforme legislative non avevano modificato sostanzialmente l'assetto interno e i problemi gestionali degli Ospedali psichiatrici giudiziari, già a partire dagli anni 70, gli operatori a vario titolo in tali strutture si preoccupavano della risocializzazione degli internati, creando iniziative sociali, con l'aiuto degli psichiatri e del personale carcerario.
La legge 180 fu quasi interamente assorbita dall'entrata in vigore della Legge 833 del 1978, istitutiva del servizio sanitario nazionale che, recependone i contenuti, accoglieva le norme di argomento psichiatrico inserendole nel contesto più ampio dell'intervento sanitario pubblico ed eliminando ogni differenziazione tra patologia psichiatrica e patologia generale.
Le critiche alla riforma del 1978 si appuntano soprattutto alla mancata attuazione delle sezioni speciali degli ospedali col risultato che molti malati vengono giudicati non pericolosi e vengono affidati esclusivamente alle cure delle loro famiglie, talvolta con rischio per l'integrità fisica delle persone, ovvero vengono giudicati ancora pericolosi e trattenuti in istituto anche laddove, con un minimo di assistenza terapeutica, non lo sarebbero più (43). Dopo la legge 180 i già gravi problemi di gestione degli ospedali psichiatrici giudiziari hanno subito quindi una notevole accentuazione. Di ciò è testimone anche l'incremento negli anni delle presenze, dovuto al moltiplicarsi del numero di ammissioni per reati di lieve entità. Infatti, quando era in vigore la vecchia legge del 1904, l'autorità di polizia preferiva ricorrere ad una gestione medico- psichiatrica di piccoli reati come risse, molestie ed altri di live entità, disponendo il ricovero in ospedale psichiatrico, anziché attivare l'azione penale.
Dopo la riforma ciò non è più possibile e anche per reati lievi scatta facilmente la denuncia alla Magistratura. Ne deriva che gli OPG hanno dovuto assumere su di loro uno dei ruoli prima svolti dal vecchio manicomio civile, ma con una carica di violenza addizionale, per effetto del tipo di gestione essenzialmente carceraria ed in evidente contrasto con qualsiasi finalità terapeutica (44). Nessun mutamento avviene invece nella struttura degli OPG: l'organizzazione interna degli istituti ed il regime di vita degli internati non subiscono modifiche apprezzabili: "il trattamento risulta infatti troppo simile a quello disposto in carcere per gli autori di reato capaci di intendere e di volere, per cui è difficile parlare di un trattamento terapeutico in senso proprio, giacché la parte custodiale di esso gioca senza dubbio un ruolo preponderante" (45). In conclusione, dopo la legge 180 la contraddizione fra nome di istituto terapeutico e sostanza di istituto meramente carcerario non si è spenta ma, al contrario, si è esaltata con la presenza in OPG di un numero elevato di prosciolti, molti dei quali bisognosi di interventi socio-assistenziali, e di un numero non molto elevato, ma pur sempre critico, di detenuti sani e di elevata pericolosità.
Va comunque sottolineato che, a distanza di pochi mesi dalla sua emanazione, i principi ispiratori della legge 180/1978 vennero integralmente trasfusi nella legge 833/1978 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale e di lì a poco determinarono gli effetti rivoluzionari non soltanto nella prassi dell'assistenza psichiatrica, ma anche nel complesso dei valori socio-culturali della società italiana (46). In particolare, si fa notare come tale riforma ha sì riconosciuto "l'esigenza, ancor prima del necessario momento terapeutico ed anche custodialistico, della prevenzione ... e la consapevolezza che ogni malato di mente è un caso unico, da seguire con adeguata professionalità e vocazione" ma ha comportato anche "il lamentato pericolo del disinteressamento e dell'abbandono del malato di mente. Con tutti i rischi che questi, lasciato ai propri incubi e depressioni, privato dell'assistenza terapeutica o rimesso in libertà dal giudice di sorveglianza, pervengaal delitto o a nuovo delitto".
La legge 833, con l'art. 33, 1º comma, dispone che «Gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono di norma volontari» ed al 2º aggiunge che:
Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall'autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, secondo l'articolo 32 della costituzione, nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura...Lo scopo del trattamento diviene quello di recuperare, e mantenere vitali in quanto ancora esistano, le capacità di espansione della personalità del paziente nelle relazioni con le cose e con le persone.
Con tale riforma si è finalmente giunti a stabilire che «il malato di mente non è un criminale, è un reietto da relegare in luoghi oscuri legato alle catene», ma «un malato come tutti gli altri, che può pertanto migliorare e guarire» (47).
Come già detto, la legge di riforma sanitaria, recependo praticamente la legge 180, all'art. 33, comma secondo, prevede un caso di trattamento sanitario ospedaliero (in seguito TSO) nei confronti di persone affette da malattia mentale. Nella necessità di prevedere esplicitamente i casi in cui si possa ricorrere ad un trattamento sanitario obbligatorio l'art. 34, 4 comma prevede che, nel caso di malati di mente, questo può svolgersi «in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall'infermo e se non vi siano le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere»; in questo caso ci troviamo di fronte ad un trattamento sanitario obbligatorio ospedaliero. In effetti nei TSO vanno compresi anche gli interventi domiciliari ed ambulatoriali, ma il legislatore ha regolamentato solo quelli ospedalieri, lasciando alle singole regioni il compito di provvedere agli altri.Nel nuovo sistema il TSO si rivela un rimedio curativo particolare rispetto all'ordinario momento preventivo e riabilitativo, al quale, deve provvedere l'unità sanitaria locale: tale rimedio curativo, volto alla salute del malato e non più a quella sociale, si può quindi giustificare solo in presenza di alterazioni psicosomatiche tanto gravi da richiedere interventi terapeutici ospedalieri, e in presenza di condizioni tali da rendere impossibili efficaci trattamenti ambulatoriali o a domicilio, quando il malato rifiuta di sottoporsi volontariamente al trattamento ospedaliero. La legge prevede che tali accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori «devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato» (48) e in ogni caso questi deve essere posto in grado di comunicare con chi ritenga opportuno. Alla luce di queste norme si comprende quanto il sistema sia cambiato: prima della 180 l'obbligo del ricovero era giustificato dalla pericolosità del malato e così l'autorità, assumendosi la responsabilità del soggetto, poteva di rimando sospendere alcuni diritti del soggetto come la libertà personale. Questo era giustificato dal compito di custodia e di difesa sociale, e non di cura della salute del malato, che l'autorità stessa aveva.
Oggi l'unica ragione per cui l'autorità può costringere la libertà del malato è data dalla necessità di sottoporre il malato ad una cura e sempre dopo aver ricevuto da questo il rifiuto di sottoporsi ad un trattamento volontario.
Un'altra innovazione di rilievo consiste nel riservare i TSO alle sole strutture pubbliche con l'esclusione di ogni struttura privata convenzionata o meno. Tale conclusione si ricava dall'analisi comparata degli artt. 33, 4º comma e 34, 3º comma, infatti il primo, relativo ai TSO in generale, prevede la possibilità che questi vengano svolti anche in strutture ospedaliere convenzionate, mentre il secondo, relativo ai TSO riservato ai malati di mente, non fa menzione di tale possibilità, dal che è lecito ritenerla esclusa (49).
La rottura con il sistema precedente è assolutamente netta: il punto fondamentale del nuovo sistema è certamente rappresentato dal principio della volontarietà del trattamento sanitario, trattamento che prende in considerazione la somministrazione obbligatoria di cure solo come eccezione assoluta al sistema. Innovazioni vengono apportate anche al trattamento obbligatorio: non si guarda più soltanto alla pericolosità sociale del soggetto, ma ci si riferisce solo ed esclusivamente alla necessità di somministrare urgenti interventi terapeutici in assenza del consenso del malato, e in condizioni tali da non poter effettuare la cura al di fuori della struttura ospedaliera.
Viene quindi dimenticata ogni funzione "poliziesca" del ricovero; il soggetto può essere obbligato a subire il trattamento sanitario solo con lo scopo di migliorare il suo stato di salute e non per diminuire la sua pericolosità sociale, anche se chiaramente perseguendo il primo fine si raggiunge implicitamente anche il secondo.
In questa logica venne completamente abolito il vecchio sistema istituzionale con il divieto di utilizzare i vecchi ospedali psichiatrici, anche come divisioni specialistiche psichiatriche di ospedali generali, di costruirne di nuovi, e di istituire negli ospedali generali divisioni o sezioni psichiatriche e di utilizzare come tali divisioni o sezioni neurologiche o neuropsichiatriche. Appare allora come un logico corollario di questo indirizzo la decisione di vietare nuovi ricoveri coatti sin dal 31 dicembre 1980, salva la possibilità di accettare solo malati già precedentemente ricoverati, bisognosi di cure in stato di degenza ospedaliera, ed in quanto essi stessi ne facciano esplicita richiesta (art. 8).
In questo modo, a partire dalla 180, si andava delineando un nuovo schema di risposta opposto all'internamento (la "deistituzionalizzazione" ed il "servizio psichiatrico territoriale" realizzati nelle cosiddette "esperienze avanzate") ed è già emerso, contro lo scenario manicomio, il personaggio del cittadino con pienezza di diritti tra cui quello della salute. Questo passaggio viene assunto in pieno dalla 180 che riconosce il malato portatore di bisogni e di diritti non contraddittori gli uni con gli altri; portatore di istanze soggettive e di interessi sociali. Il servizio della 180 deve infatti dotarsi di strumenti che consentano la risposta al bisogno senza la soppressione del diritto: ovvero deve essere in grado anche di indurre il soggetto al trattamento senza per questo ricorrere alla sua coercizione; deve essere in grado di tutelare il funzionamento e la riproduzione del gruppo sociale mentre lavora alla riproduzione del singolo soggetto. Il servizio che la 180 delinea ha in questo senso come oggetto e finalità la salute come risultato sociale da raggiungere in rapporto a cittadini che in diversi gradi sono sani e/o malati ma i cui bisogni ed interessi il servizio deve appunto essere in grado di armonizzare. Il personaggio che la 180 disegna, pur malato, è un cittadino come gli altri: dunque non è solo malato, non solo cioè portatore di questo bisogno come circoscritto e separabile, anche se portatore di una serie complessa di necessità, tanto più articolate e variegate quanto meno efficace è stato, in altri luoghi ed istituzioni, la risposta ai suoi bisogni della sua vita.
Restando tuttavia immutato il codice penale, sul piano pratico si è determinata una situazione paradossale che permane tuttora: da un lato, la legge 833 supera il concetto di pericolosità e di pubblico scandalo; dall'altro lato, il codice penale continua a incentrarsi sul concetto di presunzione di pericolosità sociale nei confronti del malato di mente che ha commesso un reato.
Nel frattempo, alcuni gravi scandali all'interno degli istituti contribuirono a stimolare l'avvio di alcune modifiche nell'impianto organizzativo: le gravi carenze di gestione, i problemi derivanti dall'insufficienza delle risorse finanziarie, derivanti soprattutto da un clima di generale indifferenza, hanno reso possibile, nel decennio successivo, una sorta di inversione di tendenza da parte dell'Amministrazione Penitenziaria Centrale, che ha condotto ad una più attenta politica di finanziamento.
1.2.4. La giurisprudenza degli anni '80 e la presentazione del Progetto "Grossi"
Negli anni '80, notevoli incongruenze normative si erano create all'interno dell'ordinamento, alle quali cercò di rimediare la Corte Costituzionale, innanzitutto con la sentenza n. 139 del 27.7.1982, dichiarando obbligatorio il nuovo accertamento della pericolosità sociale prima dell'applicazione della misura, affermando l'incostituzionalità della presunzione assoluta di durata della pericolosità sociale.
In mancanza di una riforma legislativa, tale giurisprudenza della Corte Costituzionale che ha sancito l'incostituzionalità dell'art. 222 c.p. (in seguito soppresso), nella parte in cui affermava l'obbligo di applicare sempre la misura di sicurezza, ha tracciato l'ulteriore passo verso l'introduzione del principio secondo il quale la misura di sicurezza non può essere applicata al soggetto prosciolto per vizio totale o parziale di mente se, al momento della sua applicazione, l'infermità da cui era affetto quando aveva commesso il delitto è venuta nel frattempo a cessare.
Il legislatore, seguendo l'indirizzo della Corte Costituzionale, ha introdotto l'obbligo dell'accertamento della pericolosità derivante da infermità di mente, escludendo quindi la pericolosità presunta, quale presupposto indispensabile per applicare la misura di sicurezza per vizio totale o parziale di mente; vengono contemporaneamente introdotti il riesame della pericolosità e la revoca anticipata delle misure di sicurezza, prima della scadenza del periodo minimo di internamento.
Nell'attuale disciplina, l'articolo 222 del codice penale prevede il ricovero dell'imputato in un ospedale psichiatrico giudiziario nel caso in cui si è proceduto a proscioglimento per infermità psichica, per un tempo non inferiore a due anni. L'articolo prosegue prevedendo che nel caso in cui si tratti di contravvenzione, di delitti colposi o di delitti per i quali la legge prevede la sola sanzione della pena pecuniaria o lareclusione per un tempo non superiore a due anni, non si applica, pur in presenza di proscioglimento per totale incapacità di intendere e di volere, la misura in esame, ma la sentenza è comunicata all'autorità di pubblica sicurezza. Se per il delitto commesso, è prevista la pena dell'ergastolo, la durata minima del ricovero è di dieci anni mentre, ove la pena della reclusione sia prevista in misura non inferiore a dieci anni, il ricovero deve essere disposto per almeno cinque anni.
In merito alla durata della misura di sicurezza, occorre precisare che, affinché si realizzi la dimissione di un internato per revoca della misura di sicurezza, sono necessarie una serie di condizioni:
che sia scemata la pericolosità sociale dell'individuo;
che esista un progetto di reinserimento sociale, in famiglia o in comunità;
che le strutture sanitarie del territorio siano disponibili a seguire il soggetto farmacologicamente e terapeuticamente;
che la società tutta, il luogo di appartenenza, il borgo, il paese del ricoverato, sia disponibile e non si opponga al rientro del folle-reo.
Questo implica una notevole difficoltà di applicazione della revoca della misura di sicurezza: a Montelupo in 10 anni si è avuto un solo caso di revoca anticipata. È frequente, invece, una serie, a volte infinita, di proroghe, in gergo dette dagli internati "stecche". Infatti, ci sono stati casi di persone internate in OPG per periodi lunghissimi, una addirittura per oltre 40 anni.
Oltre a questo caso clamoroso, sulla base delle statistiche sulla durata degli internamenti, sulle "proroghe" dell'internamento (rispetto al tempo stabilito dai giudici), sul ritorno ad una vita "normale" delle persone dimesse, si può osservare che spesso la misura di sicurezza, proprio per la sua natura basata su un tempo minimo di applicazione e non su un fine pena certo ed improrogabile, diviene una sorta di "ergastolo bianco".
I magistrati di sorveglianza, che periodicamente controllano la persistenza dei presupposti per la continuazione della misura, nei casi ove manchi anche uno solo dei requisiti sopra elencati, o comunque ove non si prevedano ottimi risultati di reinserimento, ma soprattutto di scemata pericolosità del soggetto, sono tenuti a prorogare la scadenza della misura, anche per internati che abbiano commesso reati di lieve entità.
Nel 1983 venne presentato in Senato il disegno di legge n. 177, detto progetto Grossi, dal nome del primo firmatario (conosciuto anche come progetto Vinci-Grossi), progetto che rappresentò il primo serio tentativo di colmare le lacune della legge n. 180 (50). L'intento principale che i firmatari del progetto si proponevano era quello di abolire la legislazione penale speciale per i sofferenti psichici, presente nei codici e nella legislazione penitenziaria italiana. La considerazione di base era che, in effetti, le norme vigenti non tutelano affatto i soggetti infermi di mente: questi, essendo considerati dei privilegiati, sono trascurati dal legislatore.
La soluzione proposta dal disegno di legge in esame era quella provocatoria di abolire la nozione stessa di incapacità di intendere e di volere nei confronti del malato di mente, dichiarandolo quindi imputabile. La presunta imputabilità del soggetto che soffre di disturbi psichici è dovuta al fatto che si ritiene che egli possa disporre di una certa porzione di libertà, necessaria e sufficiente a dominare il proprio comportamento.
Questa conclusione trova del resto riscontro nella concezione dominante della psichiatria moderna, che attribuisce al malato di mente un alto grado di libero arbitrio e che tende, nell'ambito terapeutico, a renderlo consapevole della malattia e dei suoi effetti. Così, se il malto di mente non è più considerato un oggetto, bensì un soggetto, potrà a maggior ragione essere considerato autore di reato.
La conclusione a cui arrivava il progetto era di dichiarare imputabile il soggetto infermo di mente-autore di reato, equiparandolo ai soggetti che commettono reati in stato di ubriachezza, di stupefazione, o in stato emotivo e passionale, abolendo quindi l'internamento in Ospedale psichiatrico giudiziario, sostituendolo con il carcere, perseguendo l'obiettivo di definitiva deistituzionalizzazione manicomiale (51).
Analizzando più da vicino gli articoli del progetto, i primi dieci prevedevano l'abrogazione della legislazione penale speciale per malati di mente. L'art. 1 stabiliva che l'infermità psichica non esclude né diminuisce l'imputabilità, (si eliminava anche la nozione di semimputabilità) e che l'art. 89 c.p. fosse soppresso. L'art. 9 sopprimeva anche l'art. 222 del c.p., in modo da far venir meno l'applicazione della misura di sicurezza dell'Ospedale psichiatrico giudiziario.
Gli articoli da 11 a 17 parificavano gli effetti giuridici della malattia di mente alla malattia fisica, mentre gli articoli da 18 a 21 si occupavano della tutela della salute del condannato. Infatti gli artt. 18 e 19 prevedevano il servizio sanitario all'interno del carcere, disponendo che quest'ultimo fosse attrezzato con le strutture sanitarie idonee alla cura dei disturbi psichici dei detenuti e che per la pratica delle cure e delle terapie riabilitative medico-psichiatriche gli organi penitenziari richiedessero la collaborazione dei servizi psichiatrici territoriali. Per l'attuazione di queste norme, dovevano essere istituite apposite sezioni carcerarie per i detenuti con disturbi psichici gravi, che non risultava possibile curare in carcere.
Veniva sancito il diritto del detenuto alle cure mediche e riabilitative, a cui veniva fatto corrispondere l'obbligo, per gli organi penitenziari, di elaborare, all'inizio dell'esecuzione della pena, un piano per la cura e l'assistenza psichiatrica. Questo piano avrebbe dovuto essere redatto da un medico scelto dallo stesso detenuto e approvato dal giudice di sorveglianza; il medico rimaneva responsabile della attuazione e riferiva gli esiti, ogni tre mesi, al magistrato di sorveglianza.
Risulta interessante l'art. 21 del progetto, che prevedeva l'applicazione delle misure alternative alla detenzione e la sospensione condizionale della pena ai malati di mente- rei (a scopo terapeutico e per il tempo necessario a tale finalità). Anche durante la sospensione il soggetto avrebbe dovuto sottoporsi alla cura, altrimenti si sarebbe incorsi nella revoca del beneficio.
Dall'analisi dei suddetti articoli, risulta che il disegno di legge Grossi, perseguendo sostanzialmente gli stessi obiettivi della legge 180, sia uno dei più avanzati e coerenti con le istanze di definitivo superamento e smantellamento dell'istituzione OPG e del divorzio tra psichiatria e giustizia criminale.
Il disegno di legge in esame ha suscitato molteplici critiche, sia da parte degli psichiatri, che dei magistrati e dei politici. Riteniamo opportuno soffermarci su queste osservazioni, partendo da quelle mosse da due psichiatri del servizio territoriale della regione Emilia Romagna, Giuseppe Berti Ceroni e Giuseppe Franzoni. I due medici partono dalla constatazione che le persone non sono "tutte matte", ma anche se gravemente disturbate, conservano una certa capacità di autodeterminazione.
Conseguentemente essi ritengono non più accettabile l'ipotesi del vizio totale di mente, ma valutano coerente la permanenza di un vizio parziale (52). Una volta accettato che si può essere autori di reato e affetti da disturbi psichici e quindi si sopprime il concetto di non-imputabilità, non convince i due psichiatri, il dispositivo sostitutivo di esecuzione della pena. Gli interventi psichiatrici non devono essere prestati da servizi quali i dipartimenti di salute mentale delle unità sanitarie, ma ci si chiede a che pro reintrodurre l'obbligo di sottoporsi a cure e a prescrizioni mediche come unica alternativa alla detenzione, secondo un programma che deve essere addirittura sottoposto all'approvazione del giudice. Ciò è palesemente in contrasto con il trattamento sanitario obbligatorio, che prevede sì un intervento del giudice, ma solo in funzione di verifica del rispetto delle procedure previste (53).
Berti Ceroni e Franzoni vedono nel compito del magistrato di sorveglianza previsto dal progetto Grossi, un primo passo verso il condizionamento nella selezione delle terapie da attuare. In particolare, il giudice potrebbe condizionare la scelta a favore di trattamenti farmacologici, a dispetto di quelli ad impronta risocializzante.
Sembra che il progetto Grossi non avesse intenzione di attribuire al giudice un così vasto potere: i due psichiatri trascurano la previsione della libera scelta da parte del detenuto del medico di fiducia, tanto che quest'ultimo deve appartenere al servizio sanitario esterno al carcere; inoltre, è solo con il consenso del detenuto che il piano di cura può divenire esecutivo. Indubbiamente, tali norme sono indice della volontà di responsabilizzare il soggetto sofferente psichico e di renderlo finalmente partecipe della propria guarigione.
Altrettanto critici nei confronti del progetto si sono dimostrati alcuni psichiatri appartenenti alla corrente opposta alla ideologia ispiratrice della legge 180: essi rifiutano categoricamente l'equiparazione fra malati di mente e sani di mente, che sta alla base del progetto Grossi e della abolizione della non imputabilità. Rifiutano cioè, di considerare uguali persone diverse a causa della malattia mentale, in quanto questo sarebbe il peggiore affronto alla dignità dei malati. Secondo questa prospettiva, il progetto non tiene conto della diversità e degli effetti invalidanti della malattia mentale (54).
Nell'ambito della magistratura, ci soffermiamo sul commento di Gian Paolo Meucci, ex-Presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze e soprattutto ex Presidente dell'Associazione per la lotta alla malattia mentale. Egli sostiene che con il disegno di legge n. 117 "si getta via il bambino con l'acqua sporca". Il timore di Meucci è che con l'abolizione della non-imputabilità per gli adulti malati di mente, si possa in futuro arrivare all'abolizione della non-imputabilità anche nei confronti dei soggetti minorenni. Francamente tale timore ci sembra eccessivo e per lo più, non si vede come le previsioni normative del disegno di legge in questione possano portare, come afferma il magistrato, ad un passo indietro nell'evoluzione del diritto penale (55).
In generale, si può dire che l'intento abolizionistico espresso dal progetto Grossi può risultare mistificante, poiché neppure tale progetto ha potuto rinunciare all'esistenza di istituzioni segregative di controllo per i folli, se pur diverse dagli OPG (56).
Innegabili, però, sono alcuni meriti del D.d.l. 117: oltre al riconoscimento per gli infermi di mente delle stesse facilitazioni dei detenuti imputabili, come la sospensione della pena e le misure alternative alla detenzione, anche l'aver previsto una terapia che si collochi al di fuori della struttura chiusa dell'Ospedale psichiatrico giudiziario. Le premesse su cui si fonda il progetto Grossi sono state difese da più parti, e sono quelle della deistituzionalizzazione dei malati di mente, promosse in precedenza dalla legge 180. La soluzione del carcere come alternativa al Manicomio giudiziario si scontra con tali premesse, visto che non elimina ed anzi acuisce il problema di una cura efficace all'interno di una istituzione altrettanto chiusa e ghettizzante. Riteniamo comunque, che la soluzione dell'abolizione della non imputabilità per i malati di mente, con la conseguente abolizione dei concetti di pericolosità sociale e della pratica della perizia psichiatrica, sia una tappa fondamentale e necessaria per arrivare all'eliminazione degli ospedali psichiatrici giudiziari.
Il disegno di legge Grossi non divenne mai legge e si perse così un'ulteriore possibilità di regolare a livello legislativo la materia specifica dell'internamento in OPG.
1.2.5. La Legge Gozzini
Sul piano della legislazione penitenziaria generale, invece, la legge 10 ottobre 1986, n. 663, detta "legge Gozzini", segnò un significativo momento di svolta, abolendo tutte le presunzioni di pericolosità previste dal codice penale, sia quelle di pericolosità qualificata (abitualità, professionalità, tendenza a delinquere), sia quelle connesse a certi tipi di reati, sia le presunzioni nei confronti dei portatori di vizio totale o parziale di mente.
Un esempio specifico riguarda la necessità di definire se l'imputato abbia compiuto il reato a causa di vizio totale o parziale di mente: in tal caso si deve procedere ad accertamento della pericolosità sociale, secondo le disposizioni degli articoli 203 e 222 del codice penale; tale valutazione costituisce però una prognosi di futuro comportamento delittuoso per la quale non vale alcuna presunzione. Questo principio è stato appunto sancito dall'articolo 31 della legge 663/86 che, recependo l'orientamento della Corte Costituzionale, ha abrogato l'articolo 204 del codice penale (pericolosità sociale presunta) e ha imposto l'accertamento della pericolosità caso per caso. Pertanto, se l'autore di reato è prosciolto per vizio totale di mente, ha il diritto di non subire le misure di sicurezza senza il previo accertamento tecnico. L'art. 31 della legge Gozzini abroga dunque l'art. 204 c.p. e dispone:
Tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa.
Inoltre si può presentare il caso di infermità sopravvenuta alla commissione del reato, così che se la situazione processuale lo consente, vengono concessi gli arresti domiciliari (articolo 284 codice penale), previo accertamento delle condizioni di salute mentale tali, che il soggetto possa essere autorizzato a soggiornare in un "luogo pubblico di cura e di assistenza". Del pari, anche la custodia cautelare in carcere (articolo 285 codice procedura penale) può essere sostituita dalla custodia cautelare in luogo di cura (articolo 286 codice procedura penale) se l'imputato "si trova in tale stato di mente che ne esclude o ne diminuisce grandemente la capacità d'intendere e di volere" (art. 85 codice penale). In tale ipotesi la custodia diventa "ricovero provvisorio in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero" (art. 73 codice procedura penale), con i provvedimenti necessari per "prevenire il pericolo di fuga". Il ricovero non può essere mantenuto quando risulta che l'imputato non è più infermo di mente.
