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GIUSTIZIA INTERNAZIONALE
IL PROBLEMA DELLA GIUSTIZIA INTERNAZIONALE NEL PENSIERO DI RAWLS
Rawls ha tentato, nel suo Law of PeoplesA Theory of Justice (Una teoria della giustizia), di costruire una teoria della giustizia internazionale e dei rapporti tra Stati attraverso l’estensione a questo ambito delle idee liberali di giustizia utilizzate in A Theory of Justice per la definizione di una concezione della giustizia valida per la struttura fondamentale della società considerata come sistema chiuso isolata dalle altre.
Egli tenta di definire e fondare su basi non utilitaristiche un equo sistema di cooperazione sociale (giustizia come equità), individuando i principi che debbono governare la distribuzione degli oneri e dei benefici di questa cooperazione. Oggetto dell’analisi di Rawls è la società considerata come sistema chiuso isolato dalle altre società.
Il quadro di riferimento è contrattualista, anche se contaminato con gli strumenti della teoria contemporanea della scelta razionale.
Secondo Rawls:
● “i principi di giustizia per la struttura fondamentale della società […] sono oggetto dell’accordo originario”
E sono quelli che
● “persone libere e razionali, preoccupate di perseguire i propri interessi, accetterebbero in una posizione iniziale di eguaglianza per definire i termini fondamentali della loro associazione”
Spetta a questi principi il compito di regolare tutti gli accordi successivi e di specificare i tipi di cooperazione sociale che possono essere realizzate nonché le forme di governo che possono essere istituite
Diversamente dal contrattualismo classico, Rawls non concepisce questo accordo originario come un fatto storico effettivamente accaduto, ma lo colloca, piuttosto, in una dimensione atemporale, definibile come posizione originaria
La posizione originaria è un esperimento mentale, una situazione ipotetica, raggiungibile in qualsiasi momento, mediante cui diventa possibile individuare gli equi termini della cooperazione sociale
«Porsi in posizione originaria significa spogliarsi delle posizioni particolari che potrebbero alterare la scelta dei principi o, per dirla con RAWLS, “nessuno conosce il suo posto nella società, la sua posizione o il suo status sociale,…, la sua intelligenza… ”,né conosce le proprie concezioni del bene e delle proprie particolari condizioni psicologiche. Questa condizione corrisponde al c.d. “velo d’ignoranza” ed è di per sé equa, dal momento che le restrizioni sulle informazioni impediscono che qualcuno invochi certi principi invece di altri con lo scopo di sfruttare vantaggi contingenti e moralmente arbitrari »
Solo nella posizione originaria le parti sono eguali. I conseguenti principi di giustizia che solo intuitivamente riteniamo accettabili. Dunque, non è la posizione originaria a fondare questi specifici principi di giustizia, in quanto essa è congegnata per riflettere l’idea che le persone sono moralmente eguali e non per giustificarla
A questo proposito, scrive KYMLICKA che “la posizione originaria è uno strumento per conferire rilievo ed efficacia alle nostre intuizioni”, così come un tempo “l’invocazione dello stato di natura serviva a rendere vivida l’dea di eguaglianza naturale”: Introduzione alla filosofia politica contemporanea, Milano, 1996, p. 35
Rawls afferma che una teoria della giustizia può sorgere a partire da una posizione originaria nella quale le parti non sono più le persone singole ma i rappresentanti delle Nazioni. Per il resto, le caratteristiche della posizione originaria non mutano: le parti sono razionali e sono soggette al velo di ignoranza.
Le parti “non sanno nulla riguardo alle … circostanze della propria società, alla sua potenza e forza paragonata a quella delle altre nazioni, e non sanno … qual è la loro posizione all’interno della propria società”
Questa posizione originaria è equa riguardo alle Nazioni, in quanto annulla le contingenze ed i pregiudizi del destino storico
Principio di eguaglianza
Premesso che le parti arriverebbero a riconoscere un principio di eguaglianza in base al quale “popoli indipendenti, organizzati in stati possiedono certi eguali diritti fondamentali”(autodeterminazione, autodifesa)
Interesse nazionale
Dunque, “l’interesse nazionale di uno Stato giusto è definito dai principi di giustizia che sono già stati riconosciuti”. Una simile nazione punta a conservare le sue giuste istituzioni e le condizioni che le rendono possibili
Una simile Nazione non è mossa dal desiderio di potenza o di gloria nazionale, né muove guerra per motivi di vantaggio economico o di allargamento territoriale
“Il diritto dei popoli” può essere fatto derivare dalle idee liberali del concetto di giustizia. Le idee vengono rapportate alla concezione politica liberale della giustizia
L’’espressione “diritto dei popoli” indica “quella concezione del diritto della giustizia che informa i principi e le norme di diritto internazionale, nonché le sue concrete applicazioni”
“la denominazione diritto dei popoli deriva dallo ius gentium della tradizione ed è particolarmente affine all’accezione che lo ius gentium assume nell’espressione ”ius gentium intra se” (diritto dei popoli e delle relazioni reciproche)”.
popolo
Il termine “popolo” indica le persone ed i beni da queste posseduti, “intesi come entità giuridica e organizzati dalle istituzioni politiche loro proprie, le quali determinano i poteri spettanti ai governi. Nelle società democratiche,…, queste persone saranno liberi cittadini, mentre nelle società gerarchiche e di altro genere esse saranno semplici membri della società”[pp. 236-237].
Diritto dei popoli
Concezione del diritto e della giustizia che informa i principi e le norme del diritto internazionale, nonché le sue concrete applicazioni
L’applicazione di una concezione politica liberale della società avviene mediante l’utilizzo della posizione originaria a un livello più elevato, nel senso che le parti sono rappresentative di popoli le cui istituzioni fondamentali soddisfano i principi di giustizia selezionati al primo livello.
Posizione originaria RAWLS
Se le società fossero tutte liberali e democratiche non sarebbe problematica la loro convergenza su principi quali
● il rispetto degli altri popoli,
● il diritto all’autodeterminazione
● il diritto all’autodifesa,
● il diritto all’osservanza degli accordi, ecc.
I problemi sorgono perché non tutte le società sono liberali
COME ESTENDERE IL DIRITTO DEI POPOLI ALLE SOCIETÀ CHE LIBERALI NON SONO?
Per poter rispondere, occorre anzitutto precisare che la teoria di Rawls si applica solo alle società bene-ordinate (liberali o meno che siano), ovvero a società che soddisfano determinati requisiti. Queste società devono anzitutto
● Essere pacifiche
● Dotate di un complesso di leggi tale per cui vengono imposti doveri e obblighi morali a chi vive nel suo territorio, viene perseguito il bene comune, i funzionari sono convinti che le leggi siano effettivamente orientate al bene comune ed esiste una ragionevole gerarchia consultiva
● Garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali, ovvero il diritto alla vita, alla libertà di coscienza e di associazione, alla proprietà, all’eguaglianza formale, all’emigrazione.
SOCIETÀ BENE ORDINATE
Una società gerarchica, SEBBENE NON RICONOSCA FORME DI EGUAGLIANZA FRA I SUOI MEMBRI, può COMUNQUE ESSERE BENE-ORDINATA. Se così fosse accadrebbe, secondo Rawls, che in posizione originaria anche questa società accetterebbe gli stessi principi di giustizia internazionale che accetterebbe una società liberale. D’altronde, anche in una società gerarchica “ le parti hanno a cuore il bene comune della società che esse rappresentano…”. Tutto questo, secondo Rawls, suggerisce l’accettazione della posizione originaria come condizione equa, nel senso che stabilisce termini equi per la cooperazione tra le varie società.
Tuttavia, può sembrare contraddittorio partire “dal presupposto che le parti, in quanto rappresentative dei popoli, debbano essere situate in posizioni di eguaglianza, benché la concezione della giustizia delle società gerarchiche da esse rappresentate consenta l’esistenza di ineguaglianza di fondo tra i loro membri”.
In realtà, osserva Rawls
Quantunque “una società sia priva di un’eguaglianza di base, non è irragionevole che essa insista sull’eguaglianza quando avanza le proprie pretese nei confronti di altre società ”
In un siffatto contesto, come si pone il problema della salvaguardia dei diritti umani?
RAWLS
Questi diritti non dipendono da nessuna dottrina morale generale né da qualche concezione filosofica della natura umana, ma “sono espressione di uno standard minimo di istituzioni politiche bene ordinate per tutti i popoli che appartengono, in qualità di membri a buon diritto, a una giusta società politica dei popoli”
RAWLS
Questi diritti sono politicamente neutrali, nel senso che non sono tipici di una particolare tradizione etico politica, quale quella liberale e occidentale
Infatti, i diritti umani sono parte integrante di un ragionevole diritto dei popoli e impongono dei limiti alle istituzioni interne di una società secondo le richieste avanzate con quello stesso diritto da tutti i popoli delimitando dall’esterno quelle che sono le leggi ammissibili all’interno di una determinata società che sia membro di una giusta società dei popoli
Essi si distinguono dai diritti costituzionali e dai diritti democratici di cittadinanza, propri di specifiche istituzioni politiche.
i diritti umani
● sono condizione necessaria per la legittimità di un regime e per l’accettabilità dei suo ordinamento politico
●● la loro vigenza è sufficiente a escludere un’interferenza energica quanto giustificata di altri popoli
●●● pongono in limite al pluralismo tra i popoli
Come devono comportarsi le società che rispettano il diritto dei popoli con quelle che non lo riconoscono?
Rawls Al più si può stabilire un modus vivendi finalizzato all’autotutela. Al limite può risultare giustificabile la guerra contro questi regimi, a condizione che essa sia necessaria alla difesa dei popoli bene ordinati. Un altro caso lecito di interventi armati si ha qualora ci sia una grave violazione dei diritti umani. Si trattarebbe di un intervento di emergenza e non sostitutivo dei normali canali diplomatici o di politica estera
Il tentativo di costruire un diritto dei popoli a partire da una concezione liberale della giustizia ha il pregio non solo di colmare una lacuna della teoria della giustizia di Rawls, ma pone la teoria in questione di fronte al problema del multiculturalismo.
In Law of Peoples Nondimeno restano insuperate tre difficoltà:
Due riguardano il ruolo dei diritti umani all’interno del diritto dei popoli
Una coinvolge la procedura di costruzione della posizione originaria
a. Il diritto dei popoli stabilisce i termini di un’equa cooperazione tra le nazioni. La difficoltà emerge dall’accordo tra le nazioni stesse poste in posizione di eguaglianza come può essere la posizione originaria . Questa procedura, nella prospettiva di Rawls, è sufficiente a garantire l’equità del diritto.
Dunque, l’equità dell’esito (il diritto dei popoli) discende dall’equità della procedura (la posizione originaria).
Pertanto, il requisito minimo del rispetto dei diritti umani non è necessario per generare un equo diritto dei popoli (per questo basta l’eguaglianza tra le nazioni), né si capisce perché dovrebbe far parte del contenuto di questo diritto, posto che, a questo livello, i popoli sono preoccupati di garantire i termini della loro cooperazione e non quelli dei rapporti tra Stato e cittadini o dei cittadini tra di loro.
I diritti umani entrano in gioco a un secondo livello che concerne la questione se sia moralmente accettabile un diritto dei popoli che non si curi del rispetto dei diritti umani e se sia moralmente giusto che i regimi dittatoriali e totalitari possano far parte della società delle nazioni che da questo diritto è governata. Rawls risponde negativamente senza però avanzare delle argomentazioni al riguardo.
b. Il diritto dei popoli, seppur derivato da premesse liberali, può essere accettato anche da società che liberali non sono e, dunque, può non essere considerato etnocentrico (semmai, si tratta di verificare se è ideologicamente neutrale questa ricostruzione della posizione originaria). Ciò è vero anche per i diritti umani? Ovvero, i diritti umani sono politicamente neutri?
La risposta affermativa di Rawls è una nobile petizione di principio, che lascia impregiudicata la questione filosofica del perché il diritto alla vita, il diritto alla proprietà ecc. dovrebbero essere universali e non invece stnocentrici, tipici, cioè della tradizione etico-politica occidentale
Universalizzare dei principi morali (ed i diritti umani operano a livello morale) è un’impersa molto ardua: ad es. può essere più o meno agevole accettare che le condanne a morte siano azioni brutali per il nostro sistema di valori: teoreticamente più impegnativo è invece affermare che siano azioni tout court “barbare”. D’altronde, se ci scandalizziamo del fatto che gli Stati Uniti vi facciano ricorso, ciò dipende dal fatto che consideriamo quel Paese come appartenente alla nostra medesima tradizione liberaldemocratica e che, pertanto, non dovrebbe mai violare la vita umana. Mantre altrettanto scandalo non mettiamo quando alla condanna a morte ricorre l’Afghanistan piuttosto che l’Iran, ecc.
c. Si tratta di determinare chi le parti rappresentino in posizione originaria al momento di definire i termini equi della cooperazione internazionale. Infatti, “popoli”e“nazioni”, di cui parla Rawls, non sono di immediata individuazione (anche perché privi di confini fisici definiti), come invece accade per le persone che si ritrovano in posizione originaria a decidere i principi di giustizia per la loro società.
Chi e su quali basi deve essere considerato nazione e partecipare al processo decisionale? Una via potrebbe essere quella di considerare solo le nazioni che si sono costitute in Stato, ma così facendo si escluderebbero tutte quelle realtà cui contingenze particolari hanno impedito di raggiungere quel risultato
Sotto questo profilo è del tutto corretto che Rawls scarti questa soluzione, meno convincente è il fatto che egli non ne fornisca un’alternativa, sicché nella sua costruzione teoretica della giustizia internazionale, rimane irrisolta la questione di come individuare un popolo.
CONCLUSIVAMENTE: A. UN EQUO DIRITTO DEI POPOLI NON IMPLICA NECESSARIAMENTE IL RISPETTO DEI DIRITTI UMANI; B. L’ACCORDO SUI PRINCIPI LIBERALI PER REGOLARE I RAPPORTI TRA STATI, ANCHE SE PLAUSIBILE, NECESSITA DI UNA PIÙ APPROFONDITA DESCRIZIONE.
Questa parte è tratta da DEL BÒ, Rawls e la teoria della giustizia internazionale, sito internet
INELUTTABILITÀ DELL’AFFERMAZIONE DELLA GIUSTIZIA PENALE INTERNAZIONALE?
La creazione, nel 1998 a Roma, di una Corte Penale Internazionale, capace di giudicare le più gravi violazioni dei diritti dell’uomo, ha dato luogo a numerose analisi e ai commenti più differenti:
• insufficiente per alcuni
• poco realista per altri
Sta di fatto che l’istituzione di una giurisdizione penale internazionale permanente a vocazione universale costituisce un evento senza precedenti nella storia dell’umanità
Infatti, le ripetute violenze contro l’uomo che hanno caratterizzato il XX secolo non hanno lasciato indifferenti i giuristi che si sono mobilitati ed ancora si mobilitano per mettere al bando i comportamenti che gravemente attentano alla dignità dell’uomo.
La generazione uscita dal secondo conflitto mondiale si è dovuta confrontare con una realtà devastante: i crimini contro l’umanità e la loro pianificazione.
L’orrore per le guerre più antiche è ben noto. Come non ricordare l’obiettivo dello sterminio del nemico o della sua riduzione in schiavitù. Se ne potevano immaginare anche le modalità atroci con cui si procedeva alla attuazione di quelle politiche.
L’ideale è quello del superamento delle guerre e dove ciò non fosse possibile favorire la progressiva creazione di un sistema di regole, universalmente accettate, così da ridurre gli effetti più gravi dei conflitti armati
Già nel corso del XIX secolo c’erano state una serie di Convenzioni contro la schiavitù, per la protezione dei popoli appartenenti a continenti più indifesi, per la difesa delle popolazioni civili nel tempo di guerra
Il XX secolo si era aperto con le Convenzioni dell’Aja per il rispetto dei prigionieri di guerra, dei feriti dei naufraghi, dei civili
Inoltre, era noto che, nel corso della prima guerra mondiale, le parti in conflitto erano ricorse a mezzi di guerra inumani come gli aggressivi chimici, a pallottole dilaceranti, a mezzi bellici dotati di una carica di aggressività destinata a rendere più terribile l’avanzata di uno dei contendenti; ma si confidava che queste materie fossero destinate a cadere sotto le previsioni internazionali e sotto l’effetto preventivo delle relative sanzioni.
Di genocidio, alla fine della 1ª guerra mondiale non si parlava. Sui 600.000 armeni che vivevano in Turchia era sceso il silenzio, come se l’amnistia implicita nel Trattato di Losanna del 1923 avesse cancellato con le conseguenze giuridiche anche la memoria
Solo con la seconda guerra mondiale, in Europa, si giunse a compiere atrocità inaudite. Le scoperte fatte nel 1945, superarono di gran lunga ogni immaginazione e, secondo alcuni, dettero la prova di quanto preveggente fosse l’atteggiamento delle parti vincitrici del conflitto quando avevano sancito la necessità di punire i colpevoli di quei disumani massacri.
Non neghiamo, però, di essere poco convinti dell’utilità dei Tribunali internazionali che si volle all’epoca costituire, come emerge dalle note critiche del manuale di “Diritto internazionale contemporaneo” di Antonio Cassese, promotore dei Tribunali ad hoc e della stessa Corte Penale Internazionale.
Per i giuristi in generale e per i penalisti in particolare, si ponevano notevoli questioni giuridiche legate a quelle minacce e a quegli accordi: da un lato, la comune, e quasi universalmente sentita, esigenza della punizione; dall’altro, la ricerca di un solido fondamento giuridico.
Questa esigenza trovava un precedente negli orientamenti seguiti alla fine del primo conflitto mondiale in cui l’esigenza di giustizia rispondeva ad una determinata volontà politica determinata a promuovere nell’opinione pubblica l’idea che i crimini non sarebbero rimasti impuniti.
La condanna giuridica appariva non solo come la riparazione delle sofferenze, delle distruzioni e delle umiliazioni, ma anche come la fase ultima della vittoria, sola forza di mobilitazione delle energie tese alla difesa degli interessi nazionali e della comunità internazionale
La violazione della neutralità belga e lussemburghese rese possibile e incontestabile il conflitto. Peraltro, la violazione della sovranità dei due Paesi operata dallo Stato maggiore militare tedesco si fondava sul pensiero tedesco dell’epoca secondo cui la forza crea il diritto, in applicazione del principio “Not kennt kein Gebot”
FRANCIA
In modo particolare, in Francia, una volta ristabilita la pace, si moltiplicano le reazioni politiche. Il Senato vota il 15 ottobre 1918 una risoluzione in cui si affermava il desiderio di condannare gli autori responsabili dei crimini. La giustizia doveva essere la prima condizione della pace.
All’Assemblea Generale, non sono mancate “esagerazioni”, come quella del deputato Delory, che esige un processo con il pretesto che “ne pas réclamer justice serait un crime contre la France, un crime contre l’humanité!”
Per tutte queste ragioni e per il favorevole contesto politico, l’art. 227 del Trattato di Versailles firmato dalle potenze alleate e dalla Germania il 28 giugno 1919 aveva consentito di guardare con fiducia al formarsi di un nuovo ordine penale internazionale, sufficientemente forte da stabilire regole giuridiche universali:
Tribunale
• le potenze alleate e associate mettono in stato d’accusa Guglielmo II di Hohenzollern, ex imperatore di Germania, per offesa suprema contro la morale internazionale e la sacra autorità dei Trattati
• sarà istituito un Tribunale speciale per giudicare l’accusato cui saranno assicurate le garanzie del diritto di difesa. Sarà composto di cinque giudici, nominati da ciascuna delle potenze vincitrici: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Giappone
● il Tribunale giudicherà in base ai principi più elevati della politica delle Nazioni con lo scopo di assicurare il rispetto degli obblighi solenni e degli impegni internazionali
1a g.m.
● le potenze alleate e associate avanzeranno al Governo dei Paesi Bassi un richiesta di consegna dell’ imputato al fine di sottoporlo a giudizio, così come sopra indicato
Il primo passo era compiuto, ma restava pur sempre un primo passo. La richiesta di cui sopra, avanzata il 16 gennaio 1920, motivava la domanda di estradizione sulla basa della cinica violazione della neutralità del Belgio e del Lussemburgo, il barbaro e impietoso trattamento degli ostaggi, le deportazioni di massa, ecc.
I Paesi Bassi rifiutarono però l’estradizione dell’Imperatore, così l’art. 227 del Trattato di Versailles non è mai stato applicato
Gli Alleati abbandonarono l’idea di una Corte internazionale per giudicare l’Imperatore, così come rinunciarono all’idea di giudicare 21.000 persone sospettate di essere criminali di guerra, lasciando alla Corte suprema tedesca con sede a Leipzig il compito di giudicare soltanto 21 ufficiali tedeschi.
I redattori del Trattato potevano sospettare lo sviluppo della questione non solo con riguardo all’affermarsi di un nuovo concetto, secondo cui gli autori dei crimini di guerra dovevano rispondere di fronte alla giustizia, ma anche riguardo all’universalità del pensiero che essa contiene.
L’insuccesso non ha impedito ai giuristi di proseguire attivamente i lavori in vista dell’elaborazione di un diritto penale specifico e la creazione di una organizzazione giurisdizionale sovranazionale in grado di giudicare a livello universale i responsabili dei più gravi delitti contro il diritto delle genti.
Animati da un pensiero universalista, confidando sulla norma giuridica, questi giuristi studiarono, nel 1926, i problemi relativi alla realizzazione di una Corte penale internazionale.
Nello specifico, l’Associazione internazionale di diritto penale (AIDP) propose alla Società delle Nazioni, nel 1927, la creazione di una “chambre criminelle” della Corte permanente di giustizia internazionale.
Se è vero che il citato art. 227 non ha trovato alcuna applicazione, nondimeno ha costituito una fonte importante per gli intensi lavori di riflessione dei giuristi che intesero impegnarsi in quella direzione (giuristi docenti a Bucarest, a Ginevra, a parigi, a Bruxelles: rispettivamente Vespasien Pella, Jean Graven, Henri Donnedieu de Vabres, Stefan Glaser).
In particolare Donnedieu de Vabres fu uno dei più attivi a studiare le grandi questioni relative alla competenza internazionale sotto tre aspetti: territoriale, personale e reale, affrontando la questione dell’applicazione da parte dei tribunali di uno Stato delle leggi penali di un altro Paese, nonché il regime di estradizione e l’effetto internazionale dei giudizi tesi alla repressione dei comportamenti contrari alle regole internazionali vigenti.
La sua può considerarsi una riflessione sulla (a nostro avviso solo presunta) universalità
del diritto di sottoporre a punizione i soggetti che risultino aver violato norme internazionali. L’accordo internazionale sulla ricerca, l’arresto e la sottoposizione a giudizio dei malfattori, così come la nozione di comunità internazionale in diritto penale costituirebbero dei limiti oggettivi alla sovranità dello Stato.
Secondo questo A., l’applicazione della legge penale straniera deve cessare di essere una mera questione di cortesia fra gli Stati per diventare una questione di diritto e di giustizia
Si tratta di superare e di rompere, sosteneva l’A., con secoli di tradizione giuridica secondo la quale l’azione repressiva emergerebbe tradizionalmente dagli accordi intervenuti tra Stati sovrani.
Del resto, la vecchia storia giuridica abbonda di esempi di aiuto giudiziario, in specie nel periodo medievale. I testi ritrovati, infatti, racchiudono convenzioni relative all’estradizione.
Basti pensare ai Trattati del 1174 tra Enrico II d’Inghilterra e Guglielmo di Scozia, del 1303 tra Edoardo III d’Inghilterra e Filippo il Bello, del 1376 tra il Conte di Savoia e Carlo V.
Come si è già detto, questi trattati rivelano chiaramente il pensiero politico dei sovrani dell’epoca teso a favorire gli scambi reciproci degli oppositori dell’una e dell’altra parte.
Il progetto di creazione di una giurisdizione penale internazionale, sorta nel contesto di una forte presa di coscienza del fatto internazionale, porta i giuristi alla convergenza dei rispettivi punti di vista quanto agli obiettivi da perseguire, ancorché si oppongano al soggetto della sua definizione.
L’evoluzione dei tempi ha fatto sì che una parte ritenesse preferibile che la giurisdizione emergesse da una corte autonoma creata da una convenzione internazionale, mentre altri preferivano la prospettiva di una camera (sezione) speciale creata in seno alla SdN
A questa prima difficoltà nata dall’opposizione dottrinale tra i sostenitori di una definizione di natura convenzionale ed altri favorevoli a trarre profitto da ciò che già esiste sul piano istituzionale, si aggiungono altre difficoltà emergenti dalla realtà politica ed ideologica del mondo.
Tra le due guerre, e in specie dopo l’eccezione costituita dai tribunali di Norimberga e di Tokyo, il diritto penale internazionale è sembrato dipendere, per larga parte del XX secolo, strettamente dalle relazioni politiche dei Paesi, anche per effetto della loro divisione in blocchi, fino a situarsi al punto d’incontro di due forze contraddittorie:
● da un lato, una reale presa di coscienza dell’esigenza di repressione dei delitti internazionalmente rilevanti, attesa la ormai acquisita idea nell’opinione pubblica di sanzionare gli autori di quei delitti, almeno di quelli più gravi
● dall’altro, il controllo esercitato dai dirigenti dei due blocchi sul rispetto delle loro concezioni ideologiche considerate come intangibili all’interno delle rispettive zone d’influenza. Non è ammissibile che una forza esterna rilevi e, se del caso, giudichi il modo in cui sono trattati gli oppositori.
La realtà politica risulta dal mondo bipolare quale emerso dagli accordi di Yalta che, come è noto, hanno lasciato alle due Superpotenze lo scenario internazionale, sia esso economico, diplomatico, militare e ideologico.
La loro politica, tuttavia, ha dovuto misurarsi con le velleità transfrontaliere delle popolazioni aspiranti sinceramente a un ordine penale internale teso a garantire la sicurezza, la pace e la fraternità tra i popoli.
Questa partizione ideologica è nondimeno servita ad evitare che tra i due blocchi insorgessero rischi di confronto diretto, anche se la rincorsa agli armamenti ha dato l’impressione di poterlo favorire. Ebbene, tutto ciò non ha impedito, nonostante il controllo sui propri alleati, che venissero costituiti dei tribunali militari internazionali.
La prima esigenza, cioè la necessità di processare e di punire nasceva da un interrogativo elementare: è possibile che vengano puniti i delitti ordinari, secondo gli schemi ordinari e comunemente accettati e praticati, e restino invece impuniti i delitti più gravi, più massicci, solo perché perpetrati per ordine di governanti o di comandanti, usando la guerra come occasione e pretesto e l’occupazione bellica come copertura?
Che valore ha più la giustizia ordinaria se si può orribilmente delinquere sperando, a seconda dei casi, nella vittoria o nell’amnistia?
Il penalista sentiva di non potersi chiudere nel recinto della giustizia nazionale
Il penalista si trovava, tuttavia, di fronte ad una serie di ostacoli. Anzitutto, trovava un diritto internazionale chiuso, se si escludono alcune eccezione, nella sua struttura e convinzione dommatica: un diritto del quale sono soggetti soltanto gli Stati, ai quali soltanto si dirigono gli imperativi, e a cui è ontologicamente estraneo ogni coinvolgimento diretto nella punizione degli individui
Un diritto che riconosce la validità degli accordi tra gli Stati per la punizione dei crimini di guerra, ma con la conseguenza che tale punizione sarà opera della giustizia militare degli occupanti, e che ai principi del diritto internazionale ci si potrà appellare solo in modo vago e indiretto, come a una somma di principi ispiratori rivolti al rispetto delle leggi dell’umanità, ma mai come a fonte dei precetti individuali e delle relative sanzioni
Altri ostacoli erano poi costituiti dall’immunità dei governanti, salva sempre la possibilità di leggi retroattive interne, aventi per ciò stesso carattere rivoluzionario e dunque giuridicamente dubbio. Fra gli altri ostacoli, si ricorda il principio, comune ai diritti penali nazionali della insindacabilità dell’ordine del superiore.
In Italia, il primo penalista a liberarsi di tali vincoli fu Pietro Nuvolone, per il quale i crimini di guerra dovevano farsi rientrare in un genus commune denominato “delitti di lesa umanità”.
La tesi sostenuta era, al tempo stesso, innovativa e azzardata, posto che, per questo A. se diritto interno e internazionale potevano bastare ad inquadrare nella propria cornice i crimini di guerra stricto sensu, ciò non poteva dirsi per i crimini di lesa umanità che, come tali, trovavano fondamento in un diritto diverso da quello interno e internazionale, ovvero “nel diritto della comunità universale degli uomini, o diritto umano”.
A quell’epoca, la scoperta dei crimini nazisti era dominante. Due erano gli elementi fondamentali, attinenti il primo agli scopi della pena e il secondo all’esigenza di una giustizia eguale per tutti
Tra gli scopi della pena dominava, seppure accanto all’idea di una giusta retribuzione, quello della prevenzione generale: cioè che processi si dovessero fare e pene fossero comminate perché orrori di quel tipo non dovessero ripetersi in futuro. Inoltre, tutti auspicavano che nel futuro non ci fossero tribunali di vincitori a giudicare i crimini di guerra e contro l’umanità, ma corti neutrali e imparziali, espressione, attraverso la comunità degli Stati, dell’umanità offesa.
La punizione del genocidio è entrata non senza clamore sulla scena delle convenzioni e degli impegni internazionali così come nelle leggi nazionali, sin dal 1948. Tre anni prima erano stati codificati attraverso gli Statuti dei tribunali militari di Norimberga e di Tokyo i crimini contro la pace, i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità; e molte persone avevano pagato il fio, in Europa come in Asia.
Nei decenni successivi si sino susseguiti altri strumenti internazionali, con l’elaborazione di fattispecie di diritto penale sostanziale, con l’obbligo di punire assunto dagli Stati, con l’assistenza giudiziaria internazionale. Nondimeno, sotto il pretesto delle guerre, i crimini internazionali sono continuati
I TRIBUNALI MILITARI INTERNAZIONALI
● Tribunale di NORIMBERGA
●● Tribunale di Tokyo
La premessa logica dell’istituzione dei tribunali militari internazionali sta nella rivelazione fatta all’opinione pubblica dell’ampiezza dei crimini della seconda guerra mondiale, in particolare lo choc del genocidio degli ebrei, la brutalità dell’aggressione giapponese contro la Cina e contro gli Stati Uniti.
La notte di cristallo del novembre 1938 diede in Germania il segnale d’allarme delle spettacolari capacità distruttive e di umiliazione dell’ideologia razziale. Eppure era troppo presto per immaginare che questa manifestazione potesse evolvere verso forme di sterminio elevato a organizzazione industriale.
È del 20 gennaio 1942 la conferenza dei segretari di Stato riunitisi a Wannsee in cui si decise di procedere alla soluzione finale
Venne creata una terrificante burocrazia i cui componenti dovevano agire in modo impersonale e intercambiabile facendo della Germania nazista una gigantesca organizzazione amministrativa e criminale consacrata alla eliminazione degli ebrei in Europa.
A seguito delle notizie e dei fatti terribili che hanno caratterizzato quel sistema si decise la costituzione del tribunale militare di Norimberga, ritenuto indispensabile dagli Alleati per sanzionare i comportamenti tesi allo sterminio di un intero popolo.
Analoga richiesta venne formulata con riferimento ai gravi fatti verificatisi in Estremo Oriente ad opera del Giappone successivamente alla capitolazione del Giappone il 19 gennaio 1946.
IL TRIBUNALE MILITARE DI NORIMBERGA
Il Tribunale militare internazionale non è costituito spontaneamente né immediatamente alla fine della seconda guerra mondiale. Infatti, durante tutto il conflitto gli Alleati si sono chiesti più volte su quale sarebbe stato il trattamento più giusto da riservare ai responsabili nazisti dopo il conflitto. L’idea di sottoporre a giudizio gli atti dei capi nazisti non aveva avuto l’immediato sopravvento. Tuttavia, alle Conferenze di Mosca e di Theran nel 1943, di Yalta e Postdam nel 1945, le tre grandi Potenze (USA, GB e URSS) si accordarono perché fossero giudicati e puniti i responsabili dei crimini di guerra.
Il Tribunale militare internazionale venne istituito con gli Accordi di Londra dell’8 agosto 1945 firmati dalle quattro grandi Potenze dell’epoca, atteso che alle originarie tre si era aggiunta, nel frattempo, la Francia.
Confronto
Se la Carta di Londra viene comparata agli statuti degli attuali Tribunale ad hoc, si capisce quanto fosse sommaria. Tuttavia, se la si compara con l’art. 227 del Trattato di Versailles, se ne evidenzia un quadro dettagliato prima inesistente.
Tribunale di
Norimberga
Il Tribunale si componeva di quattro membri. Ciascun Paese alleato invia un titolare e un sostituto con l’incarico di assicurare un processo rapido e giusto nei confronti dei principali criminali della guerra nazista
I giudici non sono ricusabili. Ciascun membro firmatario del Accordi, può sostituire un giudice o un suo sostituto in caso di malattia. Le decisioni sono assunte a maggioranza e, in caso di parità di voti, determinante risulta il voto del presidente
competenza
La carta stabilisce la competenza materiale del tribunale, chiamato a pronunciarsi su
● crimini contro la pace
●● crimini di guerra
●●● crimini contro l’umanità
Crimini contro la paceI crimini contro la pace sono caratterizzati da tre fattori:
● dichiarazione, preparazione, scatenare o proseguimento di una guerra di aggressione
●● guerra in violazione dei trattati, della sicurezza o degli accordi internazionali
●●● partecipazione a un piano concertato o a un complotto per il compimento di uno qualsiasi dei casi suddetti
Crimini di guerraI crimini di guerra sono costituiti dalla violazione delle leggi e delle consuetudini di guerra
Queste violazioni inglobano anche
● l’assassinio
●● il trattamento malvagio e la deportazione ai lavori forzati delle popolazioni civili nei territori occupati
●●● l’assassinio o il trattamento disumano dei prigionieri di guerra o delle persone in mare;
●●●● distruzione senza motivo di paesi e villaggi o la devastazione non giustificata da esigenze militari
Crimini contro l’umanitàI crimini contro l’umanità sono:
► l’assassinio, lo sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione e altri atti inumani compiuti prima o durante la guerra
►► le persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi, allorché questi atti o persecuzioni, abbiano o meno costituito una violazione del diritto interno dei paesi in cui sono stati perpetrati, siano stati nondimeno compiuti in conseguenza dei crimini rientranti nella competenza del Tribunale, ovvero siano riconducibili a questo crimine
Tracciando la via della responsabilità penale dei capi in quanto tali, la carta precisa che i dirigenti, gli organizzatori, i provocatori o semplicemente i complici che hanno preso parte all’elaborazione o all’esecuzione di un piano concertato ovvero di un complotto per commettere uno qualsiasi dei crimini prima delineati sono responsabili di tutti gli atti compiuti dalle persone in esecuzione del suddetto piano.
L’art. 7 insiste ed esclude formalmente che l’essere (stato) capo di Stato o aver assunto responsabilità a livello governativo possa essere invocato quale causa escludente o elemento attenuativo delle sanzioni.
Inoltre, l’art. 8 dispone che il fatto di avere agito su ordine di un superiore non possa in alcun caso evitare ad un accusato le sue responsabilità, al più può attenuare le pene in cui è incorso.
Art. 8
Un’altra innovazione della carta è di permettere al tribunale di dichiarare la natura criminale di un’organizzazione
La procedura può essere mossa contro un accusato contumace mostrando la presenza di elementi di diritto non anglo-americani nello svolgimento del processo.
Art. 16 carta
La carta pose il principio secondo cui i criminali di guerra avrebbero dovuto beneficare di un processo leale, esigendo che al momento dell’imputazione l’accusa esponesse il dettaglio dei carichi pendenti contro l’accusato in una lingua che egli potesse comprendere e in tempi ragionevoli, prevedendo il diritto di difesa e, dunque, far sì che il difensore potesse presentare le sue argomentazioni a discarico, concedendogli la possibilità di essere assistito da un collegio, autorizzandolo a presentare prove a discarico così come a controinterrogare gli eventuali testimoni dell’accusa.
Elemento Tipico del Diritto anglosassone
L’art. 19 precisa che il tribunale non è legato alle regole tecnico amministrative della prova, riservandosi di ammettere ogni elemento che sembri avere valore di prova
La carta non prevede, propriamente parlando, il diritto d’appello contro le decisioni rese dal tribunale
Secondo quanto previsto dal Consiglio di controllo per la Germania c’è la possibilità di ridurre o modificare le sanzioni ma anche di aggravarle, il che evidenzia l’influenza esercitata dalla politica sulla suddetta giurisdizione privando di fatto i condannati circa le verità del ricorso.
Le pene comminate sono quelle di morte o le altre pene che il tribunale stima essere giuste e appropriate
Il tribunale militare ha sede nel palazzo di giustizia di Norimberga perché sorge su un’area di 22.000 m², dispone di 530 uffici, 80 sale d’udienza, la guerra non l’ha troppo danneggiato, è disponibile anche una grande prigione
Con si sovietici si giunse ad un compromesso affinché il processo potesse svolgersi a Norimberga. Infatti, inizialmente, essi volevano che il processo avesse luogo a Berlino. L’art. 22 della carta disponeva, infatti, che Berlino fosse sede permanente del tribunale e Norimberga il luogo del processo.
L’udienza iniziale, presieduta dal sovietico Nikitchenko, deposto l’atto di accusa contro i 24 principali criminali nazisti e le sei organizzazioni criminali (Partito Nazional Socialista, SS, SA, il Governo del Reich, lo Stato Maggiore, Gestapo ed i Servizi di sicurezza) ebbe luogo il 18 ottobre 1945 presso la Corte Suprema di Berlino (sede del Consiglio di controllo alleato).
Il processo dura dal 20 novembre 1945 al 1 ottobre 1946 sotto la presidenza del giudice britannico Geoffry Lawrence. Nei 218 giorni di udienze, il tribunale ascolta 360 testimoni, prende visione e atto di 200.000 attestazioni scritte (affidavits), sia direttamente innanzi il collegio, sia per il tramite dei giudici delegati forniti di speciali mandati.
Gli accusati, che devono rispondere di
► congiura contro la pace
►►guerra d’aggressione
►►►violazione delle leggi e delle consuetudini di guerra
►►►►crimini contro l’umanità
si dichiarano non colpevoli
I verdetti sono di
● 12 condanne a morte
●● 9 ergastoli o condanne al carcere
●●● 3 proscioglimenti o accuse non portate a termine
Martin Borman (1900-1946), stretto collaboratore di Hitler, scompare alla fine della guerra ed è stato condannato a morte in contumacia per crimini contro l’umanità
Karl Dönitz (1891-1980), grande ammiraglio in capo, fu condannato a 10 anni di carcere per guerra d’aggressione, violazione delle leggi e consuetudini di guerra. Scontata la pena, venne liberato nel 1956.
Wilhelm Frck (1877-1946), Ministro dell’Interno del Terzo Rich, viene condannato a morte per guerra d’aggressione, violazione delle leggi e delle consuetudini di guerra e per crimini contro l’umanità.
GIUSTIZIA INTERNAZIONALE
IL PROBLEMA DELLA GIUSTIZIA INTERNAZIONALE NEL PENSIERO DI RAWLS
Rawls ha tentato, nel suo Law of PeoplesA Theory of Justice (Una teoria della giustizia), di costruire una teoria della giustizia internazionale e dei rapporti tra Stati attraverso l’estensione a questo ambito delle idee liberali di giustizia utilizzate in A Theory of Justice per la definizione di una concezione della giustizia valida per la struttura fondamentale della società considerata come sistema chiuso isolata dalle altre.
Egli tenta di definire e fondare su basi non utilitaristiche un equo sistema di cooperazione sociale (giustizia come equità), individuando i principi che debbono governare la distribuzione degli oneri e dei benefici di questa cooperazione. Oggetto dell’analisi di Rawls è la società considerata come sistema chiuso isolato dalle altre società.
Il quadro di riferimento è contrattualista, anche se contaminato con gli strumenti della teoria contemporanea della scelta razionale.
Secondo Rawls:
● “i principi di giustizia per la struttura fondamentale della società […] sono oggetto dell’accordo originario”
E sono quelli che
● “persone libere e razionali, preoccupate di perseguire i propri interessi, accetterebbero in una posizione iniziale di eguaglianza per definire i termini fondamentali della loro associazione”
Spetta a questi principi il compito di regolare tutti gli accordi successivi e di specificare i tipi di cooperazione sociale che possono essere realizzate nonché le forme di governo che possono essere istituite
Diversamente dal contrattualismo classico, Rawls non concepisce questo accordo originario come un fatto storico effettivamente accaduto, ma lo colloca, piuttosto, in una dimensione atemporale, definibile come posizione originaria
La posizione originaria è un esperimento mentale, una situazione ipotetica, raggiungibile in qualsiasi momento, mediante cui diventa possibile individuare gli equi termini della cooperazione sociale
«Porsi in posizione originaria significa spogliarsi delle posizioni particolari che potrebbero alterare la scelta dei principi o, per dirla con RAWLS, “nessuno conosce il suo posto nella società, la sua posizione o il suo status sociale,…, la sua intelligenza… ”,né conosce le proprie concezioni del bene e delle proprie particolari condizioni psicologiche. Questa condizione corrisponde al c.d. “velo d’ignoranza” ed è di per sé equa, dal momento che le restrizioni sulle informazioni impediscono che qualcuno invochi certi principi invece di altri con lo scopo di sfruttare vantaggi contingenti e moralmente arbitrari »
Solo nella posizione originaria le parti sono eguali. I conseguenti principi di giustizia che solo intuitivamente riteniamo accettabili. Dunque, non è la posizione originaria a fondare questi specifici principi di giustizia, in quanto essa è congegnata per riflettere l’idea che le persone sono moralmente eguali e non per giustificarla
A questo proposito, scrive KYMLICKA che “la posizione originaria è uno strumento per conferire rilievo ed efficacia alle nostre intuizioni”, così come un tempo “l’invocazione dello stato di natura serviva a rendere vivida l’dea di eguaglianza naturale”: Introduzione alla filosofia politica contemporanea, Milano, 1996, p. 35
Rawls afferma che una teoria della giustizia può sorgere a partire da una posizione originaria nella quale le parti non sono più le persone singole ma i rappresentanti delle Nazioni. Per il resto, le caratteristiche della posizione originaria non mutano: le parti sono razionali e sono soggette al velo di ignoranza.
Le parti “non sanno nulla riguardo alle … circostanze della propria società, alla sua potenza e forza paragonata a quella delle altre nazioni, e non sanno … qual è la loro posizione all’interno della propria società”
Questa posizione originaria è equa riguardo alle Nazioni, in quanto annulla le contingenze ed i pregiudizi del destino storico
Principio di eguaglianza
Premesso che le parti arriverebbero a riconoscere un principio di eguaglianza in base al quale “popoli indipendenti, organizzati in stati possiedono certi eguali diritti fondamentali”(autodeterminazione, autodifesa)
Interesse nazionale
Dunque, “l’interesse nazionale di uno Stato giusto è definito dai principi di giustizia che sono già stati riconosciuti”. Una simile nazione punta a conservare le sue giuste istituzioni e le condizioni che le rendono possibili
Una simile Nazione non è mossa dal desiderio di potenza o di gloria nazionale, né muove guerra per motivi di vantaggio economico o di allargamento territoriale
“Il diritto dei popoli” può essere fatto derivare dalle idee liberali del concetto di giustizia. Le idee vengono rapportate alla concezione politica liberale della giustizia
L’’espressione “diritto dei popoli” indica “quella concezione del diritto della giustizia che informa i principi e le norme di diritto internazionale, nonché le sue concrete applicazioni”
“la denominazione diritto dei popoli deriva dallo ius gentium della tradizione ed è particolarmente affine all’accezione che lo ius gentium assume nell’espressione ”ius gentium intra se” (diritto dei popoli e delle relazioni reciproche)”.
popolo
Il termine “popolo” indica le persone ed i beni da queste posseduti, “intesi come entità giuridica e organizzati dalle istituzioni politiche loro proprie, le quali determinano i poteri spettanti ai governi. Nelle società democratiche,…, queste persone saranno liberi cittadini, mentre nelle società gerarchiche e di altro genere esse saranno semplici membri della società”[pp. 236-237].
Diritto dei popoli
Concezione del diritto e della giustizia che informa i principi e le norme del diritto internazionale, nonché le sue concrete applicazioni
L’applicazione di una concezione politica liberale della società avviene mediante l’utilizzo della posizione originaria a un livello più elevato, nel senso che le parti sono rappresentative di popoli le cui istituzioni fondamentali soddisfano i principi di giustizia selezionati al primo livello.
Posizione originaria RAWLS
Se le società fossero tutte liberali e democratiche non sarebbe problematica la loro convergenza su principi quali
● il rispetto degli altri popoli,
● il diritto all’autodeterminazione
● il diritto all’autodifesa,
● il diritto all’osservanza degli accordi, ecc.
I problemi sorgono perché non tutte le società sono liberali
COME ESTENDERE IL DIRITTO DEI POPOLI ALLE SOCIETÀ CHE LIBERALI NON SONO?
Per poter rispondere, occorre anzitutto precisare che la teoria di Rawls si applica solo alle società bene-ordinate (liberali o meno che siano), ovvero a società che soddisfano determinati requisiti. Queste società devono anzitutto
● Essere pacifiche
● Dotate di un complesso di leggi tale per cui vengono imposti doveri e obblighi morali a chi vive nel suo territorio, viene perseguito il bene comune, i funzionari sono convinti che le leggi siano effettivamente orientate al bene comune ed esiste una ragionevole gerarchia consultiva
● Garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali, ovvero il diritto alla vita, alla libertà di coscienza e di associazione, alla proprietà, all’eguaglianza formale, all’emigrazione.
SOCIETÀ BENE ORDINATE
Una società gerarchica, SEBBENE NON RICONOSCA FORME DI EGUAGLIANZA FRA I SUOI MEMBRI, può COMUNQUE ESSERE BENE-ORDINATA. Se così fosse accadrebbe, secondo Rawls, che in posizione originaria anche questa società accetterebbe gli stessi principi di giustizia internazionale che accetterebbe una società liberale. D’altronde, anche in una società gerarchica “ le parti hanno a cuore il bene comune della società che esse rappresentano…”. Tutto questo, secondo Rawls, suggerisce l’accettazione della posizione originaria come condizione equa, nel senso che stabilisce termini equi per la cooperazione tra le varie società.
Tuttavia, può sembrare contraddittorio partire “dal presupposto che le parti, in quanto rappresentative dei popoli, debbano essere situate in posizioni di eguaglianza, benché la concezione della giustizia delle società gerarchiche da esse rappresentate consenta l’esistenza di ineguaglianza di fondo tra i loro membri”.
In realtà, osserva Rawls
Quantunque “una società sia priva di un’eguaglianza di base, non è irragionevole che essa insista sull’eguaglianza quando avanza le proprie pretese nei confronti di altre società ”
In un siffatto contesto, come si pone il problema della salvaguardia dei diritti umani?
RAWLS
Questi diritti non dipendono da nessuna dottrina morale generale né da qualche concezione filosofica della natura umana, ma “sono espressione di uno standard minimo di istituzioni politiche bene ordinate per tutti i popoli che appartengono, in qualità di membri a buon diritto, a una giusta società politica dei popoli”
RAWLS
Questi diritti sono politicamente neutrali, nel senso che non sono tipici di una particolare tradizione etico politica, quale quella liberale e occidentale
Infatti, i diritti umani sono parte integrante di un ragionevole diritto dei popoli e impongono dei limiti alle istituzioni interne di una società secondo le richieste avanzate con quello stesso diritto da tutti i popoli delimitando dall’esterno quelle che sono le leggi ammissibili all’interno di una determinata società che sia membro di una giusta società dei popoli
Essi si distinguono dai diritti costituzionali e dai diritti democratici di cittadinanza, propri di specifiche istituzioni politiche.
i diritti umani
● sono condizione necessaria per la legittimità di un regime e per l’accettabilità dei suo ordinamento politico
●● la loro vigenza è sufficiente a escludere un’interferenza energica quanto giustificata di altri popoli
●●● pongono in limite al pluralismo tra i popoli
Come devono comportarsi le società che rispettano il diritto dei popoli con quelle che non lo riconoscono?
Rawls Al più si può stabilire un modus vivendi finalizzato all’autotutela. Al limite può risultare giustificabile la guerra contro questi regimi, a condizione che essa sia necessaria alla difesa dei popoli bene ordinati. Un altro caso lecito di interventi armati si ha qualora ci sia una grave violazione dei diritti umani. Si trattarebbe di un intervento di emergenza e non sostitutivo dei normali canali diplomatici o di politica estera
Il tentativo di costruire un diritto dei popoli a partire da una concezione liberale della giustizia ha il pregio non solo di colmare una lacuna della teoria della giustizia di Rawls, ma pone la teoria in questione di fronte al problema del multiculturalismo.
In Law of Peoples Nondimeno restano insuperate tre difficoltà:
Due riguardano il ruolo dei diritti umani all’interno del diritto dei popoli
Una coinvolge la procedura di costruzione della posizione originaria
a. Il diritto dei popoli stabilisce i termini di un’equa cooperazione tra le nazioni. La difficoltà emerge dall’accordo tra le nazioni stesse poste in posizione di eguaglianza come può essere la posizione originaria . Questa procedura, nella prospettiva di Rawls, è sufficiente a garantire l’equità del diritto.
Dunque, l’equità dell’esito (il diritto dei popoli) discende dall’equità della procedura (la posizione originaria).
Pertanto, il requisito minimo del rispetto dei diritti umani non è necessario per generare un equo diritto dei popoli (per questo basta l’eguaglianza tra le nazioni), né si capisce perché dovrebbe far parte del contenuto di questo diritto, posto che, a questo livello, i popoli sono preoccupati di garantire i termini della loro cooperazione e non quelli dei rapporti tra Stato e cittadini o dei cittadini tra di loro.
I diritti umani entrano in gioco a un secondo livello che concerne la questione se sia moralmente accettabile un diritto dei popoli che non si curi del rispetto dei diritti umani e se sia moralmente giusto che i regimi dittatoriali e totalitari possano far parte della società delle nazioni che da questo diritto è governata. Rawls risponde negativamente senza però avanzare delle argomentazioni al riguardo.
b. Il diritto dei popoli, seppur derivato da premesse liberali, può essere accettato anche da società che liberali non sono e, dunque, può non essere considerato etnocentrico (semmai, si tratta di verificare se è ideologicamente neutrale questa ricostruzione della posizione originaria). Ciò è vero anche per i diritti umani? Ovvero, i diritti umani sono politicamente neutri?
La risposta affermativa di Rawls è una nobile petizione di principio, che lascia impregiudicata la questione filosofica del perché il diritto alla vita, il diritto alla proprietà ecc. dovrebbero essere universali e non invece stnocentrici, tipici, cioè della tradizione etico-politica occidentale
Universalizzare dei principi morali (ed i diritti umani operano a livello morale) è un’impersa molto ardua: ad es. può essere più o meno agevole accettare che le condanne a morte siano azioni brutali per il nostro sistema di valori: teoreticamente più impegnativo è invece affermare che siano azioni tout court “barbare”. D’altronde, se ci scandalizziamo del fatto che gli Stati Uniti vi facciano ricorso, ciò dipende dal fatto che consideriamo quel Paese come appartenente alla nostra medesima tradizione liberaldemocratica e che, pertanto, non dovrebbe mai violare la vita umana. Mantre altrettanto scandalo non mettiamo quando alla condanna a morte ricorre l’Afghanistan piuttosto che l’Iran, ecc.
c. Si tratta di determinare chi le parti rappresentino in posizione originaria al momento di definire i termini equi della cooperazione internazionale. Infatti, “popoli”e“nazioni”, di cui parla Rawls, non sono di immediata individuazione (anche perché privi di confini fisici definiti), come invece accade per le persone che si ritrovano in posizione originaria a decidere i principi di giustizia per la loro società.
Chi e su quali basi deve essere considerato nazione e partecipare al processo decisionale? Una via potrebbe essere quella di considerare solo le nazioni che si sono costitute in Stato, ma così facendo si escluderebbero tutte quelle realtà cui contingenze particolari hanno impedito di raggiungere quel risultato
Sotto questo profilo è del tutto corretto che Rawls scarti questa soluzione, meno convincente è il fatto che egli non ne fornisca un’alternativa, sicché nella sua costruzione teoretica della giustizia internazionale, rimane irrisolta la questione di come individuare un popolo.
CONCLUSIVAMENTE: A. UN EQUO DIRITTO DEI POPOLI NON IMPLICA NECESSARIAMENTE IL RISPETTO DEI DIRITTI UMANI; B. L’ACCORDO SUI PRINCIPI LIBERALI PER REGOLARE I RAPPORTI TRA STATI, ANCHE SE PLAUSIBILE, NECESSITA DI UNA PIÙ APPROFONDITA DESCRIZIONE.
Questa parte è tratta da DEL BÒ, Rawls e la teoria della giustizia internazionale, sito internet
INELUTTABILITÀ DELL’AFFERMAZIONE DELLA GIUSTIZIA PENALE INTERNAZIONALE?
La creazione, nel 1998 a Roma, di una Corte Penale Internazionale, capace di giudicare le più gravi violazioni dei diritti dell’uomo, ha dato luogo a numerose analisi e ai commenti più differenti:
• insufficiente per alcuni
• poco realista per altri
Sta di fatto che l’istituzione di una giurisdizione penale internazionale permanente a vocazione universale costituisce un evento senza precedenti nella storia dell’umanità
Infatti, le ripetute violenze contro l’uomo che hanno caratterizzato il XX secolo non hanno lasciato indifferenti i giuristi che si sono mobilitati ed ancora si mobilitano per mettere al bando i comportamenti che gravemente attentano alla dignità dell’uomo.
La generazione uscita dal secondo conflitto mondiale si è dovuta confrontare con una realtà devastante: i crimini contro l’umanità e la loro pianificazione.
L’orrore per le guerre più antiche è ben noto. Come non ricordare l’obiettivo dello sterminio del nemico o della sua riduzione in schiavitù. Se ne potevano immaginare anche le modalità atroci con cui si procedeva alla attuazione di quelle politiche.
L’ideale è quello del superamento delle guerre e dove ciò non fosse possibile favorire la progressiva creazione di un sistema di regole, universalmente accettate, così da ridurre gli effetti più gravi dei conflitti armati
Già nel corso del XIX secolo c’erano state una serie di Convenzioni contro la schiavitù, per la protezione dei popoli appartenenti a continenti più indifesi, per la difesa delle popolazioni civili nel tempo di guerra
Il XX secolo si era aperto con le Convenzioni dell’Aja per il rispetto dei prigionieri di guerra, dei feriti dei naufraghi, dei civili
Inoltre, era noto che, nel corso della prima guerra mondiale, le parti in conflitto erano ricorse a mezzi di guerra inumani come gli aggressivi chimici, a pallottole dilaceranti, a mezzi bellici dotati di una carica di aggressività destinata a rendere più terribile l’avanzata di uno dei contendenti; ma si confidava che queste materie fossero destinate a cadere sotto le previsioni internazionali e sotto l’effetto preventivo delle relative sanzioni.
Di genocidio, alla fine della 1ª guerra mondiale non si parlava. Sui 600.000 armeni che vivevano in Turchia era sceso il silenzio, come se l’amnistia implicita nel Trattato di Losanna del 1923 avesse cancellato con le conseguenze giuridiche anche la memoria
Solo con la seconda guerra mondiale, in Europa, si giunse a compiere atrocità inaudite. Le scoperte fatte nel 1945, superarono di gran lunga ogni immaginazione e, secondo alcuni, dettero la prova di quanto preveggente fosse l’atteggiamento delle parti vincitrici del conflitto quando avevano sancito la necessità di punire i colpevoli di quei disumani massacri.
Non neghiamo, però, di essere poco convinti dell’utilità dei Tribunali internazionali che si volle all’epoca costituire, come emerge dalle note critiche del manuale di “Diritto internazionale contemporaneo” di Antonio Cassese, promotore dei Tribunali ad hoc e della stessa Corte Penale Internazionale.
Per i giuristi in generale e per i penalisti in particolare, si ponevano notevoli questioni giuridiche legate a quelle minacce e a quegli accordi: da un lato, la comune, e quasi universalmente sentita, esigenza della punizione; dall’altro, la ricerca di un solido fondamento giuridico.
Questa esigenza trovava un precedente negli orientamenti seguiti alla fine del primo conflitto mondiale in cui l’esigenza di giustizia rispondeva ad una determinata volontà politica determinata a promuovere nell’opinione pubblica l’idea che i crimini non sarebbero rimasti impuniti.
La condanna giuridica appariva non solo come la riparazione delle sofferenze, delle distruzioni e delle umiliazioni, ma anche come la fase ultima della vittoria, sola forza di mobilitazione delle energie tese alla difesa degli interessi nazionali e della comunità internazionale
La violazione della neutralità belga e lussemburghese rese possibile e incontestabile il conflitto. Peraltro, la violazione della sovranità dei due Paesi operata dallo Stato maggiore militare tedesco si fondava sul pensiero tedesco dell’epoca secondo cui la forza crea il diritto, in applicazione del principio “Not kennt kein Gebot”
FRANCIA
In modo particolare, in Francia, una volta ristabilita la pace, si moltiplicano le reazioni politiche. Il Senato vota il 15 ottobre 1918 una risoluzione in cui si affermava il desiderio di condannare gli autori responsabili dei crimini. La giustizia doveva essere la prima condizione della pace.
All’Assemblea Generale, non sono mancate “esagerazioni”, come quella del deputato Delory, che esige un processo con il pretesto che “ne pas réclamer justice serait un crime contre la France, un crime contre l’humanité!”
Per tutte queste ragioni e per il favorevole contesto politico, l’art. 227 del Trattato di Versailles firmato dalle potenze alleate e dalla Germania il 28 giugno 1919 aveva consentito di guardare con fiducia al formarsi di un nuovo ordine penale internazionale, sufficientemente forte da stabilire regole giuridiche universali:
Tribunale
• le potenze alleate e associate mettono in stato d’accusa Guglielmo II di Hohenzollern, ex imperatore di Germania, per offesa suprema contro la morale internazionale e la sacra autorità dei Trattati
• sarà istituito un Tribunale speciale per giudicare l’accusato cui saranno assicurate le garanzie del diritto di difesa. Sarà composto di cinque giudici, nominati da ciascuna delle potenze vincitrici: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Giappone
● il Tribunale giudicherà in base ai principi più elevati della politica delle Nazioni con lo scopo di assicurare il rispetto degli obblighi solenni e degli impegni internazionali
1a g.m.
● le potenze alleate e associate avanzeranno al Governo dei Paesi Bassi un richiesta di consegna dell’ imputato al fine di sottoporlo a giudizio, così come sopra indicato
Il primo passo era compiuto, ma restava pur sempre un primo passo. La richiesta di cui sopra, avanzata il 16 gennaio 1920, motivava la domanda di estradizione sulla basa della cinica violazione della neutralità del Belgio e del Lussemburgo, il barbaro e impietoso trattamento degli ostaggi, le deportazioni di massa, ecc.
I Paesi Bassi rifiutarono però l’estradizione dell’Imperatore, così l’art. 227 del Trattato di Versailles non è mai stato applicato
Gli Alleati abbandonarono l’idea di una Corte internazionale per giudicare l’Imperatore, così come rinunciarono all’idea di giudicare 21.000 persone sospettate di essere criminali di guerra, lasciando alla Corte suprema tedesca con sede a Leipzig il compito di giudicare soltanto 21 ufficiali tedeschi.
I redattori del Trattato potevano sospettare lo sviluppo della questione non solo con riguardo all’affermarsi di un nuovo concetto, secondo cui gli autori dei crimini di guerra dovevano rispondere di fronte alla giustizia, ma anche riguardo all’universalità del pensiero che essa contiene.
L’insuccesso non ha impedito ai giuristi di proseguire attivamente i lavori in vista dell’elaborazione di un diritto penale specifico e la creazione di una organizzazione giurisdizionale sovranazionale in grado di giudicare a livello universale i responsabili dei più gravi delitti contro il diritto delle genti.
Animati da un pensiero universalista, confidando sulla norma giuridica, questi giuristi studiarono, nel 1926, i problemi relativi alla realizzazione di una Corte penale internazionale.
Nello specifico, l’Associazione internazionale di diritto penale (AIDP) propose alla Società delle Nazioni, nel 1927, la creazione di una “chambre criminelle” della Corte permanente di giustizia internazionale.
Se è vero che il citato art. 227 non ha trovato alcuna applicazione, nondimeno ha costituito una fonte importante per gli intensi lavori di riflessione dei giuristi che intesero impegnarsi in quella direzione (giuristi docenti a Bucarest, a Ginevra, a parigi, a Bruxelles: rispettivamente Vespasien Pella, Jean Graven, Henri Donnedieu de Vabres, Stefan Glaser).
In particolare Donnedieu de Vabres fu uno dei più attivi a studiare le grandi questioni relative alla competenza internazionale sotto tre aspetti: territoriale, personale e reale, affrontando la questione dell’applicazione da parte dei tribunali di uno Stato delle leggi penali di un altro Paese, nonché il regime di estradizione e l’effetto internazionale dei giudizi tesi alla repressione dei comportamenti contrari alle regole internazionali vigenti.
La sua può considerarsi una riflessione sulla (a nostro avviso solo presunta) universalità
del diritto di sottoporre a punizione i soggetti che risultino aver violato norme internazionali. L’accordo internazionale sulla ricerca, l’arresto e la sottoposizione a giudizio dei malfattori, così come la nozione di comunità internazionale in diritto penale costituirebbero dei limiti oggettivi alla sovranità dello Stato.
Secondo questo A., l’applicazione della legge penale straniera deve cessare di essere una mera questione di cortesia fra gli Stati per diventare una questione di diritto e di giustizia
Si tratta di superare e di rompere, sosteneva l’A., con secoli di tradizione giuridica secondo la quale l’azione repressiva emergerebbe tradizionalmente dagli accordi intervenuti tra Stati sovrani.
Del resto, la vecchia storia giuridica abbonda di esempi di aiuto giudiziario, in specie nel periodo medievale. I testi ritrovati, infatti, racchiudono convenzioni relative all’estradizione.
Basti pensare ai Trattati del 1174 tra Enrico II d’Inghilterra e Guglielmo di Scozia, del 1303 tra Edoardo III d’Inghilterra e Filippo il Bello, del 1376 tra il Conte di Savoia e Carlo V.
Come si è già detto, questi trattati rivelano chiaramente il pensiero politico dei sovrani dell’epoca teso a favorire gli scambi reciproci degli oppositori dell’una e dell’altra parte.
Il progetto di creazione di una giurisdizione penale internazionale, sorta nel contesto di una forte presa di coscienza del fatto internazionale, porta i giuristi alla convergenza dei rispettivi punti di vista quanto agli obiettivi da perseguire, ancorché si oppongano al soggetto della sua definizione.
L’evoluzione dei tempi ha fatto sì che una parte ritenesse preferibile che la giurisdizione emergesse da una corte autonoma creata da una convenzione internazionale, mentre altri preferivano la prospettiva di una camera (sezione) speciale creata in seno alla SdN
A questa prima difficoltà nata dall’opposizione dottrinale tra i sostenitori di una definizione di natura convenzionale ed altri favorevoli a trarre profitto da ciò che già esiste sul piano istituzionale, si aggiungono altre difficoltà emergenti dalla realtà politica ed ideologica del mondo.
Tra le due guerre, e in specie dopo l’eccezione costituita dai tribunali di Norimberga e di Tokyo, il diritto penale internazionale è sembrato dipendere, per larga parte del XX secolo, strettamente dalle relazioni politiche dei Paesi, anche per effetto della loro divisione in blocchi, fino a situarsi al punto d’incontro di due forze contraddittorie:
● da un lato, una reale presa di coscienza dell’esigenza di repressione dei delitti internazionalmente rilevanti, attesa la ormai acquisita idea nell’opinione pubblica di sanzionare gli autori di quei delitti, almeno di quelli più gravi
● dall’altro, il controllo esercitato dai dirigenti dei due blocchi sul rispetto delle loro concezioni ideologiche considerate come intangibili all’interno delle rispettive zone d’influenza. Non è ammissibile che una forza esterna rilevi e, se del caso, giudichi il modo in cui sono trattati gli oppositori.
La realtà politica risulta dal mondo bipolare quale emerso dagli accordi di Yalta che, come è noto, hanno lasciato alle due Superpotenze lo scenario internazionale, sia esso economico, diplomatico, militare e ideologico.
La loro politica, tuttavia, ha dovuto misurarsi con le velleità transfrontaliere delle popolazioni aspiranti sinceramente a un ordine penale internale teso a garantire la sicurezza, la pace e la fraternità tra i popoli.
Questa partizione ideologica è nondimeno servita ad evitare che tra i due blocchi insorgessero rischi di confronto diretto, anche se la rincorsa agli armamenti ha dato l’impressione di poterlo favorire. Ebbene, tutto ciò non ha impedito, nonostante il controllo sui propri alleati, che venissero costituiti dei tribunali militari internazionali.
La prima esigenza, cioè la necessità di processare e di punire nasceva da un interrogativo elementare: è possibile che vengano puniti i delitti ordinari, secondo gli schemi ordinari e comunemente accettati e praticati, e restino invece impuniti i delitti più gravi, più massicci, solo perché perpetrati per ordine di governanti o di comandanti, usando la guerra come occasione e pretesto e l’occupazione bellica come copertura?
Che valore ha più la giustizia ordinaria se si può orribilmente delinquere sperando, a seconda dei casi, nella vittoria o nell’amnistia?
Il penalista sentiva di non potersi chiudere nel recinto della giustizia nazionale
Il penalista si trovava, tuttavia, di fronte ad una serie di ostacoli. Anzitutto, trovava un diritto internazionale chiuso, se si escludono alcune eccezione, nella sua struttura e convinzione dommatica: un diritto del quale sono soggetti soltanto gli Stati, ai quali soltanto si dirigono gli imperativi, e a cui è ontologicamente estraneo ogni coinvolgimento diretto nella punizione degli individui
Un diritto che riconosce la validità degli accordi tra gli Stati per la punizione dei crimini di guerra, ma con la conseguenza che tale punizione sarà opera della giustizia militare degli occupanti, e che ai principi del diritto internazionale ci si potrà appellare solo in modo vago e indiretto, come a una somma di principi ispiratori rivolti al rispetto delle leggi dell’umanità, ma mai come a fonte dei precetti individuali e delle relative sanzioni
Altri ostacoli erano poi costituiti dall’immunità dei governanti, salva sempre la possibilità di leggi retroattive interne, aventi per ciò stesso carattere rivoluzionario e dunque giuridicamente dubbio. Fra gli altri ostacoli, si ricorda il principio, comune ai diritti penali nazionali della insindacabilità dell’ordine del superiore.
In Italia, il primo penalista a liberarsi di tali vincoli fu Pietro Nuvolone, per il quale i crimini di guerra dovevano farsi rientrare in un genus commune denominato “delitti di lesa umanità”.
La tesi sostenuta era, al tempo stesso, innovativa e azzardata, posto che, per questo A. se diritto interno e internazionale potevano bastare ad inquadrare nella propria cornice i crimini di guerra stricto sensu, ciò non poteva dirsi per i crimini di lesa umanità che, come tali, trovavano fondamento in un diritto diverso da quello interno e internazionale, ovvero “nel diritto della comunità universale degli uomini, o diritto umano”.
A quell’epoca, la scoperta dei crimini nazisti era dominante. Due erano gli elementi fondamentali, attinenti il primo agli scopi della pena e il secondo all’esigenza di una giustizia eguale per tutti
Tra gli scopi della pena dominava, seppure accanto all’idea di una giusta retribuzione, quello della prevenzione generale: cioè che processi si dovessero fare e pene fossero comminate perché orrori di quel tipo non dovessero ripetersi in futuro. Inoltre, tutti auspicavano che nel futuro non ci fossero tribunali di vincitori a giudicare i crimini di guerra e contro l’umanità, ma corti neutrali e imparziali, espressione, attraverso la comunità degli Stati, dell’umanità offesa.
La punizione del genocidio è entrata non senza clamore sulla scena delle convenzioni e degli impegni internazionali così come nelle leggi nazionali, sin dal 1948. Tre anni prima erano stati codificati attraverso gli Statuti dei tribunali militari di Norimberga e di Tokyo i crimini contro la pace, i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità; e molte persone avevano pagato il fio, in Europa come in Asia.
Nei decenni successivi si sino susseguiti altri strumenti internazionali, con l’elaborazione di fattispecie di diritto penale sostanziale, con l’obbligo di punire assunto dagli Stati, con l’assistenza giudiziaria internazionale. Nondimeno, sotto il pretesto delle guerre, i crimini internazionali sono continuati
I TRIBUNALI MILITARI INTERNAZIONALI
● Tribunale di NORIMBERGA
●● Tribunale di Tokyo
La premessa logica dell’istituzione dei tribunali militari internazionali sta nella rivelazione fatta all’opinione pubblica dell’ampiezza dei crimini della seconda guerra mondiale, in particolare lo choc del genocidio degli ebrei, la brutalità dell’aggressione giapponese contro la Cina e contro gli Stati Uniti.
La notte di cristallo del novembre 1938 diede in Germania il segnale d’allarme delle spettacolari capacità distruttive e di umiliazione dell’ideologia razziale. Eppure era troppo presto per immaginare che questa manifestazione potesse evolvere verso forme di sterminio elevato a organizzazione industriale.
È del 20 gennaio 1942 la conferenza dei segretari di Stato riunitisi a Wannsee in cui si decise di procedere alla soluzione finale
Venne creata una terrificante burocrazia i cui componenti dovevano agire in modo impersonale e intercambiabile facendo della Germania nazista una gigantesca organizzazione amministrativa e criminale consacrata alla eliminazione degli ebrei in Europa.
A seguito delle notizie e dei fatti terribili che hanno caratterizzato quel sistema si decise la costituzione del tribunale militare di Norimberga, ritenuto indispensabile dagli Alleati per sanzionare i comportamenti tesi allo sterminio di un intero popolo.
Analoga richiesta venne formulata con riferimento ai gravi fatti verificatisi in Estremo Oriente ad opera del Giappone successivamente alla capitolazione del Giappone il 19 gennaio 1946.
IL TRIBUNALE MILITARE DI NORIMBERGA
Il Tribunale militare internazionale non è costituito spontaneamente né immediatamente alla fine della seconda guerra mondiale. Infatti, durante tutto il conflitto gli Alleati si sono chiesti più volte su quale sarebbe stato il trattamento più giusto da riservare ai responsabili nazisti dopo il conflitto. L’idea di sottoporre a giudizio gli atti dei capi nazisti non aveva avuto l’immediato sopravvento. Tuttavia, alle Conferenze di Mosca e di Theran nel 1943, di Yalta e Postdam nel 1945, le tre grandi Potenze (USA, GB e URSS) si accordarono perché fossero giudicati e puniti i responsabili dei crimini di guerra.
Il Tribunale militare internazionale venne istituito con gli Accordi di Londra dell’8 agosto 1945 firmati dalle quattro grandi Potenze dell’epoca, atteso che alle originarie tre si era aggiunta, nel frattempo, la Francia.
Confronto
Se la Carta di Londra viene comparata agli statuti degli attuali Tribunale ad hoc, si capisce quanto fosse sommaria. Tuttavia, se la si compara con l’art. 227 del Trattato di Versailles, se ne evidenzia un quadro dettagliato prima inesistente.
Tribunale di
Norimberga
Il Tribunale si componeva di quattro membri. Ciascun Paese alleato invia un titolare e un sostituto con l’incarico di assicurare un processo rapido e giusto nei confronti dei principali criminali della guerra nazista
I giudici non sono ricusabili. Ciascun membro firmatario del Accordi, può sostituire un giudice o un suo sostituto in caso di malattia. Le decisioni sono assunte a maggioranza e, in caso di parità di voti, determinante risulta il voto del presidente
competenza
La carta stabilisce la competenza materiale del tribunale, chiamato a pronunciarsi su
● crimini contro la pace
●● crimini di guerra
●●● crimini contro l’umanità
Crimini contro la paceI crimini contro la pace sono caratterizzati da tre fattori:
● dichiarazione, preparazione, scatenare o proseguimento di una guerra di aggressione
●● guerra in violazione dei trattati, della sicurezza o degli accordi internazionali
●●● partecipazione a un piano concertato o a un complotto per il compimento di uno qualsiasi dei casi suddetti
Crimini di guerraI crimini di guerra sono costituiti dalla violazione delle leggi e delle consuetudini di guerra
Queste violazioni inglobano anche
● l’assassinio
●● il trattamento malvagio e la deportazione ai lavori forzati delle popolazioni civili nei territori occupati
●●● l’assassinio o il trattamento disumano dei prigionieri di guerra o delle persone in mare;
●●●● distruzione senza motivo di paesi e villaggi o la devastazione non giustificata da esigenze militari
Crimini contro l’umanitàI crimini contro l’umanità sono:
► l’assassinio, lo sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione e altri atti inumani compiuti prima o durante la guerra
►► le persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi, allorché questi atti o persecuzioni, abbiano o meno costituito una violazione del diritto interno dei paesi in cui sono stati perpetrati, siano stati nondimeno compiuti in conseguenza dei crimini rientranti nella competenza del Tribunale, ovvero siano riconducibili a questo crimine
Tracciando la via della responsabilità penale dei capi in quanto tali, la carta precisa che i dirigenti, gli organizzatori, i provocatori o semplicemente i complici che hanno preso parte all’elaborazione o all’esecuzione di un piano concertato ovvero di un complotto per commettere uno qualsiasi dei crimini prima delineati sono responsabili di tutti gli atti compiuti dalle persone in esecuzione del suddetto piano.
L’art. 7 insiste ed esclude formalmente che l’essere (stato) capo di Stato o aver assunto responsabilità a livello governativo possa essere invocato quale causa escludente o elemento attenuativo delle sanzioni.
Inoltre, l’art. 8 dispone che il fatto di avere agito su ordine di un superiore non possa in alcun caso evitare ad un accusato le sue responsabilità, al più può attenuare le pene in cui è incorso.
Art. 8
Un’altra innovazione della carta è di permettere al tribunale di dichiarare la natura criminale di un’organizzazione
La procedura può essere mossa contro un accusato contumace mostrando la presenza di elementi di diritto non anglo-americani nello svolgimento del processo.
Art. 16 carta
La carta pose il principio secondo cui i criminali di guerra avrebbero dovuto beneficare di un processo leale, esigendo che al momento dell’imputazione l’accusa esponesse il dettaglio dei carichi pendenti contro l’accusato in una lingua che egli potesse comprendere e in tempi ragionevoli, prevedendo il diritto di difesa e, dunque, far sì che il difensore potesse presentare le sue argomentazioni a discarico, concedendogli la possibilità di essere assistito da un collegio, autorizzandolo a presentare prove a discarico così come a controinterrogare gli eventuali testimoni dell’accusa.
Elemento Tipico del Diritto anglosassone
L’art. 19 precisa che il tribunale non è legato alle regole tecnico amministrative della prova, riservandosi di ammettere ogni elemento che sembri avere valore di prova
La carta non prevede, propriamente parlando, il diritto d’appello contro le decisioni rese dal tribunale
Secondo quanto previsto dal Consiglio di controllo per la Germania c’è la possibilità di ridurre o modificare le sanzioni ma anche di aggravarle, il che evidenzia l’influenza esercitata dalla politica sulla suddetta giurisdizione privando di fatto i condannati circa le verità del ricorso.
Le pene comminate sono quelle di morte o le altre pene che il tribunale stima essere giuste e appropriate
Il tribunale militare ha sede nel palazzo di giustizia di Norimberga perché sorge su un’area di 22.000 m², dispone di 530 uffici, 80 sale d’udienza, la guerra non l’ha troppo danneggiato, è disponibile anche una grande prigione
Con si sovietici si giunse ad un compromesso affinché il processo potesse svolgersi a Norimberga. Infatti, inizialmente, essi volevano che il processo avesse luogo a Berlino. L’art. 22 della carta disponeva, infatti, che Berlino fosse sede permanente del tribunale e Norimberga il luogo del processo.
L’udienza iniziale, presieduta dal sovietico Nikitchenko, deposto l’atto di accusa contro i 24 principali criminali nazisti e le sei organizzazioni criminali (Partito Nazional Socialista, SS, SA, il Governo del Reich, lo Stato Maggiore, Gestapo ed i Servizi di sicurezza) ebbe luogo il 18 ottobre 1945 presso la Corte Suprema di Berlino (sede del Consiglio di controllo alleato).
Il processo dura dal 20 novembre 1945 al 1 ottobre 1946 sotto la presidenza del giudice britannico Geoffry Lawrence. Nei 218 giorni di udienze, il tribunale ascolta 360 testimoni, prende visione e atto di 200.000 attestazioni scritte (affidavits), sia direttamente innanzi il collegio, sia per il tramite dei giudici delegati forniti di speciali mandati.
Gli accusati, che devono rispondere di
► congiura contro la pace
►►guerra d’aggressione
►►►violazione delle leggi e delle consuetudini di guerra
►►►►crimini contro l’umanità
si dichiarano non colpevoli
I verdetti sono di
● 12 condanne a morte
●● 9 ergastoli o condanne al carcere
●●● 3 proscioglimenti o accuse non portate a termine
Martin Borman (1900-1946), stretto collaboratore di Hitler, scompare alla fine della guerra ed è stato condannato a morte in contumacia per crimini contro l’umanità
Karl Dönitz (1891-1980), grande ammiraglio in capo, fu condannato a 10 anni di carcere per guerra d’aggressione, violazione delle leggi e consuetudini di guerra. Scontata la pena, venne liberato nel 1956.
Wilhelm Frck (1877-1946), Ministro dell’Interno del Terzo Rich, viene condannato a morte per guerra d’aggressione, violazione delle leggi e delle consuetudini di guerra e per crimini contro l’umanità.
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Premessa
Il diritto penale internazionale è costituito da un complesso eterogeneo di norme volte a tutelare interessi riconosciuti di rilevanza mondiale da parte della comunità internazionale. Tale ramo del diritto è in piena evoluzione ed ha visto, nel nostro secolo, il progressivo affermarsi della tutela dei diritti dell'uomo. Il carattere universale, e sicuramente sovranazionale, di tale tutela ha portato alla stipulazione di numerosi trattati e convenzioni, intorno ai quali si è creato un consenso pressoché unanime da parte della comunità internazionale. Il grado di consenso si affievolisce considerevolmente quando, dal piano delle enunciazioni di intenti e delle proclamazioni di principi, si dovrebbe passare ad un piano operativo per ottenere l'effettività degli stessi. Il motivo è da rinvenire nel fatto che colpire e reprimere le violazioni dei diritti umani, esercitando una giurisdizione penale a livello sovranazionale, mette in discussione la sovranità degli Stati. La recente esperienza del Tribunale penale per l'ex Jugoslavia e la futura Corte Penale Internazionale rappresentano il tentativo di rivestire di effettività i positivi intenti della comunità internazionale. Nel diritto penale internazionale si possono riconoscere due differenti anime : gli aspetti internazionali della legislazione penale nazionale e gli aspetti penali della legislazione internazionale. Bassiouni individua una dicotomia nel diritto penale internazionale, dovuta al fatto che i tradizionali principi del diritto penale nazionale, come ad esempio il principio di legalità e di tassatività, mal si conciliano con le caratteristiche del diritto internazionale. In particolare essi sembrano in contrasto con la fonte principale del diritto penale internazionale, vale a dire la consuetudine. In passato i rapporti tra Stati, in campo penale, erano limitati a pratiche di cooperazione tra gli stessi, mirate alla cattura di individui che avevano commesso dei crimini contro l'ordine municipale; era quindi l'estradizione l'oggetto di tali rapporti. Con il progressivo maturare della sensibilità giuridica della comunità internazionale, diversi stati sentirono l'esigenza di regolamentare i conflitti armati e le rappresaglie private; l'obiettivo era di distinguere e disciplinare la guerra ingiusta da quella giusta. Si cominciarono a punire, in questo modo, condotte che violavano l'ordine internazionale. L'esigenza di tutela dei diritti umani ha dato un notevole impulso alla ricerca di meccanismi di protezione adeguata: la violazione di tali diritti provoca, al giorno d'oggi, la reazione della comunità internazionale, a discapito del principio di non intromissione. Dal 1948, con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, ad opera dell'ONU, ha visto la luce un numero non esiguo di convenzioni, dichiarazioni, risoluzioni in materia di diritti umani. Non si può certo affermare che manchino i documenti disciplinanti le condotte ritenute illecite dal diritto internazionale, contro le violazioni delle quali la Comunità internazionale dovrebbe reagire. Il problema è dunque elaborare degli strumenti per dare attuazione concreta a queste norme. Sotto questo profilo la Corte Europea dei diritti dell'uomo, creata nel 1950 per volontà del Consiglio d'Europa, costituisce un valido esempio, in quanto strumento di tutela sovranazionale. Il suo compito è quello di tutelare i diritti individuati dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Ad essa il singolo cittadino può denunciare l'inadempimento ad opera del proprio stato nell'applicazione della Convenzione. Tuttavia il limite di procedure di questo tipo sta nell'individuare la responsabilità di uno stato senza applicare sanzioni penali a carico dei singoli individui. Nel panorama dei rimedi esperiti dal diritto penale internazionale, il tribunale penale per l'ex Jugoslavia e il progetto di Corte Penale Internazionale rappresentano una novità di assoluto rilievo, in particolare quest'ultima per i motivi che ci proponiamo di illustrare. L'elemento di novità cui si fa riferimento non è tanto l'istituzione di un tribunale penale internazionale: nel 1268 Corradino Von Hohestaufen fu infatti processato e ucciso per avere iniziato una guerra ingiusta, e, nel 1474, Peter Von Hagenbach fu processato dinanzi ad un tribunale composto da 28 giudici, provenienti dagli Stati del Sacro Romano Impero e fu ritenuto colpevole di crimini contro le leggi di Dio e degli uomini. Questi precedenti sono comunque il frutto della volontà, da parte dei vincitori, di rivestire la propria vittoria col crisma del diritto. Più recenti sono le esperienze dei Tribunali militari internazionali di Norimberga e Tokyo, istituiti dagli alleati dopo la seconda guerra mondiale. L'impressione è di trovarsi ancora di fronte a strumenti elaborati dai vincitori per imporre la propria giustizia sui vinti, operazione plausibile dal punto di vista politico e financo etico (basti pensare agli orrori dell'olocausto), ma che ha portato a più di un'incongruenza sotto il profilo giuridico. Ricollegandosi al precedente discorso sulla dicotomia tra diritto penale nazionale e diritto internazionale penale, è possibile rilevare che, durante i processi derivati dalla seconda guerra mondiale, furono sollevate costantemente eccezioni circa l'applicazione di norme penali "ex post facto",in violazione del principio di legalità sostanziale. Tali obiezioni erano da ritenere perfettamente valide dal punto di vista del diritto penale sostanziale. A riprova della parzialità di tali corti internazionali, i tentativi da parte giapponese, di incriminare presso il Tribunale militare di Tokyo gli Stati Uniti per l'utilizzo di ordigni atomici, furono rigettati per carenza di giurisdizione. Il diritto derivante da queste esperienze era dunque un diritto che sopraggiungeva successivamente, che inseguiva a fatica gli eventi ormai accaduti, e quindi geneticamente incapace di svolgere una funzione preventiva e deterrente. L'elemento innovativo, presente nel progetto di Corte Penale Internazionale, è allora il precostituire un tribunale che si occuperà pro futuro dei crimini contro l'umanità e di quant'altro verrà stabilito essere di sua competenza. Un sistema penale ha come scopo di stabilire la giustizia nei rapporti tra consociati: in un quadro sovranazionale tale funzione riveste un ruolo assai delicato. La commissione istituita dall'ONU per i crimini commessi nell'ex Jugoslavia ha sottolineato, nel suo rapporto, la forte esigenza di giustizia manifestata dalle vittime ed ha concluso che l'auspicata pace nei Balcani potrà realizzarsi in seguito al ristabilimento della giustizia. Solo l'operato, fermo e credibile del tribunale, potrà evitare che questa sete di giustizia si trasformi in spirito di vendetta. E' giusto domandarsi se veramente la pace abbia come presupposto imprescindibile la giustizia, intesa come ordine fondato sulla legalità. La situazione politica dei paesi balcanici è la conseguenza di una instabilità dovuta a tensioni ed odi antichi: può un tribunale internazionale riportare la pace? Queste considerazioni ci portano a guardare con interesse alla soluzione con cui il Sud Africa è uscito dal regime di apartheid: in questo caso si è preferito istituire una Commissione che portasse alla luce le violazioni subite dalla maggioranza nera, e non si è reputato necessario punire i colpevoli attraverso processi penali ordinari. Questa particolare scelta trova la sua motivazione nel fatto che il regime segregazionista è stato abbandonato a seguito d'intensi negoziati, e non a causa di una sconfitta militare. Nonostante venisse concessa l'immunità agli autori dei crimini, in cambio della testimonianza di quanto era accaduto, la Commissione ha svolto il suo operato con estrema difficoltà. Recentemente, in Bosnia Erzegovina, è stata creata una Commissione per la verità e la riconciliazione che dovrebbe costituire un sistema di mediazione e risoluzione delle fratture sociali, create dalla guerra, complementare all'azione del Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia. Lo scopo di tale organismo è quello di contribuire alla ricostruzione di un'identità nazionale, principalmente attraverso la raccolta delle testimonianze, e l'analisi della cause storico-sociologoche, che non possono essere prese in considerazione da un organo giurisdizionale, qual è il Tribunale de L'Aja. In queste pagine abbiamo cercato di esaminare, seppur brevemente, le modalità attraverso le quali la comunità internazionale ha cercato di esercitare delle forme di giurisdizione penale a livello sovranazionale. L'insieme di tali tentativi disegna un'evoluzione di cui i tribunali ad hoc e la futura Corte Penale Internazionale costituiscono i frutti più recenti. Quest'ultima ha la possibilità di divenire uno strumento di tutela dei diritti umani stabile e, in quanto tale, maggiormente efficace. In questo senso i legami tra essa e la volontà politica degli stati potrebbero incrinare la sua credibilità. Ricordiamo, infatti, che la Corte Penale Internazionale entrerà in vigore a seguito della sessantesima ratifica, e soprattutto che il Consiglio di Sicurezza avrà la possibilità di sospendere le indagini del Prosecutor; d'altronde non dobbiamo dimenticare che il diritto penale internazionale si fonda sull'accordo di diversi Stati e non sull'esercizio dell'autorità statale, come avviene per il diritto penale nazionale. Dottrina e giurisprudenza sono chiamate quindi a svolgere un'importante ruolo di ausilio attraverso le riflessione teorica. Il fine è quello di rafforzare le basi di tale strumento, