LUIGI LA SPINA
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7160&ID_sezione=&sezione=
Con un gioco di parole, banale ma efficace, si potrebbe dire che ha colpito, nei risultati del voto per le elezioni regionali, la voglia di protesta degli italiani. Ma il sentimento più vero e importante emerso dal verdetto è un altro: la voglia di proposta. La domanda, anzi, la giusta pretesa degli elettori di essere governati. E governati bene.La democrazia è fatta di numeri e di sintesi. Non si possono confondere, perciò, le dimensioni quantitative dei fenomeni, mettendo sullo stesso piano realtà con cifre assolutamente distanti tra loro. Né trascurare la crudele ma imparziale legge che assegna una vittoria senza ombre anche a chi prevale per un voto e una sconfitta senza giustificazioni a chi, per un voto, soccombe.E’ vero che l’astensione è stata senza precedenti nel nostro Paese e interpretarla come una disaffezione, un’accusa, anche una protesta dei cittadini contro la classe politica è certamente un’interpretazione corretta. Ma non bisogna dimenticare che, dopo una campagna elettorale deprimente e lontana dagli interessi concreti degli elettori, una ancora ampia maggioranza degli italiani è andata a votare per un ente, la Regione, che non è in cima nella graduatoria di affezione popolare. Un fenomeno, quindi, del tutto fisiologico, non drammatico nei numeri e, molto probabilmente, reversibile in votazioni politiche e amministrative più sentite. Altrettanto fisiologica e assolutamente minoritaria è la presenza di un’opposizione irriducibile e contestativa contro il generale nostro sistema dei partiti che, di volta in volta, sceglie l’estremismo movimentista, a targhe alterne, dal «girotondismo» al «grillismo».Considerate le dimensioni numeriche della protesta che si è manifestata in Italia, è forse più opportuno concentrare l’attenzione sulle intenzioni espresse da coloro che sono andati a votare per i partiti che si contendevano la posta in palio e che, cambiando le loro scelte, hanno connotato il significato dell’elezione. La sintesi è semplice e chiara: la Lega è l’unica vera vincitrice del round elettorale perché ha dimostrato, in questi ultimi anni, di non essere più un movimento di protesta, ma di offrire una vera alternativa di governo, almeno di quello locale e regionale. Il Pdl ha visto ridotto il suo bacino di consensi, nonostante le straordinarie capacità di seduzione elettorale di Berlusconi, perché una parte dei suoi simpatizzanti non è soddisfatta dei risultati del governo in questo inizio di legislatura. Il Pd non può nascondere, dietro la tenuta dei suffragi, l’amara verità: ancora una volta non ha dimostrato di sapere offrire agli italiani una concreta alternativa nazionale di governo all’asse politico, sociale, culturale rappresentato dalla coppia Berlusconi-Bossi.Le giustificazioni, come l’addebito alla lista di Grillo per la sconfitta della Bresso in Piemonte e le eccezioni, come la vittoria a Venezia di Giorgio Orsoni contro il ministro Brunetta, non possono mascherare la constatazione che il progetto politico del partito democratico è finito in un vicolo cieco: non si può pretendere di offrire agli italiani una proposta di vera alternativa nazionale di governo, se non si riesce a convincere almeno una parte delle grandi regioni del Nord. Se si subisce, nel Lazio, la candidatura della radicale Bonino e non la si porta alla vittoria in una competizione che, per le note vicende, non sembrava impossibile. Se, in Puglia, si perdono le primarie contro il candidato di un altro partito e, poi, si contribuisce a farlo vincere solo per una masochistica e clamorosa divisione del fronte avversario. In queste condizioni, alzare la bandiera della Liguria e della Basilicata, in aggiunta ai tradizionali feudi del centro Italia, per non ammettere la sconfitta è un esercizio di acrobazia dialettica che non può essere concesso neanche a una persona perbene e simpatica come Bersani.La richiesta di essere governati degli italiani andrà raccolta, perciò, da tre fronti: dalla Lega, che non dovrà deludere quelle attese di serietà, concretezza e moderato buon senso che l’hanno premiata; da Berlusconi, che non dovrà sottovalutare, per il sollievo dello scampato pericolo di una sconfitta, i segni di stanchezza e sconcerto di una parte del suo elettorato; infine, dal Pd al quale, forse, spetta il compito più difficile ma anche più importante per conservare l’equilibrio di una sana democrazia: offrire una vera alternativa di governo all’attuale maggioranza.È inutile, a questo proposito, che il partito democratico continui a cercare la soluzione cambiando il segretario. Ma è inutile pensare che senza un vero chiarimento possa uscire dalla sua condizione di un partito senza identità, con una classe dirigente invecchiata in un asfissiante logoramento di lotte intestine. Le strade sono solo due. La prima porta il Pd a rappresentare la parte maggiore dell’opposizione nel nostro Paese, con vittorie occasionali e provvisorie, frutto di errori clamorosi degli avversari. La seconda ha l’ambizione di convincere una parte dell’elettorato di Berlusconi e Bossi che l’Italia si può governare in un altro modo.
Con un gioco di parole, banale ma efficace, si potrebbe dire che ha colpito, nei risultati del voto per le elezioni regionali, la voglia di protesta degli italiani. Ma il sentimento più vero e importante emerso dal verdetto è un altro: la voglia di proposta. La domanda, anzi, la giusta pretesa degli elettori di essere governati. E governati bene.La democrazia è fatta di numeri e di sintesi. Non si possono confondere, perciò, le dimensioni quantitative dei fenomeni, mettendo sullo stesso piano realtà con cifre assolutamente distanti tra loro. Né trascurare la crudele ma imparziale legge che assegna una vittoria senza ombre anche a chi prevale per un voto e una sconfitta senza giustificazioni a chi, per un voto, soccombe.E’ vero che l’astensione è stata senza precedenti nel nostro Paese e interpretarla come una disaffezione, un’accusa, anche una protesta dei cittadini contro la classe politica è certamente un’interpretazione corretta. Ma non bisogna dimenticare che, dopo una campagna elettorale deprimente e lontana dagli interessi concreti degli elettori, una ancora ampia maggioranza degli italiani è andata a votare per un ente, la Regione, che non è in cima nella graduatoria di affezione popolare. Un fenomeno, quindi, del tutto fisiologico, non drammatico nei numeri e, molto probabilmente, reversibile in votazioni politiche e amministrative più sentite. Altrettanto fisiologica e assolutamente minoritaria è la presenza di un’opposizione irriducibile e contestativa contro il generale nostro sistema dei partiti che, di volta in volta, sceglie l’estremismo movimentista, a targhe alterne, dal «girotondismo» al «grillismo».Considerate le dimensioni numeriche della protesta che si è manifestata in Italia, è forse più opportuno concentrare l’attenzione sulle intenzioni espresse da coloro che sono andati a votare per i partiti che si contendevano la posta in palio e che, cambiando le loro scelte, hanno connotato il significato dell’elezione. La sintesi è semplice e chiara: la Lega è l’unica vera vincitrice del round elettorale perché ha dimostrato, in questi ultimi anni, di non essere più un movimento di protesta, ma di offrire una vera alternativa di governo, almeno di quello locale e regionale. Il Pdl ha visto ridotto il suo bacino di consensi, nonostante le straordinarie capacità di seduzione elettorale di Berlusconi, perché una parte dei suoi simpatizzanti non è soddisfatta dei risultati del governo in questo inizio di legislatura. Il Pd non può nascondere, dietro la tenuta dei suffragi, l’amara verità: ancora una volta non ha dimostrato di sapere offrire agli italiani una concreta alternativa nazionale di governo all’asse politico, sociale, culturale rappresentato dalla coppia Berlusconi-Bossi.Le giustificazioni, come l’addebito alla lista di Grillo per la sconfitta della Bresso in Piemonte e le eccezioni, come la vittoria a Venezia di Giorgio Orsoni contro il ministro Brunetta, non possono mascherare la constatazione che il progetto politico del partito democratico è finito in un vicolo cieco: non si può pretendere di offrire agli italiani una proposta di vera alternativa nazionale di governo, se non si riesce a convincere almeno una parte delle grandi regioni del Nord. Se si subisce, nel Lazio, la candidatura della radicale Bonino e non la si porta alla vittoria in una competizione che, per le note vicende, non sembrava impossibile. Se, in Puglia, si perdono le primarie contro il candidato di un altro partito e, poi, si contribuisce a farlo vincere solo per una masochistica e clamorosa divisione del fronte avversario. In queste condizioni, alzare la bandiera della Liguria e della Basilicata, in aggiunta ai tradizionali feudi del centro Italia, per non ammettere la sconfitta è un esercizio di acrobazia dialettica che non può essere concesso neanche a una persona perbene e simpatica come Bersani.La richiesta di essere governati degli italiani andrà raccolta, perciò, da tre fronti: dalla Lega, che non dovrà deludere quelle attese di serietà, concretezza e moderato buon senso che l’hanno premiata; da Berlusconi, che non dovrà sottovalutare, per il sollievo dello scampato pericolo di una sconfitta, i segni di stanchezza e sconcerto di una parte del suo elettorato; infine, dal Pd al quale, forse, spetta il compito più difficile ma anche più importante per conservare l’equilibrio di una sana democrazia: offrire una vera alternativa di governo all’attuale maggioranza.È inutile, a questo proposito, che il partito democratico continui a cercare la soluzione cambiando il segretario. Ma è inutile pensare che senza un vero chiarimento possa uscire dalla sua condizione di un partito senza identità, con una classe dirigente invecchiata in un asfissiante logoramento di lotte intestine. Le strade sono solo due. La prima porta il Pd a rappresentare la parte maggiore dell’opposizione nel nostro Paese, con vittorie occasionali e provvisorie, frutto di errori clamorosi degli avversari. La seconda ha l’ambizione di convincere una parte dell’elettorato di Berlusconi e Bossi che l’Italia si può governare in un altro modo.
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