di Matteo Guglielmo
RUBRICA GEES, CORNO D'AFRICA. Il Sud Sudan è indipendente, ma diverse questioni restano ancora aperte. La missione etiopica di peace-keeping ad Abyei e il ruolo dell’Uganda in Somalia hanno inaugurato un nuovo asse regionale. L’approccio militare può dividere il Corno d’Africa.
(Carta di Laura Canali tratta da Limes 3/10 "Il Sudafrica in nero e bianco" - clicca sulla carta per ingrandirla)
Il 9 luglio è nato il 54° stato africano. Il Sud Sudan ha dichiarato la sua indipendenza, conquistata dopo vent’anni anni di lotta di liberazione e ufficializzata dal referendum popolare tenutosi lo scorso gennaio, ma i cui esiti erano già largamente prevedibili. Dopo l’Eritrea, il Sud Sudan è il secondo stato dell’Africa sub-sahariana, e in particolare del Corno d’Africa, ad aver compiuto una secessione in deroga ai principi di conservazione dei confini ereditati dal periodo coloniale sanciti nel 1964 dall’Organizzazione per l’unità africana, oggi Unione Africana (Ua).
Come sottolineano diversi analisti, non sarà di certo l’indipendenza a sciogliere alcuni nodi che caratterizzano e continuano a mettere a dura prova la stabilità dell’area. Su tutti vi è la demarcazione confinaria legata alla provincia di Abyei, con le sue riserve petrolifere e dunque preziosa sia per il governo di Khartoum che per quello di Juba. Anche se molti restano scettici sull’effettiva ricchezza dei pozzi di Abyei, il 21 maggio scorso le forze armate sudanesi acquisivano il controllo della città, causando la fuga di migliaia di persone e portando i due paesi sull’orlo della guerra.
La crisi di Abyei è parzialmente rientrata a fine giugno, quando ad Addis Abeba i due governi hanno siglato un accordo quadro che, oltre a sancire un’intesa militare sulla provincia contesa, sarebbe stato seguito da un altro, riguardante il Kordofan meridionale e il Nilo Azzurro, due regioni ufficialmente sotto Khartoum, ma che al pari del Sud Sudan si erano distinte per l’opposizione militare al governo sudanese.
Gli accordi di Addis Abeba, pur restando confinati in un ambito militare e scaturiti dall’attività di mediazione di un High level implementation panel dell’Unione africana (Auhlip) presieduto dal presidente sudafricano Thabo Mbeki, testimoniano il ruolo centrale dell’Etiopia all’interno dei sistemi di potere e di leadership regionale. Come sancito dagli accordi, Addis Abeba ha da pochi giorni ultimato un primo dispiegamento di una forza di peace-keeping che conterà circa 4200 caschi blu, anche se il numero potrebbe nei prossimi mesi salire a 7mila.
La missione, denominata United nations interim security force for Abyei (Unifsa), è stata approvata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu attraverso la risoluzione 1990 del 27 giugno, e avrà il compito di monitorare il ritiro delle forze armate sudanesi in modo da smilitarizzare completamente l’area consentendo la protezione dei civili e - come sancito dal testo - delle infrastrutture petrolifere presenti in loco.
La proposta di risoluzione è stata avanzata dagli Stati Uniti, che attraverso il loro rappresentante alle Nazioni unite Susan Rice hanno espresso piena soddisfazione non solo per l’approvazione in Consiglio di Sicurezza, ma anche per la disponibilità delle forze etiopiche. Secondo alcuni analisti, l’Etiopia dovrebbe garantire solidità e professionalità alla missione, data l’esperienza del suo personale militare e la conoscenza del territorio.
Nonostante la risoluzione Onu e il ruolo centrale giocato dall’Etiopia, le misure intraprese restano per ora confinate all'ambito militare. Aspettando che il successo dei negoziati possa tradursi anche in un processo di normalizzazione politica, il caso sudanese rappresenta un’ulteriore conferma di vecchi e nuovi equilibri di potere la cui strutturazione rischia di incrementare altre tensioni legate alla regione del Corno d’Africa.
Oltre all’Etiopia infatti, un attore che ha saputo guadagnarsi la stima della comunità internazionale è l’Uganda di Yoweri Museveni. Dal 2007 il paese è il maggior contributor in termini di personale militare di Amisom, la missione di peace-support dell’Unione africana in Somalia, e di cui gli Stati Uniti restano il primo finanziatore. Ad oggi Amisom è composta da circa 9mila caschi verdi, in gran parte provenienti dall’Uganda.
Il 26 giugno il Pentagono ha stanziato una spesa aggiuntiva di 45milioni di dollari per Amisom, parte di un pacchetto di 145milioni riservati a varie operazioni su cui il Dipartimento per la Difesa attende a breve un’approvazione da parte del Congresso. Kampala riceverà altri aiuti (poco più di 4milioni) in equipaggiamento militare, mentre è possibile quantificare il totale del finanziamento statunitense all’Uganda e al Burundi per Amisom in una cifra non lontana dai 185milioni di dollari.
Grazie al contributo per Amisom, l’Uganda ha potuto maturare in Somalia anche ambizioni politiche. Ne è prova il ruolo giocato dal presidente Museveni negli accordi di Kampala del 9 giugno, volti a ricucire la frattura tra il presidente somalo Sheikh Sharif Sheikh Ahmed e lo speaker del parlamento Sharif Hassan Sheikh Aden. Nonostante la sostanza di tali accordi rimanga piuttosto controversa, soprattutto per i sostenitori dell’ex primo ministro Mohamed Abdullahi Mohamed “Farmaajo” costretto a dimettersi, l’Uganda sembra aver allargato il proprio ambito di azione oltre il ruolo prettamente tecnico-militare, massimizzando i guadagni in termini sia economici sia politici.
L’asse etiopico-ugandese si pone quale nuovo fulcro del delicato balance of power del Corno d’Africa. Il sostegno degli Usa e dell'Onu tende a legittimarne l’operato su scala globale, mentre l’Unione Europea, priva di un inviato speciale, non riesce ancora ad assumere una posizione chiara e ad agire in modo più compatto e articolato.
Anche all’interno dell’Unione Africana Kampala e Addis Abeba si distinguono per un attivismo che già da tempo hanno saputo imporre all’interno dell’Inter-governmental authority on development (Igad). È proprio in quest’ambito che il nuovo sistema di alleanze mostra tuttavia le lacune più profonde. I dubbi ruotano intorno alla sostanza della leadership proposta dai due paesi, che ancora una volta risulta efficace sul piano militare e della sicurezza, ma quasi assente su quello politico-diplomatico.
Il 4 luglio scorso, la diciottesima sessione straordinaria dei capi di Stato e di governo dell’Igad rilasciava un comunicato incentrato sugli sviluppi politici in Sudan, Somalia ed Eritrea. La riunione, tenutasi proprio ad Addis Abeba e preceduta pochi giorni prima da una sessione straordinaria del Consiglio esecutivo e dei ministri dell’Igad convocata a Malabo (Guinea Equatoriale), oltre ad esprimere soddisfazione per gli esiti della mediazione dell’Auhlip riguardo la questione di Abyei, ha evidenziato un approccio più duro e militante verso la crisi somala e sul ruolo del governo eritreo nella regione.
Su quest’ultimo punto l’Igad, di cui tecnicamente Asmara sarebbe ancora un membro, ha invitato il Consiglio di Sicurezza dell’Onu a inasprire le sanzioni contro l’Eritrea, colpevole secondo l’Assemblea di destabilizzare il Corno d’Africa offrendo aiuto militare a vari gruppi di opposizione armata. La risposta del governo eritreo alle nuove accuse è arrivata attraverso una nota del ministero degli Esteri, in cui si tende a sottolineare ancora una volta un’eccessiva parzialità nell’operato della comunità internazionale nel Corno d’Africa, e in particolare di uno sbilanciamento verso posizioni filo-etiopiche.
Se rispetto al caso eritreo l’Igad ha preferito un approccio di scontro, anche riguardo al conflitto somalo la sua posizione non cambia. Nel comunicato restano evidenti alcune affermazioni incongrue rispetto alle dinamiche riscontrabili sul campo: i paesi membri sono invitati a proseguire nel sostenere le Istituzioni federali di transizione (Ift) nel rafforzare le amministrazioni locali di un governo il cui controllo resta però confinato ad alcuni quartieri di Mogadiscio.
Nello stesso comunicato si richiede inoltre al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di incrementare un regime di embargo sui porti controllati dagli Shabaab di Chisimaio, Brava, Merca ed el-Maan, per evitare che possano arrivare nuovi rifornimenti di armi. Se la guerriglia somala si avvale costantemente degli introiti finanziari ricavati dalla gestione dei vettori portuali, questi sono anche utilizzati per altri scopi, come il rifornimento di merci e di derrate alimentari.
In un momento in cui il Corno d’Africa, e in particolare la Somalia, attraversa una delle più gravi carestie degli ultimi anni, il rafforzamento del blocco sui porti meridionali potrebbe aggravare la crisi umanitaria in atto. Se a Juba si festeggia, Mogadiscio è destinata ancora una volta a sopportare gli effetti negativi di un approccio militare che da diversi anni si è sostituito alla politica.
Il nuovo asse etiopico-ugandese sta assumendo un ruolo determinante negli equilibri regionali, ma se il suo fulcro continuerà a reggersi in modo esclusivo sulla sicurezza, l’impressione è che difficilmente possa essere risolutivo delle crisi che continuano ad attraversare il Corno d’Africa.
estratto da: http://temi.repubblica.it/limes/in-sud-sudan-e-somalia-il-corno-dafrica-si-spacca/8680
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