Per quanto riguarda le misure alternative, la legge Gozzini opera un sistematico ampliamento della possibilità di beneficiare della loro concessione, ma sostanzialmente, né la riforma dell'ordinamento penitenziario (L. 354/1975 e L. Gozzini), né la riforma del sistema sanitario (L.180/1978) che avrebbe dovuto realizzare il definitivo smantellamento dei manicomi civili, riuscirono a coinvolgere effettivamente i manicomi giudiziari.
Inoltre, i gravi scandali e le carenze gestionali dovute alla scarsità delle risorse finanziarie e all'indifferenza dell'Amministrazione Penitenziaria centrale, rappresentarono i maggiori problemi da risolvere negli anni '70: nel successivo decennio, fino ad oggi, si sta progressivamente attuando una sorta di inversione di tendenza, come testimoniano il ricambio dei quadri dirigenziali degli istituti e un apiù attenta politica di finanziamento; inoltre, anche la Magistratura è divenuta sempre più sensibile alle problematiche inerenti l'OPG.
1.2.6. Il nuovo codice di procedura penale
Il nuovo codice di procedura penale del 1988, entrato in vigore nel 1989, ha portato significative novità riguardo la definizione di "pericolosità sociale", e di conseguenza anche riguardo la flessibilità delle misure di sicurezza.
Innanzi tutto occorre precisare che, nel sistema previgente, il proscioglimento per vizio mentale comportava necessariamente l'applicazione di una misura di sicurezza sulla base di una presunzione legale sia di pericolosità, che di durata della misura, a seconda del tipo di reato commesso. A tale rigidità legislativa si aggiungeva una rigidità di tipo gestionale e strutturale degli OPG: la presenza di personale medico all'interno di tali strutture era costituita essenzialmente dal solo direttore e dai medici generici; per il resto la gestione e l'organizzazione interna era di tipo prettamente carcerario. La prevalenza della finalità custodiale era legittimata dall'eterogeneità della popolazione accolta in OPG, visto che tali strutture devono ospitare varie tipologie di internati: non soltanto i prosciolti per vizio mentale, ma anche soggetti inviati in osservazione, oppure sottoposti a misura di sicurezza provvisoria. La rigidità del previgente sistema era ancor più intollerabile in riferimento a quei soggetti ai quali veniva applicata una misura di sicurezza provvisoria a norma dell'art. 206 c.p., cioè agli imputati in attesa di processo: a tali soggetti viene infatti applicata una misura di sicurezza senza limiti di durata, fino a quando la sentenza non diventa definitiva. Per tali soggetti sarebbe auspicabile l'applicazione di misure di sicurezza diverse dall'OPG, come, ad esempio, il ricovero in case di cura e custodia, secondo quanto disposto dall'art. 286 c.p.
Attualmente, quindi, l'applicazione della misura di sicurezza è subordinata a una specifica procedura, introdotta, come già accennato, dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 139 del 1982, attraverso la quale si mira a un accertamento effettivo della pericolosità sociale dell'infermo di mente non imputabile, precedentemente dichiarabile anche sulla mera presunzione di essa: oggi, tale principio è sancito dall'art. 679 c.p.p. che introduce l'accertamento della pericolosità sociale del soggetto prosciolto per infermità mentale a cura del Magistrato di Sorveglianza prima dell'effettiva esecuzione della misura di sicurezza applicata in sentenza. Sostanzialmente, con il nuovo codice di procedura penale è stata finalmente soppressa la presunzione di pericolosità e di durata: oggi la misura è applicata sulla base di una valutazione discrezionale del magistrato di sorveglianza, in riferimento al momento in cui deve essere data esecuzione alla misura di sicurezza, e revocabile in qualsiasi momento.
Prima della definitiva applicazione della misura, che deve necessariamente essere disposta da una sentenza, la misura può essere applicata anche provvisoriamente, in qualsiasi momento del giudizio, ai sensi degli artt. 206 c.p. e 312-313 c.p.p.
Le misure di sicurezza, applicate esclusivamente in conseguenza di un regolare procedimento penale, sono stabilite, si ribadisce, nella loro durata minima, ma non nel massimo: ciò significa che il giudice, alla scadenza del periodo minimo della misura, valuta se la pericolosità sociale del soggetto permane o meno, disponendo la proroga dell'internamento o dell'osservazione psichiatrica, oppure la remissione in libertà.
In altre parole, la misura può essere prorogata per un tempo indeterminato, fino a quando non si reputi che la pericolosità sia venuta meno.
Il giudizio di proroga della misura o di dimissione viene attualmente effettuato dal Magistrato di sorveglianza, sulla base di una serie di valutazioni, sia mediche che legali, che hanno come base l'osservazione psichiatrica che, in OPG, l'equipe sanitaria svolge su ciascuno degli internati; per prendere tale decisione, il giudice deve valutare l'evoluzione delle condizioni psicofisiche, confrontando la condizione di salute del soggetto al momento dell'internamento con quella del momento del riesame della pericolosità: dovrà essere quindi valutato il complessivo lavoro svolto dagli operatori sanitari all'interno dell'OPG, i quali, attraverso le attività trattamentali, sia di tipo medico, come gli interventi psicofarmacologici, sia di tipo socio-riabilitativo, quali le attività ricreative e culturali, eseguono un costante monitoraggio del comportamento del soggetto, delle sue difficoltà di relazione e delle anomalie della sfera cognitiva. Ai sensi degli artt. 207 c.p. e 69 Ord. Pen., soltanto quando si reputi di aver raggiunto risultati tali da poter prospettare il reinserimento del soggetto in società, avendo egli raggiunti un sufficiente equilibrio psicopatologico, si potrà disporre la revoca della misura di sicurezza, non solo al termine del periodo minimo stabilito dalla legge, ma anche anticipatamente, sempre che i presupposti della pericolosità siano venuti meno.
Particolarmente significativa è stata la recente giurisprudenza della Corte Costituzionale che, nella sentenza del 18 luglio di quest'anno, ha sancito il principio secondo il quale, ove in concreto la misura coercitiva del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario si riveli tale da arrecare presumibilmente un danno alla salute psichica dell'infermo, non può essere considerata giustificata e deve essere sostituita con il ricovero in comunità terapeutiche o con la libertà vigilata.
1.2.7. Le tipologie giuridiche di internati in OPG
Abbiamo già accennato nel corso del capitolo che un soggetto può trovarsi recluso in un ospedale psichiatrico giudiziario in virtù di più e diverse posizioni giuridiche contemporaneamente. L'Ospedale psichiatrico giudiziario, che nasce come istituzione segregante dei condannati impazziti, è divenuto oggi la risposta a situazioni giuridiche e cliniche differenti e molteplici: è diventato la soluzione alle insufficienze organizzative di tutte le altre "istituzioni totali" presenti nel territorio italiano, e in particolar modo al carcere.
L'analisi della popolazione reclusa in Ospedale psichiatrico giudiziario può essere compiuta distinguendola per categorie giuridiche, che in questa sede vengono analizzate in dettaglio (57) :
1) Prosciolti folli: sono i prosciolti per vizio totale o parziale di mente, giudicati non imputabili per infermità mentale al momento del fatto, a cui viene applicata la misura di sicurezza del Manicomio giudiziario ai sensi dell'art. 222 c.p.
2) Condannati a pena sospesa: sono quelle persone condannate a pena detentiva che, durante il corso della detenzione, presentano i sintomi di una malattia mentale.
In questi casi, se si ritiene che la malattia mentale sia di gravità tale da impedire l'ulteriore esecuzione della pena, questa viene sospesa e il condannato inviato in OPG (art. 148 c.p.). Il meccanismo di sospensione della pena è attivato dal sospetto dell'insorgenza di una malattia mentale ai danni del condannato, durante la sua detenzione. Il giudice di sorveglianza ordina, dopo aver espletato le indagini e gli accertamenti psichiatrici che ritiene opportuni, che l'esecuzione della pena detentiva sia interrotta, rimanendo sospeso il periodo di tempo da trascorrere ancora in carcere.
La direzione dell'Ospedale psichiatrico giudiziario invia periodicamente all'autorità giudiziaria una relazione sulle condizioni psichiche del condannato, e fino a che non viene accertata la guarigione, la pena resta sospesa. Se e quando si verifica una guarigione, la pena ricomincia a decorrere dal momento in cui ne fu disposta la sospensione.
Ma in concreto, quali sono i casi in cui si fa ricorso all'art. 148 c.p.?
Può trattarsi:
o di persone che hanno commesso un reato essendo già affette da turbe psichiche che al momento del processo non sono state riconosciute, magari perché in fase iniziale o per insufficienze nella indagine peritale.
o di persone il cui l'equilibrio psichico viene sconvolto dall'esperienza del carcere, per cui viene considerato non più in grado di subire l'esecuzione della condanna alla reclusione.
Ora occorre chiedersi: se tali soggetti sono considerati non in grado di sopportare la reclusione in un carcere normale, sono invece in grado di essere reclusi in Ospedale psichiatrico giudiziario, a volte anche per un periodo di tempo più lungo?
Secondo le tesi più formalistiche, la reclusione manicomiale non è considerata tecnicamente una pena e non richiede un adeguato equilibrio psichico per essere attuata; in realtà, non si può negare che questa resti comunque una privazione della libertà personale, una vera e propria detenzione in un istituto penitenziario (58).
Originariamente, il Manicomio giudiziario era stato progettato, in Italia, con lo scopo preciso di rinchiudervi i condannati impazziti in carcere: il ricovero manicomiale doveva avere finalità prettamente curative, doveva servire a guarire il soggetto malato di mente, in modo che potesse continuare ad espiare la condanna che gli è stata inflitta.
Invece con l'introduzione del codice Rocco, lo scopo del ricovero manicomiale cambia radicalmente; il vero motivo della sospensione della pena non è più quello di rendere il condannato impazzito di nuovo capace di intendere il valore afflittivo e correttivo della pena, soprattutto perché alcuni detenuti, simulando la pazzia, avevano tentato di farsi trasferire in manicomio per godere di un trattamento meno duro rispetto a quello del carcere; per scoraggiare questa tattica si era congegnato il meccanismo della sospensione della pena, che dissuase i simulatori, ma che distrusse chi veramente soffriva di disturbi psichici, dato che il ricovero in Manicomio giudiziario era, una volta sospesa la pena, un'esperienza del tutto diversa da quella del carcere e che il tempo necessario per la guarigione non era computabile ai fini della condanna: il condannato doveva completarne l'espiazione, anche se il tempo passato in Manicomio giudiziario era molto superiore alla parte di condanna che rimaneva da espiare.
Nel 1975, l'inammissibilità dell'art. 148, estremamente iniquo per chi realmente soffriva di disturbi psichici, spinse il giudice di sorveglianza di Firenze ad impugnarne la disposizione di fronte alla Corte Costituzionale, poiché fortemente sospetto di incostituzionalità.
Il giudice sollevò la questione d'illegittimità costituzionale sotto tre distinti profili (59):
L'art. 148 violava l'art. 24 della Costituzione, poiché non prevedeva per il condannato alcun diritto alla difesa;
L'art. 148 violava l'art. 27 della Costituzione il quale prevede che: "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e devono tendere alla rieducazione del condannato";
L'art. 148 violava l'art. 3 della Costituzione, che prevede pari diritti di tutti i cittadini di fronte alla legge.
Attraverso l'applicazione dell'art. 148 si realizzava una grave disparità di trattamento del detenuto, a seconda che la malattia si verificasse prima o dopo della condanna: nel caso di malattia sopravvenuta all'imputato, questi andava in Manicomio giudiziario, ma poteva uscire una volta scaduti i termini massimi previsti dalla legge per la carcerazione preventiva; il condannato cui fosse sopravvenuta la malattia andava comunque in Manicomio giudiziario a tempo indeterminato, senza poter più uscire se non con la grazia del presidente della Repubblica o con la morte. La sentenza della Corte costituzionale n. 146 del 19. 6. 1975 ha confermato la possibilità di sospendere la pena al condannato che presenti turbe psichiche, e ha convalidato la parte che ne dispone l'invio al Manicomio giudiziario; invece, ha abrogato quella parte dell'art. 148 c.p. in cui si dispone che il tempo trascorso in manicomio non è computato ai fini dell'esecuzione della pena, fondamentalmente basando la propria decisione sul contrasto con l'art. 3 della Costituzione (principio di uguaglianza), per il diverso trattamento che si instaura per il detenuto cui sopraggiunge una infermità psichica, a seconda che egli sia stato o meno già condannato (60). Questa sentenza ha contribuito a ridurre di molto l' applicazione dell'art. 148 c.p., oggi quasi completamente privo di effetto pratico.
3) Soggetti sottoposti a misura di sicurezza provvisoria: sono le persone detenute in attesa di processo, per le quali il giudice ritiene non improbabile un futuro riconoscimento di vizio totale o parziale di mente, ed alle quali decide di applicare in via provvisoria la misura di sicurezza del Manicomio giudiziario, a norma dell'art. 206 c.p.
Il periodo trascorso in esecuzione di misura di sicurezza provvisoria è comunque computato, sia ai fini della durata minima della misura di sicurezza definitiva (se l'imputato sarà poi prosciolto), sia ai fini dell'eventuale condanna a pena detentiva (se sarà condannato) (61).
4) Detenuti in esecuzione di perizia:sono gli imputati di un reato, per i quali il giudice abbia disposto perizia psichiatrica, a norma dell'art. 318 C.P.P. Provengono dal carcere e vi ritornano una volta espletata la perizia.
I motivi principali per cui una perizia psichiatrica è eseguita nell'Ospedale psichiatrico giudiziario piuttosto che in carcere sono i seguenti:
spesso la perizia è affidata ad operatori manicomiali, i quali trovano quindi molto utile avere il periziando nel proprio istituto, invece che andarlo a visitare in carcere, soprattutto se situato in una città diversa;
quando il perito non sia un operatore manicomiale, può trovare più comodo effettuare l'osservazione peritale in cui ci sono talora i mezzi per le indagini strumentali e di laboratorio; inoltre la presenza nell'istituto di altri medici permette al perito di avvalersi anche del loro contributo;
il carcere tende a rifiutare la presenza del periziando, soprattutto se egli soffre di turbe psichiche evidenti, poiché ciò altera le condizioni di stabilità dell'istituzione carceraria (62).
La perizia psichiatrica può svolgersi, se il paziente è detenuto, nel carcere o in un manicomio pubblico preferibilmente giudiziario: di solito l'esecuzione della perizia comporta tempi più ampi rispetto a quello strettamente necessario ai fini del suo espletamento; spesso il periziando viene trasferito dalla sede del processo alla sede di un manicomio; se il risultato è il proscioglimento per vizio di mente e la conseguente applicazione della misura di sicurezza, il tempo trascorso per la perizia viene computato nella durata minima della misura se la perizia fu espletata in Manicomio giudiziario; non viene invece assolutamente computato se la perizia viene svolta in carcere.
Questo danneggia molto chi è sottoposto a perizia in carcere, dando luogo a una vera e propria anomalia del sistema procedurale, sottoponendo a un trattamento diverso persone con situazioni giuridiche assolutamente identiche.
5) Soggetti inviati in osservazione: sono persone detenute o in attesa di processo, inviate in osservazione all'Ospedale psichiatrico giudiziario perché hanno manifestato delle turbe psichiche (63).
La relazione medica compilata al termine del periodo di osservazione può negare o confermare l'esistenza del disturbo: il soggetto quindi ritorna in carcere oppure resta in manicomio.
Questa categoria ha contribuito negli anni a far aumentare notevolmente la popolazione manicomiale. Fino al 1975 non vi era nessuna restrizione all'invio in osservazione psichiatrica dal carcere al manicomio: era sufficiente che un medico del carcere redigesse un certificato con la generica diagnosi di "agitazione psicomotoria" o "alienazione mentale", perché il trasferimento venisse attuato immediatamente; infatti, secondo la disposizione dell'art. 106, comma I, del Regolamento penitenziario del 1931:
Se un detenuto dà segni di alienazione mentale, il medico dispone che sia posto in osservazione e prescrive le cautele e i provvedimenti che ritiene opportuni per accertare se l'alienazione effettivamente sussiste, e per garantire la sicurezza dell'infermo e l'ordine dello stabilimento.
I fini cui è preposto l'intervento del medico sembrano essere principalmente la sicurezza dell'infermo e l'ordine dello stabilimento, mentre di secondaria importanza è considerato l'intervento finalizzato alla cura della persona e al recupero del suo stato di salute.
Nelle istituzioni penitenziarie le manifestazioni psicopatologiche sono particolarmente frequenti: esse possono essere la continuazione o l'evidenziazione in carcere di disturbi psichici già prima esistenti, o al contrario la strutturazione di una risposta di tipo psicotico ad eventi particolarmente psicotraumatizzanti, quali l'imprigionamento, il rimorso per il delitto commesso, la previsione di condanna, la condanna stessa. La condizione psico-fisica del soggetto dalla situazione carceraria, dalle condizioni di vita, non certo facili, che i detenuti sono costretti a sopportare (64).
Infatti il primo trauma che un detenuto subisce è rappresentato sicuramente dall'ingresso in carcere: l'ingresso in carcere spesso comporta una serie di disturbi non solo psichici, ma anche psicosomatici, che compaiono tanto più frequentemente, quanto più elevato è il grado di educazione, di sensibilità, di cultura dei soggetti detenuti. Si adatta con più facilità la persona che abbia subito precedenti carcerazioni, o che riesca a trovare nel carcere punti di riferimento, come, ad esempio, gli altri detenuti: ciò rende più agevole l'inserimento nella comunità carceraria (65).
Più difficile e spesso anche traumatico può essere invece l'adattamento per individui improvvisamente immessi non solo in una struttura difficile da vivere per rigidità organizzativa e limitazione di libertà, in una condizione di isolamento che favorisce la deprivazione di stimoli, di affetti, di rapporti sociali. Si tratta poi di una condizione ovviamente improntata alla punitività e dove i rapporti personali, le vicende giudiziarie, le prospettive di condanna e la stessa struttura penitenziaria agevolano la depressione e lo sviluppo di processi di autocolpevolizzazione.
Si può trattare di forme psicopatologiche che si ricollegano con i sentimenti di colpa (ad esempio nevrosi o psicosi depressive) oppure di schizofrenia, ecc.
Nel caso in cui, durante la detenzione, si manifestino tali disturbi psichici, il soggetto tende a nasconderli: cerca di ostentare una forza ed una sicurezza che in realtà non ha, spesso per sopprimere il dolore e la sofferenza; perché un eventuale giudizio di incapacità alla detenzione normale suona come condanna ancor peggiore della detenzione. Tutto ciò fino a quando la situazione non diviene insostenibile e l'angoscia si manifesta all'improvviso con comportamenti insospettati, con esplosioni, ad esempio, auto-eteroaggressive.
Il periodo di osservazione in OPG infatti viene prescritto non solo quando il detenuto manifesta reali segni di patologia psichica, ma anche in caso di tensioni o insofferenze per situazioni intollerabili all'interno del carcere, ad esempio con uno dei tanti gesti di protesta: ledersi le vene dei polsi con oggetti taglienti, ingerire oggetti, barricarsi in cella, ecc.
Occorre innanzitutto chiedersi se l'OPG sia il luogo adatto, nel quale sia possibile ricevere cure efficaci, oppure se invece in OPG le malattie mentali si aggravino e cronicizzino. A tale domanda si può tentare di dare una risposta attraverso l'analisi del già citato art.112 dell'attuale regolamento penitenziario (D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230), relativo all'accertamento delle infermità psichiche, il quale recita:
L'accertamento è espletato nel medesimo istituto in cui il soggetto si trova o, in caso di insufficienza di quel servizio diagnostico, in altro istituto della medesima categoria.
L'autorità giudiziaria che procede o il magistrato di sorveglianza possono, per particolari motivi, disporre che l'accertamento sia svolto presso un ospedale psichiatrico giudiziario, una casa di cura e custodia o in un istituto o sezione per infermi o minorati psichici, ovvero presso un ospedale civile. Il soggetto non può comunque permanere in osservazione per un periodo superiore ai trenta giorni.
L'osservazione si conclude, dopo un tempo massimo di trenta giorni, con una relazione medica che può negare o convalidare l'esistenza del disturbo. A seconda del provvedimento che ne segue, il soggetto rientra o meno in carcere (DPR 230/2000).
L'invio in osservazione al manicomio spesso viene disposto su segnalazione degli agenti di polizia penitenziaria che hanno problemi di gestione dei soggetti più difficili, in quanto questi sono ritenuti responsabili per ogni evento lesivo che dovesse derivare alle persone o alle cose.
Generalmente, oggi, sono soprattutto i comportamenti individuali di ribellione che possono condurre al Manicomio giudiziario, ma in passato, l'invio in osservazione manicomiale, poteva anche essere usato come deterrente nei confronti di detenuti "ribelli", non per ragioni di patologia, bensì per motivi sociali, economici o addirittura politici: questa era una pratica molto comune anche negli anni Settanta, quando nelle carceri si protestava per la mancata riforma del codice penale e per la ritardata approvazione della legge di riforma penitenziaria.
Talvolta è lo stesso detenuto che provoca il suo temporaneo trasferimento da un carcere lontano ad un Ospedale psichiatrico giudiziario più vicino al luogo di residenza dei familiari, sperando di ricevere più visite, oppure il detenuto intollerante del regime carcerario troppo duro, cerca di farsi mandare in Manicomio giudiziario, procurandosi delle lesioni, con la segreta speranza di essere trasferito dopo l'osservazione, in un carcere migliore.
Talvolta, sono gli stessi detenuti delle carceri a ricorrere al metodo della simulazione di comportamenti abnormi per farsi trasferire in manicomio: in tal modo questa categoria giuridica ha fornito negli anni uno dei maggiori contributi quantitativi alla popolazione manicomiale-giudiziaria.
Da alcune indagini effettuate dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze e di Mantova risulta che solo una percentuale inferiore al 20 per cento degli inviati in osservazione presentano un effettivo significato psichiatrico, tanto che la percentuale di persone riconosciute "non pericolose" oscilla tra il 73 e l'80 % dei casi. Soltanto parzialmente la legge di riforma penitenziaria del 1975 è riuscita a porre rimedio a tale inconveniente, attraverso l'applicazione dell'art. 11, comma I, prescrivendo che ogni istituto penitenziario debba disporre di un medico psichiatra per rendere possibile che le osservazioni vengano effettuate all'interno dello stabilimento in cui è recluso il detenuto, riservando ai soli casi eccezionali il trasferimento in un manicomio giudiziario.
Il pericolo più grosso si ha riguardo al tentativo degli autori di gravi reati di farsi credere "pazzi". Una ricerca effettuata proprio presso alcuni OPG ha rilevato, attraverso un'elaborazione statistica del fenomeno delle osservazioni psichiatriche effettuate dal 1991 al 2000 che il fenomeno della simulata pazzia aumenta all'avvicinarsi dei periodi festivi natalizi ed estivi. L'ipotesi è dunque che, a causa del sovraffollamento delle carceri, ma soprattutto in relazione ad una minore presenza di personale penitenziario nei periodi festivi, si tenda a "disfarsi" per un po' di quei soggetti "fastidiosi" per il buon equilibrio dell'istituto.
Naturalmente questa è solo una ipotesi, tutta da verificare. Nella relazione medica con la quale si accerta il disturbo psichico deve essere indicata la patologia e la sua gravità (66): con "Disturbi dell'alimentazione" e "Comportamenti autolesionistici" sono state etichettate categorie di motivazioni di tipo comportamentale. Alla prima appartiene quasi esclusivamente il fenomeno dello sciopero della fame e comunque del rifiuto del cibo o dell'acqua; alla seconda il fenomeno dell'autolesionismo realizzato per lo più con ferite da taglio; i dati descritti con le categorie di "Disturbi di personalità", "Disturbi psicotici" e "Disturbi depressivi" strettamente più di tipo psichiatrico, raccolgono sia vere e proprie diagnosi di invio, sia fenomeni comportamentali descritti con frasi del tipo: "... il soggetto dichiara di sentire delle voci provenienti dagli oggetti ..." oppure "... Il soggetto presenta turbe comportamentali di tipo antisociale ..." e ancora "... incompatibilità marcata verso i compagni di cella ..." ecc; nella categoria "Altro", effettivamente generica ma necessaria, sono state raccolte motivazioni improprie, illogiche, non comprensibili e comunque non accorpabili alle precedenti; nella categoria "Missing" sono raccolti tutti i casi in cui manca qualsiasi tipo di indicazione e motivazione di invio, o anche quando risultava impossibile risalirvi (67).
Si è già detto che l'invio in OPG è preceduto da una proposta sanitaria in tal senso dei sanitari del carcere e, in particolare, di uno psichiatra, che, se ritenuta fondata, viene seguita da un provvedimento del magistrato che dispone il ricovero in tale istituto.
L'osservazione dura, di regola, 30 giorni e si conclude con il rientro in carcere, talvolta in un carcere diverso da quello da cui si è stati inviati in OPG. È rara la proroga del periodo di osservazione e raro anche il provvedimento di ricovero prolungato in OPG, quando vengono confermate condizioni psichiatriche incompatibili con la detenzione in carcere.
Nel caso di effettivo riscontro di necessità di ricovero in OPG e quindi di applicazione dell'art. 148 c.p., trascorsi i 30 giorni di osservazione psichiatrica, sotto l'etichetta "Nulla di rilevante" vengono inseriti i casi in cui effettivamente non è stato riscontrato, alcun disturbo mentale. Nelle categorie "Disturbi di personalità", "Disturbi psicotici compatibili" e "Disturbi depressivi compatibili", vengono invece raccolti i dati riguardanti esiti diagnostici in cui è stata effettivamente individuata o riconosciuta una patologia mentale in atto, ritenuta altresì compatibile col sistema carcerario ed affrontabile in loco. A tal proposito occorre precisare che in tutte le case circondariali e i centri penitenziari è prevista la presenza di medici, medici psichiatri, psicologi, infermieri e di personale e strutture sanitarie.
In definitiva, solo in 61 su 667 casi totali ("Disturbi psicotici non compatibili" e "Disturbi depressivi non compatibili"), i soggetti osservati sono stati ritenuti gravemente compromessi e bisognosi quindi di trasferimento e cure in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Quindi, solo una piccolissima percentuale di detenuti risulta effettivamente bisognosa di cure attuabili in una struttura psichiatrica "altamente specializzata" come gli OPG. L'équipe di psichiatri operante negli OPG dedica molto tempo e molta attenzione alle "osservazioni psichiatriche" che devono essere effettuate con estrema cura, cercando soprattutto di evidenziare gli eventuali casi di simulazione o dissimulazione di malattia mentale. Ciò, comunque, ruba molto tempo al lavoro che bisognerebbe dedicare invece agli internati definitivi, al loro recupero e trattamento, alla loro terapia, individuale e di gruppo.
6) Minorati psichici in sentenza: sono soggetti già condannati ad una pena diminuita, perché riconosciuti dalla sentenza come seminfermi di mente.
Tali soggetti vengono assegnati in via amministrativa ad un manicomio giudiziario per espiare la loro pena detentiva invece che nel carcere ordinario, anche se in realtà, l'art. 98, comma VII del regolamento di esecuzione della legge penitenziaria del 1975, prevedrebbe l'assegnazione a istituti speciali per soggetti affetti da infermità o minorazioni psichiche: questi istituti esistono solo formalmente e per l'ennesima volta ci si trova di fronte alla carenza organizzativa che da sempre caratterizza l'ospedale psichiatrico giudiziario (68).
7) Minorati psichici amministrativi: sono persone già condannate in quanto riconosciute sane di mente, le quali durante l'esecuzione della pena, presentano turbe psichiche di entità minore rispetto a quelle che potrebbero provocare la sospensione della pena (si tratta di solito di soggetti anziani condannati a pene detentive lunghe, nei quali insorgono patologie psichiche legate soprattutto all'età avanzata). Con provvedimento amministrativo del ministero, vengono assegnate ad un Ospedale psichiatrico giudiziario, da cui usciranno al termine della pena (69).
Si è già detto che la struttura interna di Montelupo, è divisa in reparti ai quali vengono assegnati i ricoverati nell'istituto, in base a criteri di natura giuridica e/o sanitaria.
La natura sanitaria, si ribadisce, dipende dal complessivo quadro psicopatologico del soggetto e dalla presenza o meno di particolari problemi internistici e/o disabilità fisiche. Invece la natura giuridica dipende dall'appartenenza dell'internato a una delle suddette categorie giuridiche: conseguentemente, si usa distinguere l'internato assegnato all'OPG provvisoriamente oppure definitivamente. Sulla base di questi criteri è, quindi, possibile, distinguere il reparto di osservazione dal reparto per gli internati provvisori e dal reparto per gli internati definitivi. Alle attività svolte all'interno della struttura possono partecipare indistintamente tutti gli internati, sempre che le loro condizioni si salute lo permettano. Invece, soltanto gli internati definitivi possono essere inviati in altri reparti, adibiti esclusivamente ad attività riabilitative che si svolgono anche all'esterno della struttura, essendo possibile, solo per questi, l'attuazione di un vero e proprio progetto di progressiva "risocializzazione". Di tali attività rieducative si dirà nei capitoli successivi.
1.2.8. Il confronto dell'evoluzione del sistema italiano rispetto a quello degli altri paesi europei
Alla metà dell'Ottocento, la situazione vigente nella maggior parte dei paesi europei era molto simile a quella delineata dal Codice Zanardelli del 1898: l'istituzione carceraria era prevista per coloro che commettevano reati colpevolmente, cioè coloro che la legge considerava pienamente imputabili; per coloro che, durante l'espiazione di una pena detentiva in carcere, davano segno di disturbi psichici, erano, invece, previsti speciali reparti psichiatrici; mentre il manicomio civile rappresentava la struttura presso la quale venivano accolti i follo-rei, cioè i soggetti che avevano commesso dei reati in una condizione di disturbo psichico tale da causare il loro proscioglimento per incapacità.
Tale situazione è rimasta sostanzialmente invariata fino ad oggi nella maggior parte dei paesi europei, nonostante i tentativi di modifica legislativa.
La maggior parte dei paesi europei prevede a livello legislativo il proscioglimento dal reato per infermità di mente: la sola eccezione è rappresentata dalla Svezia che, nel 1962, ha abolito il concetto di "difetto di imputabilità per vizio di mente".
Gli altri paesi prevedono invece modalità di espiazione della pena diverse da quelle prettamente carcerarie, che valorizzino l'aspetto curativo risocializzante.
In tali paesi, i manicomi civili in cui vengono accolti i folli-rei sono assolutamente sprovvisti di sezioni di sicurezza o di alta sorveglianza, adibite specificamente alla custodia e cura dei soggetti più pericolosi.
Riguardo alla permanenza degli internati in questi reparti, occorre precisare che la durata di questa non è stabilità né nel minimo né nel massimo, ma viene modulata a seconda della circostanza del singolo caso. La dimissione del folle- reo può essere stabilita secondo diversi criteri e attraverso diversi provvedimenti: ad esempio, in Francia, tali provvedimenti sono adottati dall'amministrazione centrale, che agisce attraverso il suo rappresentante locale, detto préfet; in altri paesi tale provvedimento di revoca della misura può essere adottato dalla stessa autorità giudiziaria.
Per quei soggetti che impazziscono durante l'espiazione di una pena in carcere, i paesi europei oggi sono sempre più attenti alle esigenze di cura, soprattutto psichiatriche, mediante la creazione di sezioni d'osservazione o di cura psichiatrica penitenziaria, organizzate spesso in specifici annessi psichiatrici o anche in speciali istituti di cura psichiatrica per condannati.
1.2.9. Il Decreto legislativo n. 230 del 1999
Si è già parlato di come la legge di riforma sanitaria 833/78, istitutiva del servizio sanitario nazionale, abbia rappresentato, sotto il profilo amministrativo, una sostanziale modifica dell'assetto dei soggetti pubblici che operano nel campo sanitario; essa ha introdotto una nozione unitaria dell'attività che realizza la tutela della salute, dando organicità alla disciplina previdente e ha, inoltre, determinato l'insorgere di dubbi circa la legittimità della sussistenza di un servizio sanitario penitenziario autonomo rispetto a quello nazionale.
La mancanza di un intervento organico da parte del legislatore, la frammentazione normativa in leggi e regolamenti del Ministero di Grazia e Giustizia, preesistenti alla emanazione della legge 833/78, hanno determinato l'insorgere di una situazione di instabilità e di incertezza che investe gli utenti, gli operatori e i responsabili degli istituti. Negli anni, le conseguenze dell'anomala situazione sanitaria negli istituti penitenziari sono state molte, soprattutto a livello amministrativo e di gestione: la mancanza di un completo raccordo tra Centro, Provveditorati e Direzioni dipendenti, il fenomeno della grave carenza di una programmazione sanitaria concordata con il SSN e dunque di indirizzi generali uniformi, la gestione autonoma del capitolo di spesa sanitaria da parte dell'Amministrazione penitenziaria e, infine, l'eccessiva burocratizzazione (70).
Il mantenimento dell'autonomia rispetto al SSN ha determinato, in primo luogo, la gestione del settore sanitario da parte degli organi propri dell'Amministrazione che non possono definirsi autorità sanitarie, causando la mancanza di una vera e propria linea sanitaria all'interno dell'Amministrazione penitenziaria.
Il problema dello svincolamento del servizio penitenziario dal SSN ha avuto conseguenze negative anche sulla programmazione di tutto quel complesso di strumenti sanitari, obbiettivi sociali ed economici: in materia sanitaria penitenziaria, la programmazione, in via generale, non viene concordata con il SSN o con il Ministero della Sanità che possiede funzioni di indirizzo e di coordinamento, secondo quanto dispone la legge 833/78, onde garantire l'uniformità di trattamento in tutto il territorio, in conformità con l'art. 3 della Costituzione.
Ulteriore problema deriva dal fatto che le diverse capacità delle singole strutture penitenziarie rende necessario una preventiva individuazione dei diversi livelli assistenziali offerti onde addivenire ad una più razionale distribuzione delle risorse: infatti, l'individuazione di livelli di assistenza dovrebbe essere finalizzata a un miglioramento e potenziamento dei servizi in termini di strutture e personale; invece, le misure di razionalizzazione dell'organizzazione e gestione del servizio sanitario adottate dall'Amministrazione penitenziaria sembrano rispondere più all'esigenza di contenere la spesa relativa che di uniformare i trattamenti. Per cui, in definitiva, la riduzione degli stanziamenti annualmente previsti dalle recenti manovre finanziarie hanno come effetto solo formalmente una ridefinizione dell'organizzazione sanitaria ma sostanzialmente generano tagli ai servizi e al personale. Quindi, anche la gestione autonoma del capitolo di spesa da parte dell'Amministrazione penitenziaria risente della mancanza di un collegamento con la programmazione sanitaria nazionale.
Inoltre, uno dei problemi senza dubbio più urgenti da risolvere è quello relativo al potenziamento del servizio psichiatrico, auspicando una collaborazione multidisciplinare:
"Vi deve essere un servizio completo, quindi psichiatrico con una sub-area trattamentale, psicologica, psicoterapeutica a cui devono far riferimento i vari psicologi, assistenti sociali e gli operatori che in qualche modo si occupano di psico-cose o di problemi collegati al disagio psichico" (71).
"Gli operatori preposti, gli Educatori, gli assistenti sociali, gli psicologi andrebbero rafforzati per eliminare il disagio" (72).
Oggi con l'avvento del Decreto legislativo 22.6.1999 n.230 il Governo sembra aver risolto finalmente i suddetti problemi: la legge 30.11.1998, n.419, avente ad oggetto "Delega al Governo per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale e per l'adozione di un testo unico in materia di organizzazione e funzionamento del Servizio sanitario nazionale", reca tra le quattro distinte deleghe legislative quella contenuta nell'art. 5 volta al riordino della medicina penitenziaria. In forza di questa previsione l'Esecutivo ha emanato il Decreto legislativo 22.6.1999, n.230.
La questione del rapporto tra la normativa penitenziaria e la riforma sanitaria del '78 non ha carattere meramente teorico ma pone dei precisi problemi in ordine alla qualità del "servizio" offerto alla popolazione detenuta o internata, allo scopo primario di mettere fine alla disparità di trattamento creata dal sistema.
Il decreto 230/99, sancendo il passaggio del personale e delle risorse al SSN, ha chiarito una volta per tutte quello che era già desumibile dalla normativa del '78: il servizio sanitario penitenziario non è giuridicamente autonomo. Si è inoltre proceduto alla ripartizione delle competenze tra il Ministero della Sanità e il Ministero di grazia e giustizia prevedendo il graduale trasferimento al primo delle funzioni sanitarie, in specie di programmazione, indirizzo e coordinamento tra strutture penitenziarie, amministrazioni centrali, Regioni e ASL connesse con l'esigenza primaria di tutela della salute dei detenuti. Il provvedimento affronta anche il problema della gestione della spesa sanitaria carceraria prevedendo il trasferimento delle risorse economiche dal sistema penitenziario al Fondo sanitario nazionale (73).
Meritano un'attenta lettura alcuni commi significativi del decreto:
· l'art. 1 titolato "Diritto alla salute dei detenuti e degli internati" al 1º comma stabilisce che:
"I detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali ed uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali e in quelli locali";
· il terzo comma dell'art. 2 stabilisce il principio della separazione delle competenze tra le ASL e l'amministrazione penitenziaria, prevedendo in capo alle prime il compito di erogare le prestazioni e al secondo la garanzia della sicurezza;
· in particolare l'art. 3 specifica le competenze degli organi del SSN come segue: il Ministero della Sanità esercita le competenze in materia di programmazione, di indirizzo e coordinamento del SSN negli istituti; le Regioni esercitano le competenze in ordine alle funzioni di organizzazione e programmazione dei servizi sanitari regionali negli istituti penitenziari e il controllo sul funzionamento degli stessi; alle ASL sono affidati la gestione e il controllo dei servizi sanitari negli istituti.
È prevista, inoltre, una responsabilità del Direttore generale della struttura sanitaria che risponde della mancata applicazione e dei ritardi nell'attuazione delle misure previste ai fini dello svolgimento dell'assistenza sanitaria penitenziaria. Al di fuori di tali organi residua una funzione di controllo anche da parte dell'Amministrazione penitenziaria che interviene attivamente per segnalare, in caso di inerzia e ai fini dell'attivazione di poteri sostitutivi, alle autorità sanitarie locali, regionali e direttamente al Ministero della Sanità, le questioni attinenti alla mancata osservanza delle disposizioni del decreto. Per il resto all'Amministrazione penitenziaria compete la funzione di garanzia della sicurezza negli istituti e nei luoghi esterni di cura.
La nuova legge ha, non soltanto, stabilito il trasferimento del personale, delle strutture e delle risorse economiche proprie dell'Amministrazione penitenziaria al SSN, ma ha inoltre risolto il problema della gestione del capitolo di spesa che era rimasto radicato nell'Amministrazione penitenziaria: l'art. 7 dispone il trasferimento delle risorse finanziarie, iscritte nello stato di previsione della spesa del Ministero di Grazia e Giustizia, al Fondo sanitario nazionale. La manovra finanziaria non potrà però superare l'ammontare delle risorse attualmente assegnate all'Amministrazione penitenziaria per la sanità nelle carceri (74).
Il Decreto 230/99 rappresenta, si è detto, un primo provvedimento destinato ad essere successivamente integrato e modificato a seguito di un periodo di sperimentazione da parte del SSN in tre Regioni (individuate nella Toscana, Lazio e Lombardia) dove le ASL provvederanno alla gestione dell'assistenza sanitaria, restando invariati il regime giuridico del personale sanitario e le strutture in proprietà dell'Amministrazione penitenziaria. In tal modo si attua un trasferimento graduale delle funzioni con riferimento, in questo caso, ai soli settori della prevenzione e cura dei detenuti ed internati tossicodipendenti. La novità consiste nella piena gestione delle strutture e del personale sanitario esistente (in dipendenza solo funzionale), oltre ala possibilità di usufruire di tutte le attrezzature e risorse finanziarie degli istituti.
Occorre ora analizzare le norme del decreto dalle quali si possono desumere le conseguenze che l'unificazione del sistema sanitario avrebbe in particolare sull'organizzazione degli OPG. L'art. 111 del decreto prevede l'esecuzione negli istituti ordinari anche per coloro che siano condannati a pena diminuita per vizio parziale di mente: in tal modo, da una parte si selezionano i soggetti realmente bisognosi dell'internamento, dall'altra potranno essere evitate quelle ricadute negative che l'inserimento in una struttura istituzionalizzata comporta, inserimento che è ripudiato dai nuovi criteri dell'assistenza psichiatrica. Questa operazione, ovviamente, presuppone un potenziamento dei servizi d'istituto. L'articolo in esame prevede, infatti, l'assegnazione dei soggetti all'OPG di personale infermieristico "necessario con riferimento alla funzione di cura e di riabilitazione degli stessi". Inoltre, l'art.20 stabilisce, in materia di infermità mentale, l'ingresso del SSN nell'istituto per "rilevare le condizioni e le esigenze degli interessati e concordare con gli operatori penitenziari la individuazione delle risorse esterne utili per la loro presa in carico da parte del servizio pubblico e per il loro successivo reinserimento sociale" (75).
Per quanto riguarda in particolare l'organizzazione interna degli OPG, fino a quando non saranno realizzabili, in linea con il nuovo approccio terapeutico, delle strutture territoriali alternative alla ospedalizzazione della malattia mentale, non potranno essere disponibili quei presidi che costituirebbero un punto di riferimento nell'attività di cura e riabilitazione. Uno degli effetti maggiormente positivi che l'unificazione del servizio sanitario produrrebbe sull'organizzazione interna degli OPG, secondo il Dr. Scarpa, da quanto emerso durante un colloquio che abbiamo avuto il 19 agosto, sarebbe proprio quello della valorizzazione dell'aspetto del trattamento psichiatrico e della cura, rispetto a quello della mera custodia, grazie anche a un considerevole incremento delle risorse finanziarie messe a disposizione degli OPG: sottolinea il Dr. Scarpa come a Montelupo siano limitate le possibilità di intervento riabilitativo e risocializzante, rispetto all'esperienza dell'analogo istituto di Castiglione delle Stiviere, e come sarebbe più assiduo e stabile il rapporto tra servizi psichiatrici territoriali e internati presi in carico.
Come ha spiegato il Dr. Scarpa, da un punto di vista strettamente organizzativo, il ruolo del Direttore di istituto rimarrebbe pressoché invariato, eccezion fatta; forse, per un aspetto piuttosto marginale: attualmente il direttore di un OPG riveste il ruolo sia di organo direttivo che di psichiatra interno; con l'eventuale unificazione del sistema sanitario, si potrebbe ipotizzare la permanenza dei suoi poteri direttivi, ma la perdita delle funzioni strettamente mediche, le quali sarebbero assunte da medici delle ASL. Certamente, muterebbe in modo sostanziale il ruolo degli agenti di custodia, divenendo lo scopo primario, non più quello della sicurezza, ma quello della cura della patologia psichiatrica. La valorizzazione della finalità terapeutica comporterebbe notevoli ripercussioni anche sull'organizzazione delle varie sezioni, rendendo possibile una più razionale divisione dei reparti, e conseguentemente dei pazienti, a seconda delle patologie riscontrate: il che comporterebbe inoltre un miglioramento della disponibilità degli strumenti di osservazione dello sviluppo del quadro clinico di ogni paziente e un miglioramento del rapporto tra personale medico e pazienti, fondato più sulla fiducia che sul timore di sanzioni e di terapie calmanti.
Inoltre, come da tempo si auspica, la riforma che accentui il carattere sanitario dell'istituzione dovrebbe essere rivolta soprattutto alle reali necessità di cura dei soggetti più gravi, eliminando la permanenza di chi può essere destinato alle sezioni (detenuti in osservazione, a perizia psichiatrica, gli internati a misura di sicurezza imputabili, i minorati psichici). In effetti la risoluzione del problema della tutela della salute mentale nel carcere passa attraverso una revisione dei vari livelli in cui può operare l'intervento terapeutico (territorio, istituti, OPG) e attraverso una profonda riforma che consenta, nel futuro, il superamento della logica custodialistica del malato mentale e dello stesso OPG.
1.2.10. Il nuovo regolamento del sistema carcerario (D.P.R. 230/2000). Il processo di "Sanitarizzazione"
Nella seconda metà degli anni '90, mentre una serie di progetti di legge, dei quali si dirà nel capitolo conclusivo di questa tesi, hanno riproposto la questione della necessità di una riforma dalla legislazione sui malati di mente autori di un reato, la legge "Simeone-Saraceni" da un lato, e il nuovo regolamento penitenziario dall'altro, hanno inciso, ancora una volta in modo indiretto, anche sulla situazione degli internati negli OPG.
Nel complessivo quadro normativo di riferimento, alquanto controverso, è stato emanato il D.M. 21/4/2000 concernente il Progetto per la tutela della salute in ambito penitenziario (art. 2), così come previsto dal D.Lgs. 230/1999.
In materia di tutela della salute mentale della popolazione carceraria, il Progetto sottolinea come "ormai riconosciuta a livello internazionale resistenza di un disagio psichico maggiore e diffuso negli istituti penitenziari" (art. 3, comma 2) che rende improcrastinabili "più mirati interventi di prevenzione, cura e riabilitazione dei disturbi mentali". Nondimeno "sono assegnati agli istituti o servizi speciali per infermi e minorati psichici gli imputati ed i condannati, ai quali nel corso della misura sopravviene una infermità psichica che non comporti l'applicazione provvisoria della misura di sicurezza del ricovero in Ospedale Psichiatrico Giudiziario o in case di cura e custodia, nonché per l'esecuzione della pena, i soggetti condannati a pena diminuita per vizio parziale di mente" (art. 3, comma 3).
Infine il Progetto, in tema di riabilitazione psico-fìsica, sottolinea l'importanza della "riorganizzazione ed implementazione delle attività riabilitative per realizzare in ogni istituto spazi attrezzati per lo svolgimento delle attività di riabilitazione" (art. 5).
In definitiva, dopo avere denunciato le pur condivisibili carenze del sistema sanitario carcerario ed il pregiudizio delle condizioni di salute del malato-detenuto, il D.M. non ne trae le necessarie conseguenze in linea con il riconoscimento del diritto dei detenuti e degli internati alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione efficaci ed appropriate sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale come enunciato nell'art. 1 del D. Lgs. 22/6/1999 n. 230.
Non vi è sostanzialmente spazio per un riconoscimento pieno del diritto alla salute del detenuto-malato poiché "le ragioni della sicurezza dell'amministrazione penitenziaria comportano l'esigenza di limitare il ricorso al ricovero esterno ai soli casi necessari" (art. 6) nonostante si affermi che "in ogni caso, mai le ragioni della sicurezza possono mettere a rischio la salute e la vita dei detenuti".
Nel settembre del 2000, è stato emanato il testo del nuovo regolamento di esecuzione dell'Ordinamento Penitenziario (DPR 230/2000): si ritiene necessario procedere ad una completa revisione delle norme di esecuzione della legge 26 luglio 1975, n. 354 e le successive modificazioni, vista l'evoluzione delle strutture e delle disponibilità della pubblica amministrazione, nonché delle mutate esigenze trattamentali nell'ambito di un diverso quadro legislativo di riferimento. Per quanto riguarda il ruolo del magistrato di sorveglianza, l'art. 5 del decreto stabilisce che costui, nell'esercizio delle sue funzioni di vigilanza, assume, a mezzo di visite e di colloqui e, quando occorre, di visione di documenti, dirette informazioni sullo svolgimento dei vari servizi dell'istituto e sul trattamento dei detenuti e degli internati. Nell'ambito di strutture come quelle degli OPG, il programma trattamentale individuale previsto per gli internati deve essere attuato secondo le direttive del magistrato di sorveglianza e con l'ausilio degli operatori interni e del servizio sociale. Il centro di servizio sociale riferisce al magistrato di sorveglianza le notizie relative al comportamento del soggetto, anche fuori dalla struttura, nelle licenze o nei periodi di applicazione delle misure alternative; il magistrato di sorveglianza può, in ogni tempo, convocare il soggetto e chiedere informazioni all'assistente sociale; egli, tenuto anche conto delle informazioni del centro di servizio sociale, provvede, se necessario, alla modifica delle prescrizioni, con decreto motivato, dandone notizia al tribunale di sorveglianza ed al centro di servizio sociale.
In tale programma di trattamento sono dettate le prescrizioni che il condannato o l'internato si deve impegnare, per scritto, ad osservare durante il tempo da trascorrere fuori dell'istituto, anche in ordine ai rapporti con la famiglia e con il servizio sociale, nonché quelle relative all'orario di uscita e di rientro. Al fine di accompagnare l'inserimento esterno per la specifica attività per cui vi è ammissione alla semilibertà con la integrazione della persona nell'ambiente familiare e sociale, sono indicati i rapporti che la persona potrà mantenere all'esterno negli ambienti indicati, rapporti che risultino utili al processo di reinserimento sociale, secondo le indicazioni provenienti dalla attività di osservazione e in particolare dagli aggiornamenti sulla situazione esterna da parte del centro servizio sociale. La responsabilità del trattamento resta affidata al direttore, che si avvale del centro di servizio sociale per la vigilanza e l'assistenza del soggetto nell'ambiente libero e che deve comunque tenere aggiornato il magistrato di sorveglianza sulla condotta del soggetto per tutto il tempo dell'esecuzione della misura. Dei poteri del magistrato di sorveglianza e della procedura con cui viene individuato e attuato il progetto trattamentale si dirà approfonditamente nel terzo capitolo.
Nonostante l'evoluzione legislativa, per quanto riguarda la disciplina sostanziale del sistema degli ospedali psichiatrici giudiziari, il codice è rimasto del tutto invariato negli anni, mentre i gravi problemi di gestione di queste strutture hanno subito progressivamente una notevole accentuazione. A questo proposito, occorre chiarire che, nonostante la storia contribuisca a mantenere l'immagine degli OPG come qualcosa di orribile, negli ultimi anni si sta assistendo a un progressivo rinnovamento interno che ha contribuito a rafforzare lo scopo primario di tali strutture: quello della cura e della riabilitazione dal disagio psichico e conseguentemente sociale.
La quasi totale immobilità legislativa non ha impedito che a partire dagli anni '70 si realizzasse una lenta ma costante evoluzione delle strutture e delle attività consentite all'interno degli istituti, con lo specifico compito di occupare il tempo degli internati e di consentire progressivamente il loro recupero e reinserimento in società; contemporaneamente all'introduzione di poco incisive modifiche normative, si è attuato il cosiddetto processo di "sanitarizzazione", che ha avuto come modello l'OPG di Castiglione delle Stiviere, benché gli altri cinque OPG abbiano continuato ad essere dipendenti dall'Amministrazione Penitenziaria. In sostanza, pur tenendo ferma l'istanza di sicurezza, si è inteso limitare l'aspetto custodiale (e dunque più propriamente carcerario) dell'istituzione dell'OPG, in favore di un potenziamento del versante sanitario. Ciò ha avuto alcune conseguenze importanti: in particolare, a livello amministrativo in quasi tutti gli OPG sono state organizzate attività svolte all'interno dei singoli reparti, dal personale sanitario, che consistono in colloqui psichiatrici e visite periodiche settimanali dei singoli internati al fine di un iniziale inquadramento diagnostico; individuazione del trattamento psicofarmacologico più indicato per il singolo internato; una più stretta osservazione psichiatrica, interventi psicofarmacologici d'urgenza e/o contenzione fisica, non più concepiti come provvedimenti disciplinare, ma come aspetti particolari del trattamento curativo, applicati soltanto nei casi di indispensabilità; gestione delle emergenze e dei vari problemi medici mediante interventi di guardia medica ed anche specialistici con l'ausilio delle strutture dell'Unità Sanitaria. Attraverso tali informazioni sulle condizioni di salute degli internati è possibile, l'avvio di un progetto trattamentale risocializzante e riabilitativo interno all'istituto, tramite l'inserimento dei singoli internati, a seconda delle loro caratteristiche e quando, comunque, il quadro psicopatologico ha raggiunto un sufficiente miglioramento, in corsi di formazione professionale, corsi di scuola elementare e media, attività da svolgere in gruppo (disegno, pittura, teatro, attività fisica, fotografia, ecc.), gruppi di auto aiuto per pazienti psichiatrici ed alcolisti ed in varie attività lavorative.
Per quanto riguarda specificamente il personale sanitario, il nuovo Regolamento Penitenziario (DPR 230/2000), all'art. 111 dispone:
Alla direzione degli ospedali psichiatrici giudiziari (...) è preposto personale del ruolo tecnico-sanitario degli istituti di prevenzione e di pena, ed è assegnato, in particolare, il personale infermieristico necessario con riferimento alla funzione di cura e di riabilitazione degli stessi.
Gli operatori professionali e volontari che svolgono la loro attività (...) negli ospedali psichiatrici giudiziari (...) sono selezionati e qualificati con particolare riferimento alle peculiari esigenze di trattamento dei soggetti ivi ospitati.
A norma dell'art. 17 del nuovo Regolamento, gli internati usufruiscono dell'assistenza sanitaria; sulla base delle indicazioni desunte dalla rilevazione e dall'analisi delle esigenze sanitarie della popolazione penitenziaria, sono organizzati, con opportune dislocazioni nel territorio nazionale, reparti clinici e chirurgici; in ogni caso in cui le prestazioni di carattere psichiatrico non siano assicurate a mezzo dell'opera di specialisti in psichiatria di ruolo, la direzione dell'istituto si avvale di specialisti; con le medesime forme previste per la visita a proprie spese possono essere autorizzati trattamenti medici, chirurgici e terapeutici da effettuarsi a spese degli interessati da parte di sanitari e tecnici di fiducia nelle infermerie o nei reparti clinici e chirurgici negli istituti, in ogni istituto devono essere svolte con continuità attività di medicina preventiva che rilevino, segnalino ed intervengano in merito alle situazioni che possono favorire lo sviluppo di forme patologiche, comprese quelle collegabili alle prolungate situazioni di inerzia e di riduzione del movimento e dell'attività fisica (DPR 230/2000).
In particolar modo, nei confronti degli internati infermi o seminfermi di mente, la normativa, all'art. 20, prescrive che debbano essere attuati interventi che favoriscano la loro partecipazione a tutte le attività trattamentali e in particolare a quelle che consentano, in quanto possibile, di mantenere, migliorare o ristabilire le loro relazioni con la famiglia e l'ambiente sociale. Il servizio sanitario pubblico territorialmente competente accede all'istituto per rilevare le condizioni e le esigenze degli interessati e concordare con gli operatori penitenziari l'individuazione delle risorse esterne utili per la loro presa in carico da parte del servizio pubblico e per il loro successivo reinserimento sociale (DPR 230/2000).
La direzione dell'istituto può adottare dei provvedimenti disciplinari nei confronti degli internati quando questi si siano resi responsabili di negligenza nella pulizia e nell'ordine della persona o della camera; abbandono ingiustificato del posto assegnato; volontario inadempimento di obblighi lavorativi; atteggiamenti e comportamenti molesti nei confronti della comunità; giochi o altre attività non consentite dal regolamento interno; simulazione di malattia; traffico di beni di cui è consentito il possesso; possesso o traffico di oggetti non consentiti o di denaro; comunicazioni fraudolente con l'esterno o all'interno; atti osceni o contrari alla pubblica decenza; intimidazione di compagni o sopraffazioni nei confronti dei medesimi; falsificazione di documenti provenienti dall'amministrazione affidati alla custodia del detenuto o dell'internato; appropriazione o danneggiamento di beni dell'amministrazione; possesso o traffico di strumenti atti ad offendere; atteggiamento offensivo nei confronti degli operatori penitenziari o di altre persone che accedono nell'istituto per ragioni del loro ufficio o per visita; inosservanza di ordini o prescrizioni o ingiustificato ritardo nell'esecuzione di essi; ritardi ingiustificati nel rientro; partecipazione a disordini o a sommosse; promozione di disordini o di sommosse; evasione; fatti previsti dalla legge come reato, commessi in danno di compagni, di operatori penitenziari o di visitatori (art. 77 DPR 230/2000).
A norma dell'art. 78 del decreto in esame, in caso di assoluta urgenza, determinata dalla necessità di prevenire danni a persone o a cose, nonché l'insorgenza o la diffusione di disordini o in presenza di fatti di particolare gravità per la sicurezza e l'ordine dell'istituto, il direttore può disporre, in via cautelare, con provvedimento motivato, che l'internato, che abbia commesso una infrazione sanzionabile con la esclusione dalle attività in comune, permanga in una camera individuale, in attesa della convocazione del consiglio di disciplina. La durata della misura cautelare non può comunque eccedere i dieci giorni ed il tempo trascorso in misura cautelare si detrae dalla durata della sanzione eventualmente applicata (DPR 230/2000).
L'isolamento, a norma dell'art. 73 del suddetto decreto, può essere disposto sia per ragioni sanitarie, che disciplinari. Nel primo caso, a causa di malattie contagiose, può essere prescritto dal medico un isolamento continuo, eseguito, secondo le circostanze, in appositi locali dell'infermeria o in un reparto clinico; durante l'isolamento, speciale cura è dedicata dal personale all'infermo anche per sostenerlo moralmente; l'isolamento deve cessare non appena sia venuto meno lo stato contagioso. Nel secondo caso, invece, l'isolamento continuo durante l'esecuzione della sanzione della esclusione dalle attività in comune è eseguito in una camera ordinaria, a meno che il comportamento del detenuto o dell'internato sia tale da arrecare disturbo o da costituire pregiudizio per l'ordine e la disciplina. Comunque, sono assicurati il vitto ordinario e la normale disponibilità di acqua. La situazione di isolamento degli internati deve essere oggetto di particolare attenzione, con adeguati controlli giornalieri nel luogo di isolamento, da parte sia di un medico sia di un componente del gruppo di osservazione e trattamento, e con vigilanza continuativa ed adeguata da parte del personale del Corpo di polizia penitenziaria (DPR 230/2000).
Numerose sono oggi le attività trattamentali e socioriabilitative svolte all'interno degli OPG, come altrettanto numerose sono le figure professionali che, giorni dopo giorno, operano con efficacia ed elevata motivazione di recupero delle affievolite abilità psichiche del malato. Tale processo di "sanitarizzazione" ha operato non soltanto una trasformazione interna in senso curativo e riabilitativo, ma anche di incentivo all'apertura verso l'esterno, verso il dialogo, verso il confronto sociale, anche se questo non significa un superamento totale delle difficoltà di gestione di tali strutture e di immobilità legislativa in materia. Tali attività condotte all'interno degli istituti sono concepite per essere successivamente coltivate anche all'esterno delle strutture, grazie a un progetto trattamentale esterno, al fine di favore i primi contatti con i servizi psichiatrici territoriali, che dovranno a loro volta seguire il paziente al momento della sua dimissione, al fine di ipotizzare, eventualmente, programmi di futuro reinserimento all'esterno del paziente.
Su questi aspetti legati al reinserimento degli internati si tornerà comunque nel seguito della presente tesi, facendo particolare riferimento all'OPG di Montelupo Fiorentino.
1.2.11. La sentenza della Corte Costituzionale del 18 Luglio 2003, n.235
La recente sentenza della Corte Costituzionale del 18 luglio 2003 ha come oggetto il giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 219, primo e terzo comma (Assegnazione a una casa di cura e di custodia), e 222 (Ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario) del codice penale.
Con ordinanza emessa il 10 luglio 2002 e pervenuta alla Corte Costituzionale il 5 novembre 2002, il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Genova, ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 219, primo e terzo comma del codice penale (Assegnazione a una casa di cura e di custodia), in riferimento all'art. 3 della Costituzione, e dell'art. 222 del codice penale (Ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario), in riferimento agli articoli 3 e 32 della Costituzione (76).
Il giudice a quo era stato chiamato a giudicare un imputato minorenne, ritenuto, a seguito di perizia psichiatrica eseguita in incidente probatorio, totalmente incapace di intendere e di volere, e che ne è stata esclusa la pericolosità sociale solo se "ricoverato in una comunità per psicotici". Sulla base di tale situazione, la difesa ha eccepito l'incostituzionalità dell'art. 219, primo e terzo comma, del codice penale, nella parte in cui, rispettivamente, non vi si prevede il ricovero in casa di cura e di custodia anche per chi sia prosciolto per infermità psichica, e sia di scarsa pericolosità sociale, e non vi si prevede la possibilità per il giudice di applicare la libertà vigilata anche a chi sia stato prosciolto per infermità psichica e sia di scarsa pericolosità sociale.
La disciplina di legge ancorerebbe la scelta in ordine alla misura di sicurezza da adottare ad un criterio (la gravità del reato) espressivo della funzione retributiva, anziché di prevenzione speciale della misura stessa e, soprattutto farebbe dipendere il giudizio sulla pericolosità sociale del soggetto non da un accertamento in concreto, ma da un indice astratto e presuntivo, connesso alla distinzione tra vizio totale e vizio parziale di mente (e alla conseguente maggiore pericolosità dell'imputato nel primo, piuttosto che nel secondo caso), privo di "alcun supporto scientifico". La necessaria applicazione all'imputato, sulla base di tali condizioni, della misura di sicurezza detentiva di cui all'art. 222 cod. pen. si porrebbe in contrasto con l'art. 3 della Costituzione.
La disposizione censurata precluderebbe la possibilità di impiegare "soluzioni coerenti con le valutazioni medico-legali": nel caso di specie, l'imputato potrebbe proficuamente, secondo il giudice a quo, permanere in comunità di recupero, mentre le prescrizioni proprie del regime di libertà vigilata, "con possibilità di ricorrere a misure segreganti, qualora venisse meno la volontà dell'imputato di sottoporsi alle cure necessarie", rafforzerebbero l'efficacia del trattamento. Difatti, il regime di cura cui l'imputato è sottoposto risulta adeguato alle esigenze terapeutiche e, nel contempo, tutela la collettività in misura soddisfacente. La rigidità dei criteri imposti dalle disposizioni censurate in ordine alla scelta della misura di sicurezza si tradurrebbe, perciò, nel vizio denunciato (77).
Nel corso del giudizio, l'art. 219 è denunciato nella parte in cui, nel prevedere che il condannato per delitto non colposo ad una pena diminuita per vizio parziale di mente sia ricoverato in una casa di cura e di custodia (primo comma), con possibilità di sostituire a detta misura, a certe condizioni, quella della libertà vigilata (terzo comma), non contempla le stesse possibilità nei riguardi del soggetto prosciolto per totale incapacità di intendere e di volere a causa di infermità psichica, la cui pericolosità sociale non sia tale da richiedere la misura del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario. L'art. 222 è a sua volta denunciato nella parte in cui, nei riguardi del soggetto prosciolto per infermità psichica, giudicato socialmente pericoloso, impone sempre di adottare la misura del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, senza consentire (come invece è previsto per il minore non imputabile dagli articoli 224 e 232, primo e secondo comma, del codice penale) di adottare altre misure, e in specie quella della libertà vigilata, con eventuali prescrizioni.
"Il giudice remittente ritiene che la rigidità dei criteri imposti dalla legge per l'adozione della misura segregante del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario nel caso di maggiorenne totalmente incapace e socialmente pericoloso, e la conseguente impossibilità di ricorrere, come invece è previsto per il seminfermo di mente e per il minore non imputabile, ad altre misure, stabilendo la legge una presunzione di maggiore pericolosità dei soggetti affetti da vizio totale di mente, non confortata da alcun supporto scientifico, realizzino una irragionevole disparità di trattamento rispetto a dette analoghe situazioni; ancorino l'adozione della misura di sicurezza a un criterio (la gravità astratta del reato) che finisce per attribuire ad essa funzione retributiva anziché di prevenzione speciale; e impediscano l'adozione di soluzioni idonee a difendere la collettività e insieme a curare adeguatamente un soggetto pericoloso ma penalmente irresponsabile (donde la violazione dell'art. 32 della Costituzione)".
La Corte Costituzionale ha ritenuto che la questione di incostituzionalità fosse fondata.
Spesso la Corte è stata investita di questioni di legittimità costituzionale volte a censurare l'inadeguatezza della disciplina che la legge penale prevede nel caso degli infermi di mente che commettono fatti costituenti oggettivamente reato (il solo art. 222 del codice penale risulta oggetto di ben 18 decisioni della Corte, dal 1967 ad oggi).
Inoltre, sono state ripetutamente sottoposte alla Corte questioni tendenti a mettere in dubbio la legittimità sul piano costituzionale della previsione della misura "obbligatoria" del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, spesso facendo leva anche sulla legislazione che, a partire dalla legge 13 maggio 1978, n. 180 (Accertamenti e trattamenti sanitari volontari ed obbligatori), ha cercato di far fronte al problema dell'assistenza ai malati di mente superando l'antica prassi del ricovero in strutture segreganti come erano i manicomi: infatti gli OPG sono rimaste le ultime strutture "chiuse" per la cura di infermi psichiatrici. La specificità di questa misura di sicurezza sta, ovviamente, nella circostanza che essa è prevista nei confronti di persone che, per essere gravemente infermi di mente, non sono in alcun modo penalmente responsabili, e dunque non possono essere destinatari di misure aventi un contenuto anche solo parzialmente punitivo. La loro qualità di infermi richiede misure a contenuto terapeutico, non diverse da quelle che in generale si ritengono adeguate alla cura degli infermi psichici. D'altra parte la pericolosità sociale di tali persone, manifestatasi nel compimento di fatti costituenti oggettivamente reato richiede ragionevolmente misure atte a contenere tale pericolosità e a tutelare la collettività dalle sue ulteriori possibili manifestazioni pregiudizievoli.
A detta della Suprema Corte, "le esigenze di tutela della collettività non potrebbero mai giustificare misure tali da recare danno, anziché vantaggio, alla salute del paziente (78): pertanto, ove in concreto la misura coercitiva del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario si rivelasse tale da arrecare presumibilmente un danno alla salute psichica dell'infermo, non la si potrebbe considerare giustificata nemmeno in nome di tali esigenze".
In più occasioni la Corte abbia avvertito l'esigenza di esprimere la propria valutazione circa il "non soddisfacente trattamento riservato all'infermità psichica grave (...) specie quando è incompatibile con l'unico tipo di struttura custodiale oggi prevista" (79), nonché circa l'opportunità di una "attenta revisione" dell'intera disciplina in questione, "sia alla stregua dei dubbi avanzati intorno all'istituto stesso dell'ospedale psichiatrico giudiziario, sia alla stregua di una valutazione relativa all'adeguatezza di tale istituzione in relazione ai mutamenti introdotti sin dalle leggi 13 maggio 1978, n. 180 e 23 dicembre 1978, n. 833 per il trattamento dei soggetti totalmente infermi di mente" (80).
Solo nei confronti dei minori infermi di mente la Corte ha potuto giungere alla caducazione della norma che anche nei loro riguardi prevedeva il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, facendo leva sulla necessità costituzionale di un trattamento differenziato dei soggetti minorenni (81).
Il giudice remittente non invoca qui né la semplice eliminazione della misura di sicurezza, né la sua sostituzione con misure alternative di creazione giurisprudenziale, e nemmeno riferisce la sua censura ad una inadeguatezza di fatto delle strutture degli ospedali psichiatrici giudiziari; denuncia invece il rigido "automatismo" della regola legale che impone al giudice, in caso di proscioglimento per infermità mentale per un delitto che comporti una pena edittale superiore nel massimo a due anni, di ordinare il ricovero dell'imputato in ospedale psichiatrico giudiziario per un periodo minimo di due anni, o per un periodo più lungo in relazione all'entità della pena edittale prevista, senza consentirgli di disporre, in alternativa, misure diverse, pur quando in concreto tale prima misura non appaia adeguata alle caratteristiche del soggetto, alle sue esigenze terapeutiche e al livello della sua pericolosità sociale: a differenza di quanto avviene sia nel caso del seminfermo di mente (per il quale l'art. 219, terzo comma, prevede, a certe condizioni, la sostituibilità della misura del ricovero in casa di cura e custodia con quella della libertà vigilata), sia nel caso del minore non imputabile (per il quale l'art. 224 del codice penale contempla la possibilità di disporre la libertà vigilata in alternativa al ricovero in riformatorio giudiziario: e in proposito la sentenza n. 1 del 1971, che ha eliminato l'obbligo, in certi casi, di ordinare il ricovero in riformatorio giudiziario, nonché sentenza n. 324 del 1998, che esclude l'applicabilità ai minori della misura del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario).
In sostanza ciò che viene denunciato come incostituzionale è il vincolo rigido imposto al giudice di disporre comunque la misura detentiva (tale è il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario: art. 215, primo comma, n. 3, cod. pen.) anche quando una misura meno drastica, e in particolare una misura più elastica e non segregante come la libertà vigilata, che è accompagnata da prescrizioni imposte dal giudice, di contenuto non tipizzato (e quindi anche con valenza terapeutica), "idonee ad evitare le occasioni di nuovi reati" (art. 228, secondo comma, cod. pen.), appaia capace, in concreto, di soddisfare contemporaneamente le esigenze di cura e tutela della persona interessata e di controllo della sua pericolosità sociale.
Sottolinea la Suprema Corte: "La situazione dell'infermo di mente che abbia compiuto atti costituenti oggettivamente reato, ma non sia responsabile penalmente in forza appunto della sua infermità, è per molti versi assimilabile a quella di una persona bisognosa di specifica protezione come il minore. Anche per l'infermo di mente l'automatismo di una misura segregante e "totale", come il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, imposta pur quando essa appaia in concreto inadatta, infrange l'equilibrio costituzionalmente necessario e viola esigenze essenziali di protezione dei diritti della persona, nella specie del diritto alla salute di cui all'art. 32 della Costituzione" (82).
La Corte pertanto ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 222 del codice penale nella parte in cui preclude al giudice, che in concreto ravvisi l'inidoneità della misura del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario a rispondere alle predette esigenze, di adottare un'altra fra le misure previste dalla legge, e in specie la misura della libertà vigilata, accompagnata, ai sensi dell'art. 228, secondo comma, del codice penale, da prescrizioni idonee nella specie ad evitare le occasioni di nuovi reati.
Note
1. S. Carboni, L'ospedale psichiatrico giudiziario, tesi di laurea, facoltà di Giurisprudenza, Firenze, anno accad. 1996-1997.
2. M. Foucault, Storia della follia nell'età classica, Milano, Rizzoli,1988.
3. A. Verga, Definizione della pazzia (discorso pronunciato per l'inaugurazione dell'anno psichiatrico 1873-74 nell'Ospedale Maggiore di Milano), in Studi anatomici sul cranio e sull'encefalo, psicologi e frenatrici, vol. II, Manini-Wiget, Milano, 1897, p. 130; vedi anche R. Canosa, Storia del manicomio in Italia dall'Unità ad oggi, Feltrinelli, Milano, 1979, p.57.
4. Ivi, p. 58.
5. C. Livi, Del metodo sperimentale in freniatria e medicina legale, in I Numero della Rivista Sperimentale di Freniatria, 1875, p. 4.
6. C. Lombroso, L'uomo delinquente, vol. I, Bocca, Firenze, 1889.
7. R. Canosa, Storia del manicomio in Italia dall'Unità ad oggi, op. cit., p. 60.
8. E. Ferri, Sociologia Criminale, ed. Bocca, Torino, 1892, p. 718 ss; vedi anche R. Canosa,Storia del manicomio in Italia, op. cit., p. 139.
9. P. Guarnieri, L'Ammazzabambini: legge e scienza in un processo toscano di fine ottocento,Torino, Einaudi, 1988.
10. A.Tamassia, Gli ultimi studi sulla criminalità, in Riv. Sper. di Fren, 1881, p. 21.
11. E. Morselli, Psicologia dell'uomo delinquente, in Riv. Sper. di Fren, 1877, p. 34.
12. A. Tamburini, Dei Manicomi Criminali e d'una lacuna dell'odierna legislazione, in Rivista di discipline carcerarie,1876, p.440 e ss.
13. C. Lombroso, Sull'istituzione dei manicomi criminali in Italia, in Rendiconti del Regio Istituto Lombardo di scienze, lettere e arti, 1872, vol. 5, p.72 ss., cit. da R. Canosa, Storia del manicomio in Italia dall'Unità ad oggi, op. cit., p. 137.
14. A. Tamburini, I manicomi criminali, in Rivista di discipline carcerarie, 1873, p. 35.
15. R. Canosa, Storia del manicomio in Italia, op. cit., p. 139.
16. R. Canosa, Storia del manicomio in Italia, op. cit., p. 140 ss
17. Ibid.
18. F. Degl'innocenti, La funzione del Manicomio criminale in Italia, in Riv. Sper. di Fren, vol. CXIII, n. 5, pp. 1218-1235, 1989; vedi anche R. Canosa, Storia del manicomio in Italia, op. cit., p. 142.
19. U. Fornari, Irresistibile impulso e responsabilità penale: aspetti normativi, in Rivista Sperimentale di Freniatria, vol. CXII,, n. 1, 1988, p. 43-85.
20. M.G. Giannichedda, Sul trattamento sanitario coatto, in Democrazia e diritto, n. 4, 1988, p. 450.
21. E. Tanzi, Psichiatria forenese, Vallardi, Milano 1911, p. 129.
22. G. Rabaglitti, Manicomi, in Novissimo Digesto, vol. X, UTET, Torino, 1957, p. 177.
23. R.Canosa, Storia del manicomio in Italia dall'unità ad oggi, op. cit., p. 177; vedi anche S. Merlini, Libertà personale e tutela della salute mentale: profili costituzionali, in Democrazia e diritto, 1970, p. 55 e ss.
24. A.M. Vecchietti, Salute mentale e riforma sanitaria, Giuffrè, Milano, 1983, p. 4.
25. A.M. Vecchietti, op. cit., p. 11.
26. A. Manacorda, Il Manicomio giudiziario: cultura psichiatrica e scienza giuridica, De Donato, Bari, 1988, p. 39.
27. A. Manacorda, Il Manicomio giudiziario: cultura psichiatrica e scienza giuridica, op.cit., p.31 ss.
28. Atti del Convegno nazionale di studio per la riforma della legislazione sugli ospedali psichiatrici, Milano, 1955, p. 770, citato da G. Rabaglitti, op. cit., p. 180.
29. A.M. Vecchietti, op. cit., p. 28.
30. G. Di Gennaro, M. Bonomo, R. Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, 2a ed., Giuffrè, Milano, 1980, pp. 309 e ss, nonché Ministero di grazia e giustizia (a cura del), Ordinamento penitenziario. Misure preventive e limitative della libertà. Legge e regolamento. Disposizioni complementari, Milano, 1977, pp. 29 e ss; Lex. Legislazione italiana, anno LXI, Parte I, Utet, Torino, 1975, pp. 1366 e ss.
31. V. Grevi, Magistratura di Sorveglianza e misure alternative alla detenzione nell'ordinamento penitenziario: profili processuali, in F. Bricola, Il carcere riformato, p. 265, nonché V. Grevi, Magistratura di Sorveglianza e misure alternative alla detenzione nell'ordinamento penitenziario: profili processuali, in C.N.P.D.S, Pene e misure alternative nell'attuale momento storico, p. 103.
32. Citata circolare della Direzione Generale, v. A. Margara, Relazione, Funzioni del magistrato di sorveglianza con riferimento anche alle misure di sicurezza. Rapporti con l'amministrazione penitenziaria centrale e periferica, inC.S.M., Diritto penitenziario e misure alternative, op. cit., pp. 34-35; N. Franco, Relazione su Funzioni del magistrato di sorveglianza con riferimento anche alle misure di sicurezza. Rapporti con l'amministrazione penitenziaria centrale e periferica, op. cit., in C.S.M., Diritto penitenziario e misure alternative, op. cit., pp. 20-21.
33. A. Margara, Magistratura di sorveglianza, in G. Vassalli (a cura di), Dizionario di diritto e procedura penale, op. cit., pp. 608-609, nonché G. Vassalli, Relazione. Parte prima. Considerazioni generali sulle attività degli uffici di sorveglianza, in C.S.M, Diritto penitenziario e misure alternative, Roma 1979, p. 27, e Il magistrato di sorveglianza quale garante di conformità alla legge dell'attività penitenziaria, in V. Grevi (a cura di), Alternative alla detenzione e riforma penitenziaria, Bologna 1982, p. 204.
34. G. Di Gennaro, M. Bonomo, R. Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, op. cit., p. 318.
35. G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano 1997, pp. 316.
36. N. Franco, Relazione: Funzioni del magistrato di sorveglianza con riferimento anche alle misure di sicurezza. Rapporti con l'amministrazione penitenziaria centrale e periferica, in C.S.M., Diritto penitenziario e misure alternative, op. cit., p. 20.
37. A. Margara, Il magistrato di sorveglianza quale garante di conformità alla legge dell'attività penitenziaria, in V. Grevi, Alternative alla detenzione e riforma penitenziaria, op. cit., p. 215.
38. D. Barbieri, Un lager italiano: quei matti da slegare, Avvenimenti, 20 settembre 1995.
39. F. Molinari, Le misure di sicurezza psichiatriche vanno abolite: questa l'opinione unanime dei giudici di sorveglianza e degli psichiatri intervenuti al Congresso di Arezzo, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1980, p. 147.
40. F. Basaglia, L'istituzione negata, Einaudi, Torino, 1968, p. 6 ss.
41. A. Manacorda, Il manicomio giudiziario: alcune note per la comprensione dei problemi attuali, in Foro It., 1980, V. 67.
42. F. Mantovani, Il problema della criminalità, Cedam, Padova, 1984, p. 123.
43. L. Daga, Ospedali psichiatrici giudiziari, sistema penale e sistema penitenziario: appunti sulla funzione dell'O.P.G, in Rass. Penit. Criminol., 1985, p. 12, ove si rileva un aumento della popolazione degli internati del 14,08% negli anni 1979-1985.
44. A. Manna, Il trattamento sanzionatorio del malato di mente autore di reato e le prospettive di riforma, in Rass. Criminol., 1994, p. 269; G. Russo, Il manicomio giudiziario come luogo di trattamento per detenuti difficili, in Riv. It. Med. Leg., 1982, p. 928.
45. Pubblicazione della Gazz. Uff. 25/5/2000 n. 120.
46. F. Mantovani, Il problema della criminalità, Cedam, Padova, 1984, pag. 122.
47. P. Zatti, Infermità di mente e diritti fondamentali della persona, in Politica del diritto, a. XVII, n. 3, settembre 1986, p. 436.
48. A.M. Vecchietti, op. cit., p. 77 e ss.
49. G. Visentini, La nuova disciplina sui trattamenti sanitari obbligatori per malattie mentali. Riflessi sulla nozione di incapacità di intendere e di volere, in Rivista critica del diritto privato, a. II, n. 4, dicembre 1984, p. 819.
50. M.Betti, M.Pavarini, La tutela sociale della /dalla follia, in Dei delitti e delle pene, 1984, vol.1, p.161.
51. Ivi, p.167.
52. Opinioni di G. Berti Ceroni e G. Franzoni citati in M.Betti, M.Pavarini, La tutela sociale della /dalla follia, op. cit., in Dei delitti e delle pene, 1984, vol.1, p.169-170.
53. Ibid
54. Ibid
55. Opinione di G. P. Meucci citata in M.Betti, M.Pavarini, La tutela sociale della /dalla follia, op. cit., in Dei delitti e delle pene, 1984, vol.1, p.170.
56. Ivi, p.172.
57. F. Scarpa, Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Vedi anche S. Carboni, L'ospedale psichiatrico giudiziario, tesi di laurea, facoltà di Giurisprudenza, Firenze, anno accad. 1996-1997.
58. Ibid
59. S. Carboni, L'ospedale psichiatrico giudiziario, tesi di laurea, facoltà di Giurisprudenza, Firenze, anno accad. 1996-1997.
60. Corte Costituzionale, Sentenza n. 146 del 19. 6. 1975, Rivista italiana di Diritto e Procedura penale, XIX, 1976.
61. F. Scarpa, Ospedale Psichiatrico Giudiziario.
62. Ibid
63. Ibid
64. G. Ponti, Le psicosi carcerarie, in Principi fondamentali di medicina penitenziaria, 1988, p.850.
65. F. Ceraudo, La carcerazione- Eventi psicologici, in Atti del Iº Congresso Nazionale AMAPI di Psichiatria penitenziaria, Parma, 1993.
66. Intervista a M. De Somma, Psicologo all'OPG di Aversa.
67. Ibid
68. F. Scarpa, Ospedale Psichiatrico Giudiziario.
69. Ibid
70. R. Andreano, Tutela della salute e organizzazione sanitaria nelle carceri: profili normativi e sociologici, 2001, III capitolo.
71. Circolare n.3267/5717 del 3.6.1989.
72. Ibid
73. Decreto 230/99. Vedi anche R. Andreano, Tutela della salute e organizzazione sanitaria nelle carceri: profili normativi e sociologici, 2001, III capitolo.
74. Ibid
75. Ibid
76. EIUS - Corte costituzionale, sentenza 18 luglio 2003, n. 253
77. Penale.it - Corte Costituzionale, Sentenza 2 - 18 luglio 2003, n. 253
78. Sentenze Corte Costituzionale n. 307 del 1990, n. 258 del 1994, n. 118 del 1996, sulle misure sanitarie obbligatorie a tutela della salute pubblica
79. Sentenza Corte Costituzionale n. 111 del 1996
80. Sentenza Corte Costituzionale n. 228 del 1999
81. Sentenza Corte Costituzionale n. 324 del 1998
82. Corte Costituzionale Sentenza 2 - 18 luglio 2003 253/2003

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3.1. I principi generali e la normativa vigente
Come già accennato, per i malati di mente che non delinquono, il nostro sistema prevede un regime di trattamento terapeutico pressoché incompatibile con quello, dal carattere spiccatamente carcerario, dell'internamento in OPG, dato che il trattamento sanitario del malato di mente, dopo la soppressione degli ospedali psichiatrici civili (legge 180 /1978 e legge 833/1978), esclude il ricorso, come strumenti terapeutici, alla segregazione ed alla custodia; invece, per il malato di mente che delinque viene previsto il ricovero in strutture psichiatriche penitenziarie, custodialistiche e segreganti, mentre avrebbe, senza dubbio, più bisogno di aiuto psichiatrico- terapeutico un soggetto che si è trovato a delinquere per la sua condizione di disagio psichico, acuita dalla reclusione.
Gli operatori dell'OPG e gli addetti ai lavori in genere non hanno saputo motivare l'esistenza di una tale distinzione, certo è che esiste effettivamente un trattamento diversificato tra malati fisici e "malati psichici", diversificazione riconducibile al retaggio storico che ci portiamo dietro dalla vecchia legislazione penale, ma che occorre sicuramente cambiare.
Proprio in questa direzione si muove la nuova tendenza dell'Amministrazione penitenziaria, a partire dalle direttive del Presidente Margara, privilegiando l'aspetto trattamentale, rieducativo, risocializzante e soprattutto quello terapeutico negli OPG rispetto a quello custodiale e di mera vigilanza: ogni passo in tale senso è segno di civiltà e progresso per questa categoria di detenuti-internati, che recuperano il loro diritto alla salute, tramite il D.A.P. e il Ministero della Sanità.
Il Presidente Margara, nel breve periodo in cui ha ricoperto il ruolo di Direttore generale del D.A.P., ha proprio invitato specificatamente i direttori degli istituti penitenziari ad incentivare tutti gli interventi psicologici e psichiatrici negli istituti stessi per evitare il ricorso al ricovero in OPG, prospettando la necessità di una forma di cooperazione e interazione più solida fra il servizio sanitario intramurale e quello esistente a livello di Servizio Sanitario Nazionale; inoltre si auspica la creazione di un unico grande sistema di organizzazione composto da un servizio psichiatrico, un servizio psicologico e un servizio trattamentale, che come equipe sia in grado di valutare il soggetto all'ingresso in carcere, di coglierne l'eventuale disagio, di seguirlo e di intervenire, di svolgere le funzioni proprie di osservazione e trattamento nei confronti di tutti i detenuti. Sarebbe inoltre auspicabile la creazione di un organico di esperti, in particolare del servizio psichiatrico all'interno di ogni istituto penitenziario e la previsione, rivoluzionaria quanto utile, di procedere all'osservazione psichiatrica del detenuto all'interno dell'istituto in cui il soggetto si trova. Ulteriore innovazione consiste nell'abolizione dell'isolamento e la prolungata presenza in cella del detenuto, e la possibilità di attività terapeutiche individualizzate, in funzione del recupero della salute mentale dell'internato.
Nel descrivere il modello organizzativo di un OPG, sono già state prese in considerazione le sue principali componenti che sono rappresentate, da un lato, dall'aspetto sanitario, tendente al trattamento ed al recupero, e dall'altro, dall'aspetto penitenziario della custodia e della protezione sociale. Si è già detto che spesso tali componenti entrano in conflitto tra loro, in quanto difficilmente compatibili: curare ed, al tempo stesso, limitare la libertà personale, al fine di offrire idonea protezione sociale, risulta molto difficile, soprattutto quando la cura, come nel caso degli OPG, presuppone un intervento trattamentale variamente articolato, che può consistere nella somministrazione di psicofarmaci, ma anche nell'adozione di strumenti psicoterapeutici alternativi, quali sono le varie attività socio-riabilitative: l'aspetto custodiale, ancora oggi fortemente presente nella struttura e nell'organizzazione interna dell'OPG, ostacola non poco il tentativo di recuperare e di ripristinare le alterate capacità psicofisiche e comportamentali dei soggetti ricoverati. Il lavoro complessivo degli operatori di un OPG, cioè l'insieme dell'agire psichiatrico e terapeutico, non può limitarsi solo a prescrivere e far assumere farmaci psicotropi; infatti con il termine terapia si intende un insieme di attività quali:
trattamenti psicoterapeutici individuali e di gruppo;
interventi di riabilitazione psicosociale, sia in laboratori che in attività lavorative;
orientamento al lavoro e formazione professionale;
attività sportiva.
L'integrazione professionale tra i vari operatori, la collaborazione con gli operatori del territorio, la supervisione dell'attività terapeutica hanno contribuito a valorizzare e a migliorare progressivamente le possibilità di intervento terapeutico.
In determinate condizioni si possono manifestare patologie mentali per curare le quali non si deve ricorrere solo alla strategia terapeutica del farmaco, ma occorre principalmente far recuperare ai soggetti malati quelle che sono le proprie relazioni, con se stessi e con gli altri. Per questo motivo, gli OPG hanno progressivamente impostato e organizzato una serie di iniziative trattamentali, che realizzano quelle condizioni che possono fare esprimere nuovamente questi soggetti.
Come mi ha spiegato il Dr. Margara, durante il colloquio che abbiamo avuto il 16 giugno, la Costituzione attribuisce alla pena in modo esplicito, all'art. 27, una funzione rieducativa, intesa sempre più chiaramente come funzione di integrazione, di inclusione sociale. La Corte Costituzionale, in molte delle sue sentenze, ha affermato un vero e proprio diritto del condannato a vedere riesaminato se l'effetto di risocializzazione sia già stato raggiunto in carcere; nel qual caso, la parte restante della pena deve essere eseguita all'esterno del carcere, in un regime di misura alternativa alla detenzione, ovvero di prova controllata; e che, in secondo luogo, questo periodo di esecuzione della pena fuori dal carcere va considerato come momento di controllo, ma anche di sostegno, attraverso una apposita organizzazione, per agevolare l'inserimento sociale del condannato. Questo è dunque il risultato che la esecuzione della pena deve raggiungere se vuole essere realmente efficace secondo i principi costituzionali.
Recentemente, il nuovo Regolamento di attuazione dell'Ordinamento Penitenziario (DPR 230/2000) (1) ha ribadito che il trattamento dei soggetti sottoposti a misure privative della libertà deve consistere nell'offerta di interventi diretti a sostenere gli interessi umani, culturali e professionali e che il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati deve essere finalizzato a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale (art. 1).
A proposito degli interventi che un OPG deve attuare per favorire la partecipazione alla attività trattamentali, occorre analizzare il contenuto dell'art. 20, comma 1, del Regolamento di esecuzione penitenziaria:
Nei confronti dei detenuti e degli internati infermi o seminfermi di mente...devono essere attuati interventi che favoriscano la loro partecipazione a tutte le attività trattamentali e in particolare a quelle che consentano, in quanto possibile, di mantenere, migliorare o ristabilire le loro relazioni con la famiglia e l'ambiente sociale, anche attraverso lo svolgimento di colloqui fuori dei limiti stabiliti dall'articolo 37. Il servizio sanitario pubblico, territorialmente competente, accede all'istituto per rilevare le condizioni e le esigenze degli interessati e concordare con gli operatori penitenziari l'individuazione delle risorse esterne utili per la loro presa in carico da parte del servizio pubblico e per il loro successivo reinserimento sociale (2).
A norma dell'art. 4 del suddetto regolamento, alle attività di trattamento svolte negli istituti e dai centri di servizio sociale devono partecipare tutti gli operatori penitenziari, secondo le rispettive competenze. Gli interventi di ciascun operatore professionale o volontario devono contribuire alla realizzazione di una positiva atmosfera di relazioni umane e svolgersi in una prospettiva di integrazione e collaborazione: a tal fine, gli istituti penitenziari e i centri di servizio sociale, dislocati in ciascun ambito regionale, devono costituire un complesso operativo unitario, i cui programmi devono essere organizzati e svolti con riferimento alle risorse della comunità locale. Il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ed i provveditori regionali devono adottare le opportune iniziative per promuovere il coordinamento operativo rispettivamente a livello nazionale e regionale (3).
Si è già detto, nel capitolo precedente, che la strutturazione interna degli OPG è, essenzialmente, caratterizzata da una suddivisione in vari reparti ai quali vengono assegnati i soggetti ricoverati nell'istituto in base a criteri di natura giuridica e sanitaria. Si è anche detto che i criteri di natura giuridica sono rappresentati dalla posizione giuridica dell'internato che può essere provvisoria, oppure definitiva.
Innanzitutto, occorre ribadire che ci sono attività che il personale sanitario svolge indistintamente per tutti gli internati, come colloqui psichiatrici e visite internistiche periodiche settimanali al fine di un iniziale inquadramento diagnostico, individuazione del trattamento psicofarmacologico ed internistico più indicato per il singolo internato.
Per tutti gli internati è possibile l'avvio di un progetto trattamentale risocializzante e riabilitativo interno all'istituto, quando, comunque, il quadro psicopatologico ha raggiunto una fase di sufficienti risultati, tale progetto trattamentale può consistere in corsi di formazione professionale in vari settori, ad esempio quello del giardinaggio, della ceramica, della falegnameria, della legatoria; oppure può consistere in corsi di scuola elementare o media; e ancora, in corsi di risocializzazione attraverso il disegno, la pittura, la musicoterapica (terapia che usa la musica forma di espressione degli stati d'animo e delle emozioni), il teatro, l'attività motoria, la fotografia, il cineforum, l'attività audiovisiva, gli sport come il tennis, il calcetto, ecc. Di solito, vi sono inoltre locali adibiti alle attività comuni: la scuola, la biblioteca, una sala per il cinema ed una palestra. La scuola elementare tende anche alla rialfabetizzazione di chi ha subito la perdita di tale capacità.
3.2. Il trattamento intramurario
Oggi come oggi, all'interno di un'istituzione totale come quella di Montelupo, curare non significa più limitarsi a controllare il sintomo della malattia e mettere il paziente nelle condizioni di non nuocere né a sé né agli altri. Essendo la vita istituzionale scandita da precisi ritmi e rituali, dettati da esigenze organizzative e custodialistiche, oggi si cerca di prestare una maggiore attenzione, rispetto al passato, ai bisogni individuali dei pazienti, condizionati dai limiti della malattia mentale, ma non più costretti a vivere in una condizione di totale perdita degli affetti, degli interessi, degli stimoli, delle aspettative per il futuro.
Si è già accennato che la riflessione sui limiti e sull'inadeguatezza della pratica istituzionale ha indotto alla programmazione di alcune attività, volte al recupero del piano interpersonale, da svolgersi di pari passo al programma terapeutico previsto per ogni paziente, attraverso il prezioso contributo di operatori interni e di volontari. Per quanto riguarda l'aspetto terapeutico, nel precedente capitolo, si è già parlato del progetto di trattamento stabilito dall'équipe, con la possibilità di coinvolgere oltre ai familiari del malato anche i servizi territoriali di residenza di questo. In questa sede si tratterà della attività risocializzanti interne, e successivamente anche esterne, che l'OPG di Montelupo mette a disposizione degli internati: per quanto riguarda le attività intramurarie, si descriveranno in particolare le attività d'istruzione, le attività lavorative e quelle culturali.
Si ribadisce che le attività che possono svolgersi all'interno dell'OPG coinvolgono indistintamente tutti gli internati, sempre che le loro condizioni di salute lo permettano, mentre, per quel che riguarda, invece, la strutturazione di un progetto trattamentale esterno, questo è possibile, solo per gli internati definitivi, cioè per gli internati prosciolti e seminfermi con posizione giuridica definitiva e di detenuti in art. 148 c.p., per infermità psichica sopravvenuta alla condanna. Solo per questi pazienti, essendo la posizione giuridica ormai non più soggetta a ulteriori definizioni, è possibile l'avvio di un intervento di riabilitazione più approfondito ed articolato che consiste, oltre che nelle attività risocializzanti già sopra descritte, anche in un concreto programma "di sperimentazione esterna", caratterizzato da uscite dall'OPG.
3.2.1. Le attività scolastiche
Per quanto concerne il diritto all'istruzione, il Ministero della pubblica istruzione, in ottemperanza agli artt. 41 e ss. del nuovo Regolamento penitenziario (4), e previe opportune intese con il Ministero della giustizia, impartisce direttive agli organi periferici della pubblica istruzione per l'organizzazione di corsi di istruzione secondaria superiore. L'organizzazione didattica e lo svolgimento dei corsi sono curati dai competenti organi dell'amministrazione scolastica. La direzione dell'istituto fornisce locali e attrezzature adeguate e cura che venga data adeguata informazione agli internati dello svolgimento dei corsi scolastici, allo scopo di favorire la più ampia partecipazione.
La direzione cura inoltre che gli orari di svolgimento dei corsi siano compatibili con la partecipazione di persone già impegnate in attività lavorativa o in altre attività organizzate nell'istituto. Sono evitati, in quanto possibile, i trasferimenti ad altri istituti degli internati impegnati in attività scolastiche, anche se motivati da esigenze di sfollamento, e qualunque intervento che possa interrompere la partecipazione a tali attività.
La direzione, quando ritiene opportuno proporre il trasferimento degli internati che frequentano i corsi, acquisisce in proposito il parere degli operatori dell'osservazione e trattamento e quello delle autorità scolastiche, pareri che sono uniti alla proposta di trasferimento trasmessa agli organi competenti a decidere. Se viene deciso il trasferimento, lo stesso è attuato, in quanto possibile, in un istituto che assicuri alla persona trasferita la continuità didattica. All'interno dell'istituto è costituita una commissione didattica, con compiti consultivi e propositivi, della quale fanno parte il direttore dell'istituto, che la presiede, il responsabile dell'area trattamentale e le educatrici (5).
Invece, i corsi di istruzione secondaria superiore sono organizzati, su richiesta dell'Amministrazione penitenziaria, dal ministero della pubblica istruzione a mezzo della istituzione di succursali di scuole del predetto livello in determinati istituti penitenziari. A tali corsi sono ammessi gli internati che manifestano seria aspirazione allo svolgimento degli studi e che debbano permanere in esecuzione della misura privativa della libertà per un periodo di tempo non inferiore ad un anno scolastico. Sono stabilite intese con le autorità scolastiche per offrire la possibilità agli studenti di sostenere gli esami previsti per i vari corsi. Per agevolare gli internati che non siano in condizioni di frequentare i corsi regolari, la direzione dell'istituto può concordare con un vicino istituto d'istruzione secondaria superiore le modalità di organizzazione di percorsi individuali di preparazione agli esami per l'accesso agli anni di studio intermedi dei corsi di istruzione secondaria superiore. A tal fine possono essere utilizzate anche persone dotate della necessaria qualificazione professionale. Qualora non sia possibile rendere compatibile lo svolgimento dei corsi di studio con quello della attività di lavoro, gli internati, durante la frequenza dei corsi, sono esonerati dal lavoro.
Per quanto riguarda invece gli studi universitari, per gli internati che risultino iscritti ai corsi di studio universitari o che siano in possesso dei requisiti per l'iscrizione, sono stabilite le opportune intese con le autorità accademiche per consentire agli studenti di usufruire di ogni possibile aiuto e di sostenere gli esami. Anche coloro che seguono corsi universitari possono essere esonerati dal lavoro, a loro richiesta, in considerazione dell'impegno e del profitto dimostrati. All'interno dell'OPG, gli internati studenti universitari sono trasferiti, per quanto la struttura lo consenta, in camere e reparti adeguati allo svolgimento dello studio; gli studenti possono essere autorizzati a tenere nella propria camera e negli altri locali di studio i libri, le pubblicazioni e tutti gli strumenti didattici necessari al loro studio.
3.2.2. Le attività lavorative interne
L'attività lavorativa gli internati in OPG è strumento rieducativo efficace ed irrinunciabile, sia per il sostentamento economico che questa produce, sia per il progetto di recupero di un ruolo sociale e di una dignità personale che consistono nel primo passo fondamentale per la risocializzazione. Quando si tenta di dare dignità all'individuo, che ha bisogno di essere autonomo e di vedere valorizzate le sue capacità, non si può prescindere dal lavoro.
A tale proposito, l'art. 20, comma 4 e 5, del Regolamento penitenziario, sancisce:
4. I detenuti e gli internati infermi o seminfermi di mente che, a giudizio del sanitario, sono in grado di svolgere un lavoro produttivo o un servizio utile sono ammessi al lavoro e godono di tutti i diritti relativi.
5. Coloro che non sono in grado di svolgere un lavoro produttivo o un servizio utile possono essere assegnati, secondo le indicazioni sanitarie, ad attività ergoterapiche e ad essi viene corrisposto un sussidio nella misura stabilita con decreto ministeriale (6).
In generale, le attività lavorative, sia all'interno che all'esterno dell'istituto, possono essere organizzate e gestite dalle direzioni degli istituti secondo le linee programmatiche determinate dai provveditorati; possono essere organizzate e gestite da imprese pubbliche e private e, in particolare, da imprese cooperative sociali, in locali concessi in comodato dalle direzioni. Gli internati che prestano la propria opera in tali lavorazioni dipendono, quanto al rapporto di lavoro, direttamente dalle imprese che le gestiscono; i datori di lavoro sono tenuti a versare alla direzione dell'istituto la retribuzione dovuta al lavoratore e l'importo degli eventuali assegni per il nucleo familiare sulla base della documentazione inviata dalla direzione. I datori di lavoro sono tenuti inoltre a dimostrare alla direzione l'adempimento degli obblighi relativi alla tutela assicurativa e previdenziale.
Secondo quanto mi hanno raccontato il Dr. Scarpa e alcuni internati, durante i colloqui che abbiamo avuto, nell'OPG di Montelupo, le lavorazioni interne dell'istituto sono organizzate, in quanto possibile, in locali esterni alle sezioni detentive, attrezzati con spazi per la consumazione dei pasti durante l'orario di lavoro. Le mansioni affidate agli internati, come si è già detto, possono anche avere ad oggetto servizi interni, come quello di somministrazione del vitto, di pulizia e di manutenzione dei fabbricati.
Attualmente, il lavoro all'interno della struttura di Montelupo impegna 45 internati: ognuno ha specifiche competenze come muratore, come meccanico, come addetto alla lavanderia o al magazzino; chi si occupa della cucina e degli acquisti delle vivande; chi si occupa della pulizia dei vari reparti, ecc. La diversità dei ruoli nella gestione delle faccende interne, oltre a costituire fonte di sostentamento economico per le necessità personali, ove regolarmente retribuita come lavoro vero e proprio, serve anche e soprattutto alla responsabilizzazione del soggetto, che impara progressivamente a gestirsi autonomamente e ad acquisire un suo ruolo specifico all'interno della società dell'OPG.
I laboratori e le attività creative messe su ultimamente dai pazienti e dagli operatori costituiscono una concreta dimostrazione di come sia possibile praticare un intervento rispettoso dei diritti dell'individuo e della società, contemperando esigenze di cura e di tutela sociale.
L'Amministrazione penitenziaria deve fornire il vestiario e gli strumenti necessari all'esplicazione del lavoro. Quando il lavoro è commissionato da imprese pubbliche o private può essere convenuto che il committente fornisca materie prime e accessorie, attrezzature e personale tecnico. Del valore di queste prestazioni si tiene conto al fine di determinare le incidenze sui costi e il conseguente prezzo dei prodotti.
I posti di lavoro a disposizione della popolazione detenuta di ciascun istituto sono fissati in un'apposita tabella predisposta dalla direzione e distinta tra lavorazioni interne, lavorazioni esterne, servizi di istituto. Nella tabella sono, altresì, indicati i posti di lavoro disponibili all'interno per il lavoro a domicilio, nonché i posti di lavoro disponibili all'esterno.
Comunque, occorre precisare che gli internati ammessi al lavoro, sia all'interno che all'esterno dell'istituto, come si dirà successivamente, esercitano i diritti riconosciuti ai lavoratori liberi, con le sole limitazioni che conseguono agli obblighi inerenti alla esecuzione della misura privata della libertà.
Oltre all'attività lavorativa, gli internati possono svolgere anche attività artigianali, intellettuali e artistiche: queste attività si svolgono, fuori delle ore destinate al lavoro ordinario, in appositi locali o, in casi particolari, nelle camere, se ciò non comporti l'uso di attrezzi ingombranti o pericolosi o non arrechi molestia.
Per favorire tale responsabilizzazione, la direzione dell'istituto agevola la partecipazione degli internati a corsi di formazione professionale, in base alle esigenze della popolazione e alle richieste del mercato del lavoro; a tal fine promuove accordi con la regione e gli enti locali competenti. Inoltre, l'Amministrazione penitenziaria promuove protocolli d'intesa con gli enti locali che garantiscano all'internato la continuità della frequenza e la possibilità di conseguire il titolo di qualificazione anche dopo la dimissione.
La direzione può fornire locali e attrezzature adeguate e può progettare, d'intesa con il provveditorato regionale, attività formative rispondenti a esigenze particolari degli internati, tali da sviluppare il lavoro penitenziario, a norma dell'art. 42 del Regolamento penitenziario.
La direzione si preoccupa inoltre di fornire adeguata informazione agli internati dello svolgimento dei corsi, al fine di favorirne la più ampia partecipazione, curando che gli orari di svolgimento dei corsi siano compatibili con la partecipazione di persone già impegnate in attività lavorativa o in altre attività organizzate in istituto. Occorre precisare che, per motivi di gestione interna, anche per la partecipazione alle attività lavorative, sono limitati al massimo i trasferimenti ad altri istituti degli internati impegnati nei corsi, anche se motivati da esigenze di sfollamento, e qualunque intervento che possa interrompere la partecipazione a tali attività. Anche in questo caso, la direzione, quando il trasferimento di internati che frequentano i corsi derivi da motivi di opportunità, acquisisce in proposito il parere degli operatori dell'osservazione e trattamento e quello delle educatrici, pareri che sono uniti alla proposta di trasferimento trasmessa agli organi competenti a decidere. Se viene deciso il trasferimento, lo stesso è attuato, in quanto possibile, in un istituto che assicuri alla persona trasferita la continuità didattica. Per lo svolgimento dei programmi e per le attività integrative, può essere utilizzato d'intesa con la direzione, il contributo volontario di persone qualificate, le quali operano sotto la responsabilità del personale degli enti locali.
3.2.3. Le attività culturali
Oltre alle attività scolastiche e lavorative, vengono organizzate alcune attività culturali, ricreative e sportive; i programmi di tali attività sono articolati in modo da favorire possibilità di espressioni differenziate. Tali attività devono essere organizzate in modo da favorire la partecipazione degli internati, siano questi lavoratori o studenti.
Tali attività possono consistere in corsi di ceramica, pittura, poesia, giardinaggio, musica e teatro, nonché in alcuni corsi di fotografia e di tennis. Le attività sportive sono rivolte soprattutto ai giovani e per il loro svolgimento deve essere sollecitata la collaborazione degli enti locali preposti alla cura delle attività sportive (art. 59 DPR 230/2000) (7).
Al fine di favorire la partecipazione alle attività culturali, le direzioni degli istituti devono organizzarsi per ottemperare alla prescrizione contenuta nell'art. 21 del nuovo Regolamento, il quale dispone:
1. La direzione dell'istituto deve curare che i detenuti e gli internati abbiano agevole accesso alle pubblicazioni della biblioteca dell'istituto, nonché la possibilità, a mezzo di opportune intese, di usufruire della lettura di pubblicazioni esistenti in biblioteche e centri di lettura pubblici, funzionanti nel luogo in cui è situato l'istituto stesso.
2. Nella scelta dei libri e dei periodici si deve realizzare una equilibrata rappresentazione del pluralismo culturale esistente nella società.
3. Il servizio di biblioteca è affidato, di regola, a un educatore. Il responsabile del servizio si avvale, per la tenuta delle pubblicazioni, per la formazione degli schedari, per la distribuzione dei libri e dei periodici, nonché per lo svolgimento di iniziative per la diffusione della cultura, dei rappresentanti dei detenuti e degli internati previsti dall'articolo 12 della legge, i quali espletano le suddette attività durante il tempo libero. Si avvale altresì di uno o più detenuti scrivani, regolarmente retribuiti. (...)
5. Nell'ambito del servizio di biblioteca, è attrezzata una sala lettura, cui vengono ammessi i detenuti e gli internati. I detenuti e internati lavoratori e studenti possono frequentare la sala lettura anche in orari successivi a quelli di svolgimento dell'attività di lavoro e di studio. Il regolamento interno stabilisce le modalità e gli orari di accesso alla sala di lettura (8).
Secondo la disposizione dell'art. 71 del suddetto, se singoli internati dimostrino particolari attitudini a collaborare per il proficuo svolgimento dei programmi dell'istituto, a questi possono essere affidate dalla direzione mansioni che comportino compiti di animazione nelle attività di gruppo, di carattere culturale, ricreativo e sportivo, nonché di assistenza nelle attività di lavoro in comune. Le mansioni suddette sono espletate sotto la diretta supervisione del personale, il quale deve garantire che in nessuna circostanza l'esercizio di esse importi un potere disciplinare o possa servire come pretesto per l'acquisizione di una posizione di preminenza sugli altri detenuti o internati.
In particolare, negli ultimi anni, la realizzazione di progetti ed esperienze innovativi, concretizzatesi grazie alla piena disponibilità del territorio, ha progressivamente portato l'OPG di Montelupo Fiorentino a diventare una struttura sempre attenta alle necessità degli internati, offrendo ampie opportunità di partecipazione ad attività ricreative e culturali, finalizzate al compimento del progetto terapeutico individualizzato per ogni paziente. Il Dr. Scarpa, durante un'intervista che si è tenuta a maggio, mi ha spiegato che, soprattutto negli ultimi anni, sono stati compiuti passi fondamentali in tale processo di recupero degli internati, e di conseguente apertura dell'OPG alle attività risocializzanti sono stati: innanzitutto, l'iniziale finanziamento di attività di Educazione permanente; la successiva creazione di progetti specifici per la realizzazione di attività esterne; l'introduzione di corsi formativi professionali e di attività di risocializzazione che hanno favorito lo sviluppo di reali occasioni ed opportunità per la realizzazione di progetti di lavoro e di riabilitazione.
Per quanto riguarda il tempo e le modalità con cui gli internati di Montelupo possono dedicarsi alle attività ricreative, si è accennato che le celle restano aperte per un numero differente di ore giornaliere a seconda della Sezione e che i detenuti usufruiscono di 5 o 7 ore d'aria al giorno, a seconda del periodo dell'anno: in queste ore gli internati possono usufruire delle zone adibite alla ricreazione ed allo svago, come una sala-giochi in ogni piano, un campo di calcetto, un campo da tennis ed uno di pallavolo. Si è detto anche che, mentre gli internati della Seconda Sezione possono partecipare alle attività ricreative quotidianamente, gli internati della Terza Sezione vi partecipano solo a giorni alterni e per piani. All'interno dell'OPG è stato inoltre creato uno speciale reparto, adibito esclusivamente ai programmi di risocializzazione e riabilitazione interna: esso accoglie i soggetti definitivi (internati prosciolti e seminfermi con posizione giuridica definitiva, detenuti in applicazione dell'art. 148, cioè per infermità psichica intervenuta dopo la condanna); in realtà non tutti questi soggetti possono indistintamente partecipare alle attività esterne: gli internati vengono accuratamente selezionati sulla base di criteri clinici, sulla presenza, cioè, di disabilità psichiche lievi, residuali rispetto al quadro clinico iniziale, la cui evoluzione testimonia il riequilibrio psichico recuperato durante l'applicazione della misura. È sulla base di questi miglioramenti che l'equipe sanitaria incentra il suo principale sforzo nel tentativo di far recuperare quelle capacità psichiche che lunghi anni di malattia mentale possono aver affievolito. Tale recupero viene attuato, per quel che riguarda l'esperienza ormai in atto da circa dieci anni presso l'OPG di Montelupo Fiorentino, mediante l'organizzazione e lo svolgimento di peculiari attività riabilitative. Nel reparto adibito a tale finalità è prevista l'apertura continuativa per 8 ore al giorno: ciò ha reso indispensabile strutturare la vita interna alla sezione valorizzando gli spazi comuni, come la sala ritrovo e il cortile interno, attraverso l'organizzazione di attività socializzanti come: giochi da tavolo, partite a carte o a ping-pong, organizzazione di tornei, gruppi di lettura di quotidiani e di libri; consumazione in comune dei pasti tutti i giorni della settimana, cercando di creare un ambiente familiare e gradevole, con tavoli e tovaglie apparecchiati. Lo scopo principale di tali attività in comune è quello della socializzazione, della condivisione e dell'aggregazione, in modo da rendere la permanenza in OPG più simile possibile alla normalità, alla quotidianità: è proprio con questo intento che la responsabilità della pulizia, dell'ordine e della cura degli utensili è direttamente affidata agli internati, in modo che questi si sentano responsabili ed utili per la gestione della vita quotidiana. Tale recupero viene attuato, per quel che riguarda l'esperienza ormai in atto da circa dieci anni presso l'OPG di Montelupo Fiorentino, mediante l'organizzazione e lo svolgimento di tali peculiari attività riabilitative, oltre quelle già riportate per il reparto per gli internati definitivi e per i provvisori, grazie alla collaborazione degli operatori interni, in particolar modo delle educatrici e delle assistenti sociali. Come si è già detto nel precedente capitolo, al fine di realizzare queste attività è infatti necessaria la formazione di un'équipe multidisciplinare, per ciascuno dei reparti, che, generalmente è formata da un vicedirettore sanitario, da consulenti psichiatri, da una medico internista, dal personale infermieristico, da uno psicologo e da un educatore, da operatori volontari, quali ad esempio, gli obiettori di coscienza, e dal personale di custodia, per ciascun reparto, al fine di assicurare e coadiuvare lo svolgimento delle attività riabilitative proposte. Al fine, inoltre, di valutare l'andamento delle attività e dei vari programmi personalizzati si effettuano riunioni settimanali di tutti gli operatori componenti l'équipe dei rispettivi reparti.
Inoltre, ogni mese vengono organizzate assemblee di reparto, tra operatori e pazienti per discutere insieme i problemi sorti ed avanzare proposte circa la vita della sezione e per programmazione di feste ed incontri, da effettuare con la partecipazione del volontariato, la cui organizzazione viene gradualmente delegata alle capacità decisionali degli internati stessi. Vengono inoltre organizzati dei brevi corsi di recupero delle facoltà compromesse dalla malattia, come la cura dell'abbigliamento o della propria stanza e l'igiene personale: la realizzazione di tali attività è resa possibile dal lavoro di infermieri professionisti che seguono i pazienti aiutandoli a recuperare la capacità perdute, con l'obiettivo del recupero di una graduale autonomia. Vengono inoltre organizzate delle sedute per il recupero delle capacità socio-relazionali, durante le quali gli infermieri si occupano di stimolare il paziente ad alzarsi dal letto, ad uscire dalla stanza, a relazionarsi con gli altri, anche attraverso gesti banali della vita quotidiana, prima attraverso un rapporto personalizzato e poi favorendo l'interazione con gli altri compagni. Sono stati pazientemente organizzati anche gruppi di "auto-aiuto" per pazienti alcolisti.
Una delle attività maggiormente gradite agli internati è quella teatrale: nel laboratorio i ricoverati lavorano molto, si confrontano, imparano ad assumere ruoli diversi; sono state organizzate attività da svolgere in un'area verde, per recuperare gradualmente il contatto con l'ambiente esterno alla struttura.
Inoltre, oggi l'OPG di Montelupo può contare su strutture stabili che rendono possibile la realizzazione di tali attività, come la Cooperativa di lavoro "INTRECCI", il Gruppo di Riabilitazione "I RITROVATI", la Polisportiva "LUPI DI MONTE", il legame forte con associazioni come l'ARCI, che ha prodotto l'opportunità di poter contare su obiettori di coscienza e su ragazze del servizio civile volontario; fondamentali sono state inoltre le relazioni costituite con le Università di Siena e di Firenze per l'attività di studio con le facoltà di Specializzazione, e con Pisa per la Scuola per i Tecnici di Riabilitazione.
In particolare, dopo numerose attività svolte all'interno delle mura dell'Ambrogiana, come l'animazione teatrale, i laboratori di ceramica, pittura e musica, dal 1995 gli operatori dell'Arci di Empoli hanno dato vita ad un'esperienza molto particolare, utilizzando i fondi regionali assegnati al comune: un gruppo composto da 12 persone, due mattine alla settimana, insieme a due operatori, nella sede del circolo Arci "Il Progresso", svolge varie attività insieme agli internati, quali la lettura di giornali, fotografie, elaborazione di testi da recitare, ecc. Tale iniziativa ha dato vita al gruppo "I Ritrovati", nome che vuole esprimere il tentativi di ricerca individuale e collettiva dei valori e degli affetti smarriti e dimenticato: partecipando a tale iniziativa, l'internato cerca di ristabilire un contatto con la società, con la stessa comunità di Montelupo, che a sua volta ha la possibilità di recuperare la sua storia, condividendo momenti di vita con gli internati dell'Ospedale psichiatrico giudiziario, non come una punizione e una perdita, ma come un'occasione di crescita civile e sociale. Proprio l'esempio del progetto de "I Ritrovati", grazie al quale il gruppo di internati può uscire, accompagnato dagli operatori e dai volontari, per fare attività ricreative e di socializzazione, servendosi di un circolo e di altre strutture nel Comune di Montelupo, ha permesso la progressiva incentivazione di attività fondamentali per la rieducazione, ma anche per il superamento di molti ostacoli alla comunicazione tra interno dell'OPG e società esterna, abbattendo paure e diffidenze derivanti dalla non conoscenza delle problematiche dell'internamento, ed incentivando la percezione della struttura non più come parte estranea e lontana al territorio e alla cittadinanza, ma come parte integrante di esso.
Per quanto riguarda l'opinione e il rapporto che la comunità esterna all'OPG ha istaurato con l'interno, sembra doveroso riconoscere che la cittadinanza di Montelupo, ha accolto ed integrato in modo ammirevole gli internati dell'istituto, anche grazie a una sorta di continua campagna di sensibilizzazione alle problematiche inerenti l'OPG, promossa principalmente dal Direttor Scarpa e dal Sindaco di Montelupo, Marco Montagni.
Esperienza di collaborazione tra Comune e OPG, altrettanto importante, è stata caratterizzata dalla nascita della Cooperativa Sociale "Intrecci", nell'ambito del progetto, di Iniziativa Comunitaria Occupazione e Valorizzazione delle Risorse Umane- settore Horizon, denominato "La fabbrica di Bruno": la cooperativa, nella quale lavorano alcuni internati oltre a dei giovani del territorio, ha ottenuto dal Comune di Montelupo l'appalto per la manutenzione di un Parco, realizzato l'anno scorso intorno alla Villa Medicea in cui ha sede l'istituto.
Come spiega Simona Mannucci (9), Assessore ai servizi sociali nel Comune di Montelupo, la realtà dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario, presente nel Comune di Montelupo Fiorentino ormai dalla fine del 1800, quando ancora si chiamava Manicomio Criminale, ha fatto si che il paese si abituasse dall'esistenza di questo istituto e alle difficoltà che questo comporta, per le sue caratteristiche in parte di carcere e in parte di ospedale. Per la realizzazione delle attività di rieducazione, è stato fondamentale il coinvolgimento del volontariato e dei servizi territoriali nella predisposizione di progetti di socializzazione e formazione professionale. Con questo intento il Comune e l'OPG stesso hanno creato maggiori momenti di socializzazione con l'esterno, da un lato promovendo l'entrata dei volontari e degli operatori sociali nell'istituto, dall'altro facilitando la possibilità di uscita degli internati per la partecipazione alle attività culturali che si svolgono all'esterno della struttura.
Una tra le più significative attività culturali interne, nata nel febbraio del 1998, è quella relativa alla redazione del giornalino bimensile "Spiragli": il giornalino, finanziato dal Ministero di Grazia e Giustizia e redatto grazie all'assiduo lavoro dei volontari, in particolar modo del Signor Gatteschi, raccoglie poesie e racconti scritti dagli internati, relativi alle loro esperienze e alle loro sensazioni. Due giorni alla settimana, il martedì e il venerdì, il Signor Gatteschi si reca all'OPG di Montelupo e per due ore consecutive discute con gli internati del materiale da inserire nel giornalino: gli internati ammessi a partecipare sottopongono alla sua attenzione poesie, disegni e brani scritti durante l'internamento. La richiesta di ammissione alla partecipazione viene inoltrata attraverso un documento, detto comunemente "domandina"; successivamente, la direzione dell'OPG valuta l'idoneità dell'internato alla partecipazione, basandosi essenzialmente su criteri clinici, e se del caso accoglie la domanda: soltanto in pochissimi casi questa viene respinta.
In passato, si è cercato di realizzare numeri monografici o monotematici, ma sono state incontrate notevoli difficoltà di lavoro, in quanto, a detta del Signor Gatteschi, gli internati si sentivano oppressi, non liberi di esprimersi, vincolati all'argomento: la razionalizzazione del loro pensiero era compito pressoché impossibile. Oggi, il materiale viene letto e selezionato in base al contenuto e all'interesse suscitato, ma non esiste un tema al quale gli internati devono necessariamente ispirarsi: il contenuto è libero e ognuno più esprimere lo stato d'amino che ha caratterizzato la settimana o la singola esperienza, visto che spesso si descrivono le uscite, le novità, i sentimenti e soprattutto la personale visione del mondo esterno, le aspettative per il futuro, i sogni.
3.3. Il trattamento esterno
La rigidità dell'OPG, causata soprattutto dalla forte componente custudiale del sistema, può essere superata attraverso la possibilità offerta ai pazienti di sperimentare se stessi e il mondo esterno. A tale scopo, usufruendo delle licenze orarie, vengono regolarmente organizzate uscite insieme ai volontari, ai familiari o al personale sanitario, al fine di testare il progressivo riadattamento comportamentale del paziente alla vita esterna e in modo da diminuire la tensione emotiva derivante dal lungo internamento. Per gli internati definitivi in OPG è possibile usufruire di uscite programmate, per partecipare ai gruppi di riabilitazione esterni, o per l'inserimento in lavori socialmente utili od in future esperienze di cooperative lavoro: tali attività fanno parte di specifici progetti riabilitativi che possono diversificarsi a seconda dei diversi istituti psichiatrici giudiziari e del diverso contesto socio ambientale in cui i singoli istituti si trovano.
3.3.1 Le attività lavorative esterne
L'art. 21 dell'Ordinamento penitenziario (L. 354/1975), per quanto riguarda il lavoro all'esterno, prevede quanto segue:
1. I detenuti e gli internati possono essere assegnati al lavoro all'esterno...
2. I detenuti e gli internati assegnati al lavoro all'esterno sono avviati a prestare la loro opera senza scorta, salvo che essa sia ritenuta necessaria per motivi di sicurezza. Gli imputati sono ammessi al lavoro all'esterno previa autorizzazione della competente autorità giudiziaria.
3. Quando si tratta di imprese private, il lavoro deve svolgersi sotto il diretto controllo della direzione dello istituto a cui il detenuto o l'internato é assegnato, la quale può avvalersi a tal fine del personale dipendente e del servizio sociale.
4. Per ciascuno condannato o internato il provvedimento di ammissione al lavoro all'esterno diviene esecutivo dopo la approvazione del magistrato di sorveglianza.
4-bis. Le disposizioni di cui ai commi precedenti e la disposizione di cui al secondo periodo del comma sedicesimo dell'articolo 20 si applicano anche ai detenuti ed agli internati ammessi a frequentare corsi di formazione professionale all'esterno degli istituti penitenziari.
La norma, nella sua formulazione originaria, era rubricata con il titolo "modalità di lavoro" e contemplava in modo piuttosto generico la possibilità di assicurare a detenuti e internati "il lavoro meglio rispondente alle condizioni ambientali e dei soggetti, organizzandolo sia all'interno degli istituti (art. 20), sia all'esterno di essi" (10). L'assegnazione al lavoro esterno era disciplinata in modo più dettagliato dall'art. 46 del vecchio regolamento di esecuzione della legge penitenziaria, il quale configurava un'ipotesi particolare di accesso al lavoro, per cui era la stessa amministrazione penitenziaria ad assumere l'iniziativa di individuare le aziende che, sulla base di proprie valutazioni esclusive, risultavano idonee a collaborare al trattamento penitenziario e disposte ad offrire adeguati posti di lavoro. In tal modo, veniva delineato un procedimento del tutto inverso rispetto a quello ordinario, nel quale l'amministrazione penitenziaria assumeva un ruolo decisivo e influente sul rapporto tra datore di lavoro e lavoratore: ciò è confermato dal potere dell'amministrazione stessa di controllare l'andamento del rapporto di lavoro e di emettere persino provvedimenti di interruzione.
Oggi, la norma contenuta nell'art. 21 dell'Ordinamento penitenziario deve essere letta congiuntamente all'art. 48 del nuovo Regolamento penitenziario, secondo il quale alcuni internati possono essere ammessi al lavoro esterno, quando ciò sia stato esplicitamente indicato come tappa del trattamento: tale concessione diviene esecutiva solo quando il provvedimento sia stato approvato dal magistrato di sorveglianza (11)48. Il magistrato di sorveglianza, nell'approvare il provvedimento di ammissione al lavoro all'esterno dell'internato o nell'autorizzare l'ammissione al lavoro all'esterno dell'imputato, deve tenere conto del tipo di reato, della durata, effettiva o prevista, della misura privativa della libertà e della residua parte di essa, nonché dell'esigenza di prevenire il pericolo che l'ammesso al lavoro all'esterno commetta ulteriori reati. Gli internati ammessi al lavoro all'esterno indossano abiti civili e ad essi non possono essere imposte manette. Talvolta, per motivi di sicurezza, si usa la scorta per l'accompagnamento al lavoro e per il rientro in istituto: questa è effettuata dal personale del Corpo di polizia penitenziaria con le modalità stabilite dalla direzione dell'istituto. Il personale del Corpo di polizia penitenziaria specificamente comandato, nonché il personale della Polizia di Stato e dell'Arma dei carabinieri possono effettuare controlli del detenuto durante il lavoro all'esterno (12). Nel provvedimento di assegnazione al lavoro all'esterno senza scorta devono essere indicate le prescrizioni che l'internato deve impegnarsi per iscritto a rispettare durante il tempo da trascorrere fuori dall'istituto, nonché quelle relative agli orari di uscita e di rientro, tenuto anche conto della esigenza di consumazione dei pasti e del mantenimento dei rapporti con la famiglia, secondo le indicazioni del programma di trattamento. Inoltre, l'orario di rientro deve essere fissato all'interno di una fascia oraria che preveda l'ipotesi di ritardo per forza maggiore. In relazione al comportamento tenuto dall'internato, le prescrizioni e l'ammissione al lavoro all'esterno possono essere modificate e addirittura revocate dal magistrato di sorveglianza, mentre il direttore dell'istituto può disporre con provvedimento motivato soltanto la sospensione dell'efficacia dell'ammissione al lavoro all'esterno, in attesa della approvazione da parte del magistrato di sorveglianza del provvedimento di revoca. Analogamente, quando il lavoro si svolge presso imprese pubbliche, il direttore dell'istituto cura l'adozione di precisi accordi con i responsabili di dette imprese per l'immediata segnalazione alla direzione stessa di eventuali comportamenti del detenuto o internato lavoratore che richiedano interventi di controllo.
3.3.2 Le licenze orarie e giornaliere. Il ruolo del volontariato
A norma dell'art. 53 dell'Ordinamento Penitenziario, agli internati può essere concessa una licenzadi sei mesi nel periodo immediatamente precedente alla scadenza fissata per il riesame di pericolosità. Inoltre. può essere loro concessa, per gravi esigenze personali o familiari, una licenza di durata non superiore a giorni quindici e una licenza di durata non superiore a giorni trenta, una volta all'anno, al fine di favorirne il riadattamento sociale.Agli internati ammessi al regime di semilibertà possono inoltre essere concesse, a titolo di premio, le licenze di durata non superiore nel complesso a 45 giorni l'anno.
Durantela licenza l'internato è sottoposto al regime della libertà vigilata: se l'internato durante la licenza trasgredisce agli obblighi impostigli, la licenza può essere revocata indipendentemente dalla revoca della semilibertà. Tale norma prevede che l'internato che rientra in istituto dopo tre ore dallo scadere della licenza, senza giustificato motivo, viene punito in via disciplinare e, se in regime di semilibertà, può subire la revoca della concessione (13).
L'art. 53-bis prevede che il tempo trascorso dal detenuto o dall'internato in permesso o licenza debba essere computato a ogni effetto nella durata delle misure restrittive della libertà personale, salvi i casi di mancato rientro o di altri gravi comportamenti da cui risulta che il soggetto non si é dimostrato meritevole del beneficio. In questi casi sull'esclusione dal computo decide, con decreto motivato, il magistrato di sorveglianza (14).
L'art. 64del nuovo Regolamento Penitenziario, prevede la possibilità che gli internati godano di permessi, concessi su domanda, con una durata massima di cinque giorni, oltre al tempo necessario per raggiungere il luogo dove l'internato deve recarsi. Nel provvedimento di concessione sono stabilite le opportune prescrizioni ed è in ogni caso specificato se l'internato deve o meno essere scortato per tutto o per parte del tempo del permesso, avuto riguardo alla personalità del soggetto e all'indole del reato di cui è imputato o per il quale è stato condannato. Le operazioni di scorta sono effettuate dal Corpo di polizia penitenziaria e nel provvedimento di concessione del permesso possono esserne specificate le modalità.
All'art. 65, invece, sono regolati i permessi premio: il direttore dell'istituto deve corredare la domanda del condannato di concessione del permesso premio con l'estratto della cartella personale, esprimendo il proprio parere motivato al magistrato di sorveglianza, avuto riguardo alla condotta del condannato, alla sua pericolosità sociale, ai motivi addotti, ai risultati dell'osservazione scientifica della personalità espletata e del trattamento rieducativo praticato, nonché alla durata della pena detentiva inflitta ed alla durata della pena ancora da scontare. Nell'adottare il provvedimento di concessione il magistrato di sorveglianza stabilisce le opportune prescrizioni relative alla dimora e, ove occorra, al domicilio del condannato durante il permesso, sulla base delle informazioni eventualmente assunte, ad integrazione di quelle già disponibili, a mezzo degli organi di polizia. Durante il permesso premio, i controlli del condannato sono effettuati dai Carabinieri o dalla Polizia di Stato, nonché dal personale del Corpo di polizia penitenziaria.
Occorre inoltre precisare che, ai sensi del 8º comma dell'art. 20 del nuovo Regolamento, gli infermi e seminfermi in permesso, in licenza o in regime di semilibertà ricevono, ove occorra, assistenza da parte dei servizi psichiatrici pubblici degli enti locali (15).
Il trattamento risocializzante è studiato e personalizzato dagli operatori dell'OPG secondo le attitudini e le inclinazioni del soggetto, secondo quanto dispone l'art. 27 del Regolamento penitenziario: infatti, secondo tale disposizione, l'osservazione scientifica della personalità deve essere diretta anche all'accertamento dei bisogni di ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio all'instaurazione di una normale vita di relazione. Ai fini di tale osservazione si deve provvedere all'acquisizione di dati giudiziari e penitenziari, clinici, psicologici e sociali e alla loro valutazione con riferimento al modo in cui il soggetto ha vissuto le sue esperienze e alla sua attuale disponibilità ad usufruire degli interventi del trattamento. Sulla base dei dati giudiziari acquisiti, viene espletata, con il condannato o l'internato, una riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l'interessato medesimo e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa.
All'inizio dell'esecuzione l'osservazione è specificamente rivolta, con la collaborazione del condannato o dell'internato, a desumere elementi per la formulazione del programma individualizzato di trattamento. Nel corso del trattamento invece, l'osservazione è rivolta ad accertare, attraverso l'esame del comportamento del soggetto e delle modificazioni intervenute nella sua vita di relazione, le eventuali nuove esigenze che richiedono una variazione del programma di trattamento. La compilazione del programma trattamentale individualizzato viene effettuata dal gruppo di osservazione e trattamento, l'equipe multidisciplinare di cui si è spesso parlato, presieduto dal direttore dell'istituto e composto dal personale e dagli esperti che hanno svolto le attività di osservazione, in particolare le educatrici e le assistenti sociali. Il gruppo tiene riunioni periodiche, nel corso delle quali esamina gli sviluppi del trattamento praticato e i suoi risultati.
Nonostante gli sforzi, come è già stato detto più volte, gli ospedali psichiatrici giudiziari italiani, pur restando fortemente condizionati da strutture edilizie e da personale simili a quelli delle carceri, si sono molto impegnati nel realizzare aperture trattamentali, al fine di combattere la rigidità del sistema.
Per quanto riguarda le licenze fruite dai ricoverati, attraverso alcune statistiche forniteci dal Dr. Scarpa nel corso della menzionata intervista, si ha la possibilità di confrontare i dati relativi a due diversi periodi di tempo: i primi dati si riferiscono al mese di ottobre del 1994, mentre i secondi si riferiscono al mese di agosto del 2001. Nell'anno 1994, a Montelupo, si sono registrate 11 licenze ordinarie, per un totale di 71 giorni di libertà; le licenze brevi di 6/10 ore hanno permesso 18 uscite per colloqui con i familiari e 37 uscite con l'accompagnamento dei volontari o da soli; la semilibertà per attività da svolgersi all'esterno dell'istituto, per parte anche limitata della giornata, è stata concessa soltanto a 4 internati per un totale di 40 uscite. Invece, alla data del 31/8/2001, su 247 internati, 153 sono definitivi: di questi, 32 sono in licenza finale di esperimento al loro domicilio o in strutture esterne; degli altri 121, 99 fruiscono di licenze (85 di licenze orarie frazionabili e 14 di licenze per più giorni) e 4 sono in semilibertà. Qualche intervento è possibile anche per i 17 detenuti ricoverati stabilmente per le loro condizioni psichiche (di questi 5 usufruiscono di permessi premio).
Per usufruire delle licenze giornaliere, occorre che l'internato abbia la possibilità di tornare presso la propria abitazione, facendosi i familiari carico della cura e della sistemazione del malato, oppure di essere accompagnato e controllato dai volontari che si occupano della sistemazione per la notte e che nel giorno lo seguono nelle attività svolte all'esterno della struttura. L'alternativa alla famiglia, impossibilitata a prendersi cura del malato o totalmente disinteressata, sono delle residenze appositamente pensate per l'accoglienza dei malati in via di recupero. Nel corso del capitolo verrà affrontato in modo più dettagliato il problema della sede più idonea al reinserimento dell'internato.
Decisiva tappa di tale reinserimento è la licenza finale d'esperimento: la ratio di tale licenza, della quale si tornerà a parlare nel corso del capitolo, deve essere ricercata nella revocabilità in ogni tempo della misura di sicurezza: la misura può sempre essere revocata ove venga meno il presupposto della pericolosità, oppure può essere sostituita con una soluzione esterna, in comunità o anche domiciliare, comunque sotto la responsabilità dei servizi psichiatrici territoriali.
Come più volte è stato detto, essendo l'internamento in OPG una misura di sicurezza, la sua applicazione è fondata sul giudizio di pericolosità. Durante un colloquio avuto l'11 giugno con il Dr. Casciano, Magistrato di Sorveglianza attualmente competente per l'OPG di Montelupo, è stato trattato il problema della valutazione e dei criteri secondo i quali si stabilisce che un soggetto sia socialmente pericoloso, in modo da capire se possa usufruire delle uscite e dei permessi durante l'esecuzione della misura.
Innanzitutto, il personale sanitario e di custodia tiene continuamente aggiornato il magistrato sulle condizioni di salute degli internati e della loro condotta all'interno dell'istituto; periodicamente, infatti, si tengono riunioni, che di solito coincidono con il giorno dell'udienza, nelle quali gli operatori, il Direttore e il Magistrato discutono delle condizioni di salute di ogni internato e della possibilità di mettere in atto per ognuno un programma trattamentale riabilitativo consistente in permessi, uscite e licenze. Gli operatori dell'OPG, in particolar modo le educatrici, sono tenuti a presentare al Magistrato una relazione dettagliata, esposta in forma orale durante le riunioni, nella quale si dà notizia del comportamento di ogni internato, delle condizioni di salute, degli eventuali progressi, delle prospettive di partecipazione ad attività all'esterno della struttura.
Attraverso questa conoscenza del quadro clinico complessivo e anche attraverso colloqui che il Magistrato tiene personalmente con ogni paziente, egli ha il difficile compito di stabilire se sussista ancora la pericolosità sociale presupposto per l'applicazione della misura di sicurezza: tale decisione, in un contesto come quello dell'OPG, spiega il Giudice Casciano, è doppiamente complessa, in quanto basata su un doppio criterio di valutazione, quello derivante dalla malattia psichica del soggetto e quello derivante dal compimento del reato.
La decisione del giudice di concedere licenze, permessi, uscite dall'istituto deve essere comunque fondata sulla progressiva diminuzione di tale pericolosità, che in concreto coincide con la diminuzione della possibilità di recidiva dell'internato. In realtà, essendo oggi lo scopo primario di un OPG non più quello di mera custodia, ma soprattutto quello trattamentale, spiega il Giudice Casciano, il Magistrato di Sorveglianza è vincolato alla concessione di tali privilegi: la loro applicazione è funzionale alla continuità del trattamento, è metodo di sperimentazione, è tappa obbligatoria del piano trattamentale rieducativo che mira a restituire una dignità e una capacità di risocializzazione al soggetto alienato. Con queste parole Casciano ha voluto sottolineare che la mancata concessione di tali facoltà di sperimentazione della vita esterna costituirebbe, nell'ambito del programma complessivo di trattamento, un'interruzione della terapia, con conseguenze paragonabili a quelle derivanti la mancata somministrazione di un farmaco necessario per l'equilibrio psichico del malato.
3.3.3. Un pomeriggio con gli internati
Ogni venerdì, un piccolo gruppo di internati di Montelupo ha la possibilità di usufruire di una licenza oraria insieme ad alcuni volontari, come la Signora Carla Cappelli e il Signor Riccardo Gatteschi. Una volta ho avuto l'opportunità di uscire insieme a loro ed è stata un'esperienza unica, nella sua normalità: prima siamo stati ad accompagnare uno dei "ragazzi" (così li chiamano affettuosamente i volontari) dal dentista, poi ci siamo seduti al tavolino di un bar a bere e a chiacchierare, abbiamo comprato la pizza e il gelato e abbiamo fatto una passeggiata per il centro storico di Montelupo. I "ragazzi" hanno telefonato, hanno comprato giornali e riviste, oppure dei set da collezionisti. Alla fine del pomeriggio siamo stati a fare la spesa al supermercato perché, mi hanno spiegato, i prezzi dei prodotti allo spaccio interno all'OPG sono molto più cari rispetto a fuori.
La normalità con cui si è svolto il pomeriggio, in realtà, per loro è una vera e propria "evasione" dalla routine dell'internamento e ogni piccolo gesto di autonomia deve essere letto come un importante traguardo nel percorso di recupero delle relazioni sociali. Per me, estranea al loro mondo, non è sembrato sempre facile parlare con loro: alcuni sono estremamente socievoli e sorridenti, altri sono schivi e diffidenti. La reazione dell'internato all'esterno è molto soggettiva: dipende molto dal carattere della persona, ma anche dalle condizioni mentali di ciascuno. Hoconosciuto "ragazzi"molto estroversi, brillanti nelle conversazioni: a prima vista, niente nel loro comportamento avrebbe fatto presumere il loro internamento in OPG. Altri hanno difficoltà nell'esprimersi, sia attraverso la gestualità e l'attività motoria, che nel linguaggio, soprattutto perché il personale medico dell'OPG somministra loro pesanti cure tranquillanti e di farmaci che inibiscono il comportamento e le reazioni.
Ti trovi spesso di fronte al limite personale di non saper in che modo comunicare con loro: all'inizio sei imbarazzato, non sai che atteggiamento usare per metterli a proprio agio; adotti spesso il linguaggio e i termini che si usano con i bambini, perché non ti rendi conto fino a che punto siano in grado di capirti o di seguirti nella conversazione; ti trovi di fronte alle tue difficoltà di comunicazione, ai tuoi pregiudizi, alla difficoltà di accettare il fatto di istaurare un normale rapporto con persone pericolose, che hanno compiuto reati talvolta molto gravi, specialmente quando, nel corso della conversazione, scopri che hanno ucciso la moglie o i genitori.
Aspetto comune a molti di loro è il gran bisogno di comunicazione: ti raccontano le loro storie, le vicende della vita che li hanno condotti a Montelupo; ti parlano dei loro affetti e dei loro interessi; ti descrivono minuziosamente la vita che conducono all'interno dell'istituto: da quando si aprono le celle, alle attività che svolgono per passare il tempo, dalla lettura al giardinaggio, alla preparazione delle tavole e del cibo che spesso si cucinano da soli, visto che all'interno dell'OPG di Montelupo non c'è una vera e propria mensa, ma semplicemente un servizio comunale di fornitura di cibo, simile a quello delle scuole. Ti raccontano dei loro compagni, dei dolori e dei problemi di ciascuno, delle prospettive per il futuro, delle difficoltà dell'internamento e della sensazione di alienazione dal resto del mondo; ma l'aspetto più sorprendente, comune a molti ragazzi, è la sensazione di non accettazione della vita sostanzialmente carceraria condotta in istituto, perché molti non si considerano delinquenti, non riconoscono spesso la gravità delle loro precedenti azioni e, soprattutto, attribuendo alla malattia la colpa dei reati commessi, si sentono ingiustamente puniti e segregati in una struttura carceraria che, a detta loro, non meritano.
I volontari sono pazienti e molto comprensivi: con i "ragazzi" hanno un bel rapporto di fiducia e di reciproco rispetto; spesso li mettono alla prova nelle conversazioni e nei piccoli spostamenti, concedendo loro maggiore autonomia e responsabilizzazione. Il compito dei volontari è principalmente quello di accompagnamento e di controllo sulla condotta degli internati fuori dalla struttura, ma nel tempo si istaurano rapporti di amicizia e confidenza, soprattutto perché i volontari rappresentano spesso una della poche conoscenze degli internati al di fuori dell'OPG, visto che nella maggior parte dei casi le famiglie sono assenti e disinteressate.
A questo punto, occorre chiarire il ruolo del volontariato nel percorso di risocializzazione: per rendere possibile la realizzazione di tali uscite e attività all'esterno dell'OPG, la direzione dell'istituto promuove la partecipazione della comunità esterna all'azione rieducativa, avvalendosi dei contributi di privati cittadini e delle istituzioni o associazioni pubbliche o private. Innanzitutto, secondo la disposizione dell'art. 120 del nuovo Regolamento Penitenziario, occorre un'autorizzazione, la quale viene concessa a coloro che dimostrano interesse e sensibilità per la condizione umana dei sottoposti a misure privative e limitative della libertà e che hanno dato prova di concrete capacità nell'assistenza a persone in stato di bisogno. L'autorizzazione può riguardare anche più persone appartenenti ad organizzazioni di volontariato, le quali assicurano, con apposite convenzioni con le direzioni degli istituti e dei centri di servizio sociale, continuità di presenza in determinati settori di attività. La revoca della convenzione comporta la decadenza delle singole autorizzazioni. Nel provvedimento di autorizzazione è specificato il tipo di attività che l'assistente volontario può svolgere e, in particolare, se egli è ammesso a frequentare uno o più istituti penitenziari o a collaborare con i centri di servizio sociale. L'autorizzazione ha durata annuale, ma, alla scadenza, se la valutazione della direzione dell'istituto o del centro di servizio sociale è positiva, si considera rinnovata. La direzione dell'istituto o del centro di servizio sociale cura che le attività del volontariato siano svolte in piena integrazione con quelle degli operatori istituzionali. Le persone autorizzate hanno accesso agli istituti e ai centri di servizio sociale secondo le modalità e i tempi previsti per le attività trattamentali e per l'esecuzione delle misure alternative.
Se l'assistente volontario si rivela inidoneo al corretto svolgimento dei suoi compiti, il direttore dell'istituto o del centro di servizio sociale sospende l'autorizzazione e ne chiede la revoca al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, dandone comunicazione al magistrato di sorveglianza.
Inoltre, a norma dell'art. 68 del suddetto Regolamento:
La direzione dell'istituto esamina con i privati e con gli appartenenti alle istituzioni o associazioni le iniziative da realizzare all'interno dell'istituto e trasmette proposte al magistrato di sorveglianza, con il suo parere, anche in ordine ai compiti da svolgere e alle modalità della loro esecuzione.
Il magistrato di sorveglianza, nell'autorizzare gli ingressi in istituto, stabilisce le condizioni che devono essere rispettate nello svolgimento dei compiti.
La direzione dell'istituto cura che le iniziative indicate ai commi precedenti siano svolte in piena integrazione con gli operatori penitenziari. A tal fine, le persone autorizzate hanno accesso agli istituti secondo le modalità e i tempi previsti per le attività alle quali collaborano.
In caso di inosservanza delle condizioni o di comportamento pregiudizievole all'ordine e alla sicurezza dell'istituto, il direttore comunica al magistrato di sorveglianza il venir meno del proprio parere favorevole, per i provvedimenti conseguenti, disponendo eventualmente, con provvedimento motivato, la sospensione dell'efficacia del provvedimento autorizzativo.
Al fine di sollecitare la disponibilità di persone ed enti idonei e per programmarne periodicamente la collaborazione, la direzione dell'istituto e quella del centro servizio sociale, di concerto fra loro, curano la partecipazione della comunità al reinserimento sociale dei condannati e degli internati e le possibili forme di essa (16).
L'importanza del volontariato sta nella vivacità della sua partecipazione alle attività organizzate per gli internati, riuscendo a rappresentare un elemento dialettico tra interno dell'OPG e fuori. La scuola, ad esempio, l'attività trattamentale più cresciuta negli ultimi anni, è nata in molti casi sullo sforzo del volontariato e procede ora, per i progetti più rilevanti, come i cosiddetti poli universitari. Come ha spiegato Alessandro Margara, in veste di presidente della Fondazione Michelucci di Firenze, "è certo importante camminare insieme alla persona limitata nelle sue possibilità e nei suoi diritti in carcere, ma è altrettanto importante e forse decisivo, affiancarla quando il percorso si sviluppa nella libertà, che è lo spazio delle difficoltà e degli ostacoli quotidiani, diffusi per tutti, ma in particolare per quelli che vogliamo chiamare la nostra gente": in questo consiste il ruolo del volontariato.
3.3.4. La licenza finale d'esperimento e il ruolo dei servizi psichiatrici territoriali
Il sistema di organizzazione e di gestione di un OPG è caratterizzato dalla stessa rigidità delle strutture carcerarie, avendo come scopo primario la necessità di difesa sociale e di custodia. Si è già più volte sottolineato come in istituti come gli OPG sia necessario valorizzare maggiormente l'aspetto curativo-trattamentale, favorendo l'organizzazione e la partecipazione alle attività risocializzanti. Il sistema è reso più flessibile, non solo grazie ai permessi, alle licenze orarie o giornaliere, ma soprattutto grazie alla possibilità di concedere all'internato la licenza finale d'esperimento: questa consiste nella facoltà di sperimentare, durante gli ultimi sei mesi di applicazione della misura di sicurezza, uno stile di vita autonomo, all'esterno della struttura, al fine di testare il grado di risocializzazione del soggetto.
La legge sulla riforma penitenziaria del 26 luglio del 1975, n. 354, infatti, pur riguardando le istituzioni penitenziarie in generale, ha introdotto precise prescrizioni nell'applicazione delle attività trattamentali e disciplinari, determinando una riforma dell'intero sistema penitenziario che si sono riflesse positivamente, benché indirettamente, anche sugli istituti psichiatrici giudiziari, in particolar modo in riferimento alle misure alternative e al ruolo del magistrato di sorveglianza. Infatti, come abbiamo visto, la legge del 1975, oltre a modificare la dicitura "manicomio giudiziario" in "ospedale psichiatrico giudiziario" (art.62), ha modificato profondamente, almeno da un punto di vista formale, la vecchia prospettiva meramente custodiale del sistema penitenziario italiano: in base ad essa, il carcere deve essere anche luogo di trattamento, essendo affermato il diritto del condannato ad usufruire di opportunità trattamentali finalizzate al reinserimento sociale.
Tali opportunità trattamentali si realizzano, tra l'altro, attraverso l'istituzione delle misure alternative disciplinate dagli artt. 47 e seguenti (17), anche se occorre precisare che agli internati in OPG è applicabile solo l'art. 48, relativo al cosiddetto "Regime di Semilibertà", che, pur non essendo formalmente compreso tra le misura alternative, riveste un ruolo significativo nel processo di reinserimento:
1. Il regime di semilibertà consiste nella concessione al condannato e all'internato di trascorrere parte del giorno fuori dell'istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale.
2. I condannati e gli internati ammessi al regime di semilibertà sono assegnati in appositi istituti o apposite sezioni autonome di istituti ordinari e indossano abiti civili.
Il regime di semilibertà consiste nella concessione al condannato o all'internato la possibilità di trascorrere parte del giorno fuori dall'istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale. La misura si caratterizza per l'accostamento, nell'arco della giornata, di un periodo all'interno dell'istituto penitenziario e uno di attività libera finalizzata all'evoluzione positiva della personalità del soggetto. La collocazione della norma nel capo VI del titolo I dell'Ordinamento penitenziario dimostra che l'istituto è concepito come modalità particolare di esecuzione della pena, mentre solo in senso lato può parlarsi di misura alternativa, visto che il soggetto mantiene la veste di persona privata della libertà e inserita in istituto penitenziario (18).
Per quanto riguarda la modalità di esplicazione della semilibertà, questa è desumibile dal 2º comma della norma in esame, secondo il quale i condannati o gli internati ammessi a godere del beneficio vengono assegnati ad appositi istituti o ad apposite sezioni autonome degli istituti ordinari; devono indossare abiti civili a dimostrazione della diversità di regime penitenziario rispetto agli altri (19).
Per quel che concerne, invece, i destinatari della misura occorre precisare che ne sono esclusi gli imputati, anche se detenuti, a causa dell'impossibilità di ipotizzare per questi un qualsiasi trattamento rieducativi (20).
È proprio in considerazione della finalità rieducativi dell'istituto che l'art. 48 deve essere letto come strumento di attuazione dell'art. 17 della stessa legge, riguardante la "Partecipazione della comunità esterna all'azione rieducativa", secondo il quale:
1. La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all'azione rieducativa.
2. Sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari con l'autorizzazione e secondo le direttive del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, tutti coloro che avendo concreto interesse per l'opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera (21).
Attraverso la concessione della semilibertà si permette al condannato oppure di trascorrere fuori dell'istituto parte della giornata per svolgere attività di carattere lavorativo, di studio, utili al reinserimento. I reati ostativi per la concessione della misura in esame erano gli stessi previsti per l'affidamento.
Accanto all'affidamento al servizio sociale e alla semilibertà è stata inclusa la disciplina delle licenze, della liberazione anticipata e delle modalità di esecuzione della libertà vigilata, evidentemente assimilate alle altre misure per il fatto che anch'esse comportano la permanenza del soggetto fuori dall'istituto. In questo modo, la grande innovazione dell'istituzione delle misure alternative alla detenzione, coerentemente con il principio cardine dei sistemi penitenziari moderni secondo il quale la reclusione deve essere usata come estrema ratio, pur lasciando immutata la struttura del doppio binario e della doppia istituzione (carcere-istituto per l'esecuzione di misure di sicurezza), fa sì che la pena detentiva acquisti il carattere di trattamento-riabilitazione.
A tale scopo è prevista la licenza finale d'esperimento, la cui ratio deve essere ricercata nella revocabilità in ogni tempo della misura di sicurezza: la misura può sempre essere revocata ove venga meno il presupposto della pericolosità, oppure può essere sostituita con una soluzione esterna, in comunità o anche domiciliare, comunque sotto la responsabilità dei servizi psichiatrici territoriali.
Per quel che riguarda programmi di trattamento e reinserimento all'esterno in accordo con i servizi territoriali, si assiste ad un intensificarsi dei rapporti tra gli operatori dell'OPG e quelli delle strutture psichiatriche territoriali proporzionalmente crescente man mano che si avvicina il momento della dimissione del soggetto, durante tutte le fasi dell'internamento e, a maggior ragione, nel momento della concessione della licenza finale d'esperimento.
Occorre precisare che, da sempre, il rapporto degli OPG con il territorio e con gli Enti Locali è stato caratterizzato dalla piena disponibilità reciproca: una delle fasi più significative di tale rapporto è quella caratterizzata dal Protocollo di Intesa, sottoscritto tra Amministrazione Penitenziaria e Regione Toscana nel 1986; a partire da tale esperienza, si è susseguita una serie di attività volta alla creazione di un OPG "aperto", disponibile alla relazione con il territorio, sia con quello locale, che con quello di provenienza degli internati. Fondamentali sono stati l'iniziale finanziamento di attività di Educazione permanente, la successiva creazione di progetti specifici per la realizzazione di attività esterne, per l'introduzione di corsi formativi professionali e di attività di risocializzazione.
È proprio per garantire ed accelerare l'effettiva risocializzazione dell'internato al momento della sua dimissione che si è creata una costante collaborazione tra gli operatori dell'OPG e quelli dei servizi psichiatrici territoriali, visto che la transizione dell'internato dal vivere all'interno dell'OPG, in una struttura comunque chiusa, al vivere di nuovo all'esterno, in contatto con la società, è un'operazione molto delicata: l'ex internato deve essere seguito anche dopo la sua dimissione, per evitare che l'impatto con il mondo esterno si trasformi in un ulteriore fonte di scompenso e cronicizzazione della malattia psichiatrica e, di conseguenza, del rischio di commettere un altro reato.
Il ricoverato, dopo le dimissioni, può contare su un servizio di assistenza sul territorio, può contare sulla collaborazione di una cooperativa che fa capo al cappellano della parrocchia dell'Ambrogiana, che mette a disposizione degli appartamenti dove alcuni volontari, che operano anche all'interno dell'istituto, si occupano di seguire i primi passi del programma riabilitativo all'esterno.
È proprio in questa fase di transizione che i servizi psichiatrici devono essere costantemente presenti, non solo fisicamente mediante continue visite agli OPG da parte dei referenti psichiatri, ma anche offrendo tutte le possibili risorse assistenziali nel campo della salute mentale, mediante la costituzione di proprie strutture atte all'accoglienza dei pazienti psichiatrici oppure utilizzando di analoghe strutture private convenzionate con il servizio stesso.
Il punto chiave della dimensione dell'intervento psichiatrico attuato in OPG, un intervento che possa realmente modificare le possibilità di agire del paziente, passa attraverso al recupero del valore della persona, al recupero del legame tra soggetto e territorio, per favorire la piena integrazione e la presa in carico, dal punto di vista terapeutico, del malato.
Il rapporto con il territorio e con gli Enti Locali è stato caratterizzato, si ribadisce, da una piena disponibilità reciproca ad affrontare le problematiche dell'OPG, in modo da determinare le condizioni di un effettivo cambiamento nelle opportunità offerte agli internati, soprattutto al momento della loro dimissione; ma purtroppo, non sempre, l'auspicata costante presenza di tali servizi si realizza effettivamente: è più frequente che i contatti avvengano in maniera sporadica oppure che non vi siano affatto, se non costantemente stimolati dagli operatori stessi dell'OPG. Una delle cause di tale discontinuità è da ricercarsi nei timori degli stessi referenti psichiatri territoriali, soprattutto derivanti dalle gravose responsabilità di gestione sul territorio del malato, aggravati dalla diffidenza e dai pregiudizi del contesto socio-ambientale, che spesso ostacola fortemente il reinserimento del malato di mente. Spesso sono proprio i referenti psichiatri del territorio a richiedere, talvolta anche esplicitamante, agli operatori dell'OPG la proroga del periodo di applicazione della misura di sicurezza, a causa delle difficoltà incontrate nella collocazione dell'internato sul territorio. Talvolta, nonostante gli sforzi e la buona volontà, con tale atteggiamento si rischia una sorta di "rimozione" del problema del reinserimento del folle-reo, ritardando paradossalmente il riaccoglimento del soggetto da parte della società.
Ma la ragione principale a cui deve essere attribuita la difficoltà di reinserimento è da ricercarsi nella cronica carenza di quelle strutture "intermedie", previste dalla legge n. 180 del 1978 in sostituzione dei vecchi manicomi civili. Con la loro definitiva chiusura che risale al 31 dicembre 1996, sancita dalla legge finanziaria del 1994, la situazione si è ulteriormente aggravata, a causa della riconversione dei vecchi ospedali psichiatrici nelle varie forme di strutture intermedie, quali le "case famiglia", o le "comunità ad alta intensità". Le difficoltà di organizzazione di tali strutture e la mancanza di finanziamenti sufficienti ha causato gravi ritardi nell'inserimento all'esterno dei malati di mente ricoverati in OPG: si è assistito ad un protrarsi, spesso per svariati anni, dell'internamento nell'ambito psichiatrico-carcerario, prolungando la carcerazione così tanto da esser chiamata, come già accennato,"ergastolo bianco". È facilmente comprensibile come il trattenere in un ambito carcerario, anche se, al tempo stesso, ospedaliero-riabilitativo, il malato di mente che ha ormai raggiunto una fase di sufficiente guarigione, e comunque di riacquisita capacità psichico-comportamentale, tale da far venire meno la pericolosità sociale, sia estremamente antiterapeutico e contrario ai comuni principi etici. La situazione diventa insostenibile fino a quando il magistrato di sorveglianza dispone l'immediata dimissione dell'internato ed il suo invio in un servizio psichiatrico di diagnosi e cura, per il periodo minimo di sette giorni previsto dalla legge: da questo momento i servizi psichiatrici territoriali vengono
"costretti" finalmente ad attivarsi nel cercare una soluzione idonea all'inserimento del soggetto.
Un'efficace collaborazione tra gli operatori dell'OPG e degli Servizi psichiatrici territoriali, in questa delicata fase di trattamento, deve basarsi, essenzialmente, sulla condivisione del principale obiettivo comune, cioè quello del futuro reinserimento del paziente: è necessario quindi un completo accordo sulle modalità di trattamento del soggetto, sia per quel che riguarda l'aspetto farmacologico che per quello socio-riabilitativo.
Innanzi tutto deve essere individuata la sede esterna più idonea al reinserimento del paziente; dovrà successivamente essere concordato il trattamento che in tale sede dovrà essere applicato al soggetto e le possibilità dei servizi di continuare a seguire il paziente sia per il trattamento farmacologico che per quello riabilitativo-risocializzante.
3.4. La sede più idonea al reinserimento
3.4.1. La famiglia e gli affetti
Come si già più volte sottolineato, talvolta, il rientro nell'ambiente sociale risulta molto difficoltoso a causa del naturale, ed ormai storicamente radicato, processo di rifiuto che la società ha verso la follia in associazione con il fatto-reato.
La famiglia resta un punto d'appoggio di fondamentale importanza anche durante il corso dell'applicazione della misura di sicurezza: per rendere possibile che le famiglie possano seguire il percorso trattamentale effettuato in OPG, l'art. 61 del Regolamento penitenziario prevede che la predisposizione dei programmi di intervento per la cura dei rapporti degli internati con le loro famiglie sia favorita dagli stessi rappresentanti delle direzioni degli istituti e dei centri di servizio sociale e che particolare attenzione venga dedicata ad affrontare la crisi conseguente all'allontanamento del soggetto dal nucleo familiare, in modo da rendere possibile il mantenimento di un valido rapporto con i figli, specie in età minore, e a preparare la famiglia, gli ambienti prossimi di vita e il soggetto stesso al rientro nel contesto sociale. A tal fine, il direttore dell'istituto può concedere colloqui e autorizzare la visita da parte delle persone ammesse ai colloqui, con il permesso di trascorrere parte della giornata insieme a loro in appositi locali o all'aperto e di consumare un pasto in compagnia (22).
Se il sistema di mantenimento dei rapporti familiari funzionasse, la sede più idonea per il reinserimento potrebbe essere individuata a prima vista nel nucleo familiare di provenienza del malato. Invece, nella maggioranza dei casi, la rottura dei legami derivante dall'internamento di uno dei suoi membri della famiglia crea spesso difficoltà e momenti di crisi per l'intero nucleo familiare, che spesso reagisce con un vero e proprio allontanamento del soggetto che li ha causati.
In aiuto alle famiglie degli internati, l'art. 94 del suddetto Regolamento prevede che nell'azione di assistenza offerta a tali famiglie, particolare cura sia rivolta alla situazione di crisi che si verifica nel periodo che segue immediatamente la separazione dal congiunto. In tale situazione, infatti, deve essere fornito ai familiari, sostegno morale e consiglio per aiutarli a far fronte al trauma affettivo, senza trascurare i problemi pratici e materiali eventualmente causati dall'allontanamento del congiunto (23).
La situazione concreta in cui si sono visti precipitare i familiari dei malati di mente ha spinto questi ultimi ad organizzarsi in associazioni volontarie con scopi parzialmente diversi.
Si possono enucleare tre principali poli di associazioni di familiari (tutte con sede a Roma): la
DIAPSIGRA (Difesa ammalati psichici gravi), il Coordinamento salute mentale (Associazione di familiari, utenti e cittadini) e l'ARAP (Associazione per la riforma dell'assistenza psichiatrica). La DIAPSIGRA e l'ARAP sono nate da due gruppi romani che spingevano l'aggregazione di familiari di altre città con lo scopo di una revisione della legge che portasse al ripristino dell'internamento, ma mentre l'ARAP ha continuato su questa strada, alcune sezioni distaccate della DIAPSIGRA hanno cercato di svolgere una attività di intervento sulle realtà locali e regionali, e questo ha comportato un certo mutamento negli obiettivi di tutta l'associazione oggi molto più attenta a denunciare le situazioni inaccettabili e a promuovere la conoscenza del problema, piuttosto che chiedere con insistenza un mutamento di legislazione (24).
Il Coordinamento di Salute Mentale si è invece mosso in tale direzione fin dalla sua costituzione, denunciando in più occasioni la mancata applicazione della normativa, appoggiato anche da altre associazioni, come, ad esempio, il SARP (Servizio per l'attuazione della riforma psichiatrica), promotore di una cooperativa che ha creato a Roma una casa alloggio e che sta creando una casa semiresidenziale, oppure anche l'associazione "Al Margine" di Forlì che ha ottenuto la convenzione per un centro diurno (25).
Il lavoro e la competenza di due di queste associazioni, e cioè il Coordinamento e la DIAPSIGRA, viene riconosciuto dal fatto che sono stati nominati membri della commissione per il superamento degli ospedali psichiatrici istituita dal Ministero della sanità.
Dall'analisi dei materiali su queste associazioni sono stati rinvenuti quattro principali problemi fondamentali:
innanzitutto, il problema del "carico assistenziale" del malato e dell'insufficiente servizio di salute mentale concepito come ambulatorio territoriale che offre solo supporti psicoterapeutici e/o farmacologici;
il problema delle situazioni di crisi che spesso vedono la famiglia lasciata a se stessa vista la ridotta attività domiciliare dei servizi. La richiesta più importante, e sulla quale le due principali associazioni concordano, è quella della disponibilità del servizio durante tutte le 24 ore;
la necessità di decolpevolizzare le famiglie, troppo spesso ritenute dalla società e dagli stessi operatori responsabili dello stato del malato, il che porta quindi a ritenere che il problema sia a carico esclusivamente della "famiglia malata", che si ritrova così non solo oberata di lavoro, ma anche avvilita dalla sensazione di "disprezzo della società";
la richiesta di una maggior responsabilità dei servizi nei confronti dei malati ma, al tempo stesso, una partecipazione attiva delle famiglie nella gestione concreta del servizio, tramite il controllo sull'operato dei servizi o la collaborazione con le associazioni stesse;
il problema dei diritti e delle libertà del malato, insieme alla "deresponsabilizzazione" dei servizi e l'abbandono dei malati, che ha in sostanza fatto nascere le associazioni e resta ancora un punto di forte unione (26).
Le differenze maggiori tra le associazioni si riscontrano sulla concezione del malato:
"irresponsabile ed incapace", che necessita della tutela di qualcuno che decida per lui e per il suo bene, e di un maggior automatismo nei trattamenti involontari per l'ARAP e nell'allungamento dei tempi di ricovero per la DIAPSIGRA;
persona malata che deve avere diritto ad una crescita personale e ad una certa autonomia, con l'accettazione di "rischi calcolati", a condizione di una maggior disponibilità del servizio nel farsi carico o condividere le situazioni di crisi, per evitare i trattamenti involontari o comunque ridurne la drammaticità per il Coordinamento (27).
Ma il problema senza dubbio più grave consiste nel conflitto tra la necessità di un aiuto sostanziale che i servizi debbono dare alle famiglie, e il timore che tale aiuto si riduca ad un mero internamento dei malati. Significativo al riguardo è lo slogan "vogliamo una normalità per noi che non costi il loro internamento" proveniente da un documento del Coordinamento. In sostanza, mentre sul piano dei principi si diffonde sempre più il diritto generalizzato alla salute, nella realtà dei fatti la quantità minima e la qualità scadente dei servizi scaricano sulla famiglia tutto il peso della gestione delle persone incapaci di badare a se stesse.
Di altrettanta assistenza e sostegno le famiglie hanno bisogno nel periodo che precede il ritorno dell'ex internato in famiglia. In realtà, come dimostrato dalle statistiche, solo in un'esigua percentuale di casi è possibile il rientro in ambito familiare, dati i vari gradi di disgregazione che si riscontrano nei nuclei familiari dei pazienti psichiatrici, da un lato perché la maggioranza dei reati sono avvenuti in famiglia o a causa delle disagiate condizioni familiari, e dall'altro perché spesso le famiglie non sono più in grado di gestire psicologicamente e materialmente il proprio congiunto.
Nel febbraio 2003, all'OPG di Montelupo è iniziata un'ulteriore fase di ristrutturazione dell'edificio: per motivi di spazio, quindi, molti degli internati sono stati trasferiti in strutture simili, mentre circa 100 sono rimasti a Montelupo: secondo recenti statistiche, delle quali mi ha parlato personalmente il Dr. Scarpa, su questi 100 individui, solo 28 hanno rapporti stabili con le famiglie, mentre per gli altri i rapporti sono solo saltuari o addirittura inesistenti. Una delle maggiori difficoltà, per il reinserimento delle persone internate, è infatti, costituito dal rifiuto dei famigliari a riaccoglierle, in caso di dimissione dall'istituto e, a dire il vero, nonostante il tentativo degli ultimi anni di dare avvio ad alcune iniziative che coinvolgessero le famiglie in un percorso di "nuova conoscenza", di riavvicinamento al loro congiunto internato, non sono stati raggiunti sufficienti risultati. Le relazioni affettive degli internati in OPG, proprio a causa della loro malattia che nuoce principalmente alla sfera affettiva, vanno stimolate: la cura e la guarigione devono, in un'ottica che non può non essere sistemica, passare attraverso le relazioni affettive, soprattutto primarie quali quelle della famiglia. Sarebbe davvero auspicabile poter operare in una direzione terapeutico-trattamentale che coinvolgesse in primo piano le famiglie, il paese di appartenenza e, in senso allargato la società tutta, ma l'attuale regolamento penitenziario non permette una interazione familiare che vada oltre i classici colloqui, da attuare secondo le classiche modalità dettate, soprattutto, dal bisogno della sicurezza. Sono permesse, rispetto alle normali case di reclusione, solamente alcune telefonate in più, ma riguardo a progetti terapeutici di risocializzazione e di reinserimento in famiglia, non si sono purtroppo realizzati soddisfacenti progressi. In questo senso, sarebbe auspicabile una trasformazione del regolamento penitenziario applicato agli OPG, in cui una vera e propria sanitarizzazione dovrebbe necessariamente passare attraverso lo slogan "più cura e meno custodia". Attualmente le relazioni familiari di alcuni sono limitate a semplici colloqui, spesso deludenti a causa delle condizioni psichiche dell'internato; per altri sono totalmente inesistenti, essendo stati abbandonati, o a causa della lontananza dal luogo di provenienza, soprattutto perché gli OPG in Italia sono solo 6 e mal distribuiti. Anche per questo bisognerebbe pensare ad una regionalizzazione di questo tipo di istituti, così da permettere una migliore distribuzione sul territorio.
Ancora più grave è il caso di quelle famiglie che non vogliono più accettare il proprio congiunto ricoverato, una volta dimesso dall'istituto. A volte proprio perché, come accennato, il reato è stato commesso in famiglia, altre volte perché per la famiglia, il congiunto recluso, è fonte di guadagno e sostentamento, nei casi in cui la sua infermità mentale totale produce una pensione di invalidità al 100% con accompagnamento, percepita dai familiari.
Strettamente collegato al problema familiare, è quello della sessualità e degli affetti in genere. Diversi internati hanno commesso dei reati a sfondo sessuale e tutto ciò che riguarda la sessualità ritorna in maniera un po' ossessiva nei racconti degli internati.
Per loro non esistono dei trattamenti terapeutici specifici: i soggetti che commettono reati a sfondo sessuale (pedofilia, stupro, atti osceni il luogo pubblico ecc), vengono internati in OPG solo se riconosciuti incapaci di intendere e di volere al momento della commissione del reato stesso, quindi, evidentemente affetti da disturbi mentali più o meno gravi. I trattamenti, soprattutto di tipo psico-farmacologico, vengono quindi realizzati, come per gli altri internati, in funzione della cura della patologia sottostante e non del reato commesso, mentre, per quanto riguarda trattamenti di tipo psico-terapeutico, riabilitativi e risocializzanti, sicuramente di tipo più strettamente specialistico, sussiste un'impossibilità, allo stato attuale, della loro programmazione e realizzazione.
A testimonianza della mancanza delle relazioni affettive, come succede nella maggior parte delle carceri, anche in OPG si sono verificati casi di pratiche omosessuali tra gli internati. Nelle carceri c'è molto più imbarazzo ad ammettere che esistano: tuttavia il fenomeno esiste e su di esso sarebbe necessario soffermarsi, quando trattiamo temi come la tutela della salute o la negazione degli affetti. Gli operatori dell'OPG si trovano spesso a confrontarsi con situazioni di disagio estreme sul piano della mancanza delle relazioni affettive e sessuali, che producono gravi conseguenze a livello psichico ma anche fisico. Innanzi tutto, occorre precisare che l'incidenza dell'affettività è fondamentale soprattutto nei processi di sviluppo e di crescita dell'individuo, fin dalla prima infanzia. Ove tale accrescimento maturativo risulti carente o addirittura inesistente, lo sviluppo dell'emotività, del linguaggio e quindi del comportamento sociale e dell'identità, nonché della salute mentale dell'individuo, sono compromessi.
Tale difficoltà nelle relazioni affettive e sessuali porta spesso verso un disagio che può sfociare in una vera e propria malattia mentale: qualsiasi progetto terapeutico prima, e riabilitativo poi, non può e non deve assolutamente non prendere in considerazione la necessità di lavorare sulle relazioni affettive. In particolare, negli OPG, malattie mentali come la schizofrenia depauperano e annullano principalmente l'affettività del soggetto colpito, che manifesta fra i sintomi principali proprio una inaffettività paralizzante.
Altrettanto, alcune "psicosi affettive", come la depressione, la mania e l'alternanza di queste due forme, causano gravi disturbi dell'umore, cui conseguono disturbi secondari del pensiero e del comportamento in consonanza dell'affetto (28). Ciò non caratterizza esclusivamente la popolazione internata, bensì anche quella detenuta, quando sindromi quali quella di "prisonizzazione" (termine coniato da Clemmer nel 1940) sono talora presenti con forme di modificazione della personalità e con sintomi di impoverimento intellettivo, emotivo, sensoriale e dell'identità, fra le cui cause sicuramente sono da annoverare una deprivazione psichica e fisiologica, ed anche affettiva e sessuale. Per evitare tale inconveniente, bisognerebbe divulgare e far conoscere alla società esterna la realtà del mondo circoscritto delle istituzioni totali, veri contenitori di aggressività e follia.
L'apertura delle istituzioni totali all'esterno, in una permeabilità direzionale fuori-dentro, può costituire un'ottima occasione di conoscenza e di trasformazione, nonostante le grosse difficoltà per attuarla, derivanti soprattutto dalla necessità di sicurezza.
3.4.2. Le residenze autonome e le comunità terapeutiche
La sede più idonea è, quindi, un luogo, in genere esterno sia all'ambito familiare che sociale, che ospita altri soggetti con gli stessi problemi e la stessa storia ed in cui équipe sanitarie multidisciplinari svolgono importanti funzioni di assistenza clinica e socio-riabilitativa. In altre parole, si fa riferimento a quelle "strutture intermedie", "comunità terapeutiche", "case alloggio", "case di riposo", ed altre ancora, tutte con proprie peculiarità riguardo alla strutturazione interna ed al tipo di trattamento, ma che, comunque, rappresentano una tappa intermedia, di passaggio, ed oltremodo importante di quello che dovrebbe essere il definitivo reinserimento del soggetto nella società, se non, addirittura, come vera e propria alternativa all'OPG. Tale processo, infatti, non può che avvenire in modo graduale, progressivo e ciò rappresenta o dovrebbe rappresentare, appunto, la linea operativa guida e comune, condivisa sia dagli operatori dell'OPG che da quelli dei servizi psichiatrici territoriali, in maniera tale che non vi sia una brusca frattura tra il "vivere nell'OPG" ed il "vivere di nuovo all'esterno". Per quel che riguarda il che cosa il soggetto andrà a fare, ciò dovrà essere deciso sulla base di criteri eminentemente clinici che si rifanno, essenzialmente, al quadro psicopatologico, al suo grado di compenso, al livello delle capacità cognitive e comportamentali ancora integre e non intaccate dalla malattia, alle caratteristiche personologiche generali del soggetto.
A tale proposito, durante il convegno "Psichiatria Slegata", tenutosi all'OPG di Montelupo, dal 15 al 17 maggio 2003, al quale ho avuto l'opportunità di partecipare personalmente, il Dr. Iannucci, Presidente della Società Italiana di Psichiatria penitenziaria, Responsabile Scientifico del Progetto Eracle, e la D.ssa Brandi, Coordinatore del gruppo di lavoro "Psichiatria e Giustizia", hanno presentato un interessante progetto, approvato dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, circa la creazione di alcune strutture residenziali psichiatriche intermedie tra lo stato di detenzione o internamento e quello di libertà.
Il progetto, denominato "Progetto Eracle", seguito da un'analoga esperienza anche ad Aulla, in provincia di Massa, è stato finanziato, fino al luglio del 2002, in gran parte dal Ministero della Sanità, in parte dalla Regione Toscana e in parte dall'AS di Firenze.
Tale progetto prevede la creazione di strutture residenziali, simili a quella da loro ideata: "Le Querce" è una residenza operativa a Firenze dall'ottobre scorso, finalizzata all'accoglienza di detenuti, internati e soggetti sottoposti a procedimenti penali. Essendo dimostrato che la lunga detenzione o il lungo internamento implicano spesso il cronicizzarsi della malattia psichica, lo scopo principale di tale progetto è quello di creare un'alternativa alla reclusione, offrendo autonomia gestionale, maggiori possibilità di realizzazione delle attività terapeutiche risocializzanti, fornendo dati scientifici utili per il superamento dell'OPG.
Il 30 giugno 2001, su un bacino di utenza composto da 82 pazienti, di cui 14 internati in OPG o in CCC, sulla base di colloqui clinici, sono stati scelti 16 soggetti, 8 sono stati inseriti alla residenza "Le Querce", mentre gli altri 8 hanno fatto parte del gruppo di controllo. Secondo il progetto, la persona inserita nella struttura residenziale vi deve restare per un massimo di 12 mesi, nel corso dei quali è necessario individuare un inserimento territoriale più integrato, pena il ritorno nella realtà di provenienza. In questo modo, la permanenza nella struttura assume il carattere di transito verso collocazioni definitive sul territorio, residenziali, domiciliari o di altro tipo.
Per l'organizzazione di tali residenze intermedie, occorre innanzitutto contemperare le esigenze di cura e controllo. Per quanto riguarda l'esigenza custodialistica, occorre precisare che l'ammissione in tali strutture è consentita solo alla ricorrenza di determinate condizioni: in particolare, se si tratta di internati, essi potranno esservi ammessi soltanto godendo di licenze temporanee e licenze finali d'esperimento; per quanto riguarda l'esigenza terapeutica invece, all'interno della residenza si realizza una sinergia terapeutico-riabilitativa tra servizio sociale pubblico e privato, che sostanzialmente si traduce in una vera e propria responsabilità congiunta.
Per quanto riguarda gli effetti della sperimentazione della residenza "Le Querce", alla data del 10 settembre 2001 sono transitate 15 persone. Tra queste, 3 sono rimaste per brevissimi periodi di tempo e non sono state inserite nella valutazione dei risultati della statistica; le altre 12, 4 donne e 8 uomini, di età compresa fra i 30 e i 55 anni, con un'età media di 37 anni circa, affetti da patologie diverse quali psicosi, gravi disturbi della personalità, epilessia, abuso o dipendenza da alcool o sostanze stupefacenti, alla conclusione del periodo di permanenza nella residenza hanno riscontrato risultati clinici soddisfacenti, quali il consolidamento del nuovo stile di vita intrapreso, il ridimensionamento della patologia, il graduale reinserimento nelle attività lavorative e sociali, anche attraverso la facilitazione dei contatti con l'équipe terapeutica territoriale. I dati sono positivi, in quanto, nella complessiva esperienza della residenza "Le Querce", si è assistito a un solo caso di drop-out non sono pervenute notizie di alcun problema di sicurezza causato dagli ospiti.
Il Progetto Eracle ha suggerito al Ministero della Salute e a quello della Giustizia una territorializzazione di chi commette un crimine a causa di disturbi psichici, trasferendo negli istituti di pena del territorio di provenienza; ha suggerito inoltre un circuito riabilitativo che prevede una gradazione progressivamente minore del livello di protezione per ciascun ospite. Per il potenziamento e l'incentivazione alla creazione di strutture analoghe, occorrerebbe inoltre una formazione costante degli operatori e della loro capacità riabilitative, mantenendo costantemente aperta la comunicazione tra interno ed esterno; inoltre, perché tali istituti potessero dirsi realmente efficienti, si dovrebbe auspicarne la creazione in ogni regione, in modo che il paziente non sia sradicato dal territorio di provenienza.
Essendo l'attuale sistema normativo fortemente condizionato da esigenze custodiali, piuttosto che terapeutiche, le esperienze della comunità terapeutiche di Firenze e di Aulla hanno come scopo primario quello della valorizzazione delle esigenze trattamentali dei loro ospiti: in tali comunità, ogni paziente è titolare di un programma trattamentale individuale di tipo medico, psicologico e riabilitativo, sia all'interno della comunità stessa che nella rete dei servizi territoriali. Il trattamento previsto per ognuno costituisce un vero e proprio negoziato tra operatori territoriali che sono incaricati della comunità terapeutica e il paziente: infatti, a seconda della esigenze, possono essere organizzati dei trattamenti individuali oppure delle terapie di gruppo; il paziente viene aiutato a conoscere e a gestire la propria aggressività, come risorsa utile per organizzare la vita quotidiana in armonia e in rispetto della regole di convivenza; il paziente impara a prendere coscienza del disturbo e delle strategie terapeutiche necessarie per diminuire la sofferenza.
Indubbiamente, le maggiori difficoltà incontrate da tale iniziativa derivano soprattutto dall'incertezza del quadro istituzionale e dalla precarietà economica delle sovvenzioni, nonché da uno scarso impulso del progetto da parte della sanità pubblica; la situazione è aggravata dalla difficoltà di rapporti stabili e continui con i SERT.
Esperienze simili a quelle promosse in Toscana sono state intraprese anche da altre regioni. In particolare, la Regione Emilia-Romagna si occupa da molti anni di Ospedali Psichiatrici Giudiziari, con particolare riferimento a quello situato a Reggio Emilia, e ha dato corpo, a partire dalla passata legislatura, ad un insieme di politiche mirate all'OPG e ai temi inerenti. Esiste unanime accordo sull'assoluta necessità di una riforma dell'ordinamento che regola il trattamento dei pazienti psichiatrici autori di reato, a completamento di una riforma psichiatrica che aveva trascurato questo problema. Il tema OPG è stato tenuto fuori dalle leggi di "riordino della medicina penitenziaria" e se ne prevede un'apposita riforma. La Regione, fortemente impegnata per una riforma strutturale degli OPG, ha avviato, attraverso i due Assessorati competenti (Politiche Sociali e Sanità), un ampio programma d'intervento.. Nella passata legislatura, insieme alla Regione Toscana, il tema è stato affrontato anche attraverso una proposta di legge regionale per il superamento degli OPG. Dal 1995 è attivo il progetto di ricerca "Monitoraggio dimissioni dall'OPG", cui collabora anche l'Istituto Superiore di Sanità, utile alla creazione di un quadro conoscitivo sullo stato psichico e psicosociale degli attuali internati, con ipotesi di valutazione anche dell'andamento del programma successivo all'eventuale futuro riassetto del settore. Inoltre la Regione, il Comune e l'ASL di Reggio Emilia, in collaborazione con l'associazione di volontariato "Effatà", hanno promosso dal 1995 la creazione di appartamenti protetti, ove i pazienti vengono accompagnati, nell'attesa di una collocazione in una struttura a cui provveda l'ASL di provenienza, nel percorso di uscita dalle misure di sicurezza attraverso serie di licenze dall'OPG.
Nel 1998, presso l'OPG di Reggio Emilia è stato organizzato un Reparto Aperto, il Reparto Antares: in questo caso, invece di una struttura residenziale completamente estranea alla gestione dell'OPG come quella de "Le Querce", è stato creato uno speciale reparto all'interno dell'OPG stesso, destinato quindi ai soli internati. Il progetto Antares consiste nell'allestimento di un "reparto spe-rimentale ad alto contenuto terapeutico" all'interno dell'OPG, tramite l'attivazione, in un'attuale sezione a custodia attenuata, di una serie di attività terapeutiche e riabilitative che prevedono la presenza di educatori, di una psicologa, di speciali arredi e il coinvolgimento dei servizi psichiatrici territoriali. Questi ultimi hanno sottoscritto apposite convenzioni con l'OPG, che regolano i reciproci rapporti nella gestione dei pazienti, rendendoli più rapidi, fluidi ed efficaci.
È il reparto sperimentale Antares, la più significativa possibilità che hanno alcuni internati dell'ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia per rompere il muro di isolamento che li circonda. Nell'ospedale psichiatrico giudiziario vivono 210 detenuti e per una quarantina di loro, grazie al progetto finanziato dall'assessorato regionale alle Politiche Sociali, in collaborazione col Comune di Reggio Emilia, sarà garantita la terapia, la riabilitazione e il potenziamento dell'attività delle strutture di accoglienza esterne. Al reparto Antares, infatti, c'è la possibilità di attivare borse lavoro esterne, e perché no, anche di organizzare gite o feste di compleanno. Insomma, piccoli spazi di umanità purtroppo ancora all'interno del grigiore e dell'impersonalità del trattamento in ospedale psichiatrico giudiziario.
Antares si propone di integrare il progetto multiregionale in corso con la Regione Toscana, che ha istituito una residenza psichiatrica assistita per pazienti psichiatrici rei internati in OPG, in licenza dalla misura di sicurezza (progetto finanziato dal Ministero della Sanità). Si è deciso, infatti, di utilizzare il progetto interno all'OPG di Reggio Emilia come strumento di ricerca e di connetterlo a quello toscano, attuato in una struttura esterna all'OPG, così da poter desumere la metodologia delle valutazioni diagnostiche atte alla selezione dei pazienti da inserirvi e la metodologia della valutazione dei risultati. La Regione Emilia-Romagna continuerà inoltre a destinare contributi mirati agli internati in OPG attraverso innovative modalità di finanziamento per quei Dipartimenti di Salute Mentale che prendono in carico pazienti provenienti dall'OPG di Reggio Emilia, senza rinunciare ad una visione più complessiva nell'affrontare il delicato tema della violenza e malattia mentale.
Note
1. d.P.R. n. 230/2000
2. d.P.R. n. 230/2000.
3. Ibid
4. d.P.R. n. 230/2000
5. Ibid
6. d.P.R. n. 230/2000.
7. d.P.R. n. 230/2000
8. Ibid
9. S. Mannucci, Il Comune e l'OPG: tessere la rete nel territorio, Cesvot.
10. M. Pavarini, Ordinamento penitenziario ed esecuzione delle misure preventive e limitative, in Codice commentato dell'esecuzione penale, vol. 3, p. 51.
11. Ivi, p. 52. Vedi anche G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, 1997, p. 153 ss.
12. Ibid
13. M. Pavarini, Ordinamento penitenziario ed esecuzione delle misure preventive e limitative, in Codice commentato dell'esecuzione penale, op. cit., vol. 3, p. 172 ss. Vedi anche G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, op. cit., Giuffrè, 1997, p. 262 ss.
14. Ibid
15. d.P.R. n. 230/2000.
16. d.P.R. n. 230/2000.
17. M. Pavarini, Ordinamento penitenziario ed esecuzione delle misure preventive e limitative, in Codice commentato dell'esecuzione penale, vol. 3, p. 97. Vedi anche G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, 1997, p. 221 ss.
18. M. Pavarini, Ordinamento penitenziario ed esecuzione delle misure preventive e limitative, in Codice commentato dell'esecuzione penale, op. cit., vol. 3, p. 149.
19. Ivi, p. 150
20. Ibid
21. G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, op. cit., Giuffrè, 1997, p. 121 ss.
22. d.P.R. n. 230/2000.
23. Ibid
24. S. Bucci, Nel mondo 55 milioni di ammalati, 33 nei paesi in via di sviluppo, 600.000 schizofrenici in Italia, 2000.
25. Ibid
26. Ivi, pp. 113-116.
27. M.G. Giannichedda e F. Ongaro Basaglia, Dei delitti e delle pene, 1987, pp. 216-218
28. F. Morelli (a cura di), Gli incontri con i familiari che non permettono nessuna intimità, in Ristretti: Periodico di informazione e cultura dal Carcere Due Palazzi di Padova, Anno 4, Numero 4, Luglio 2002.


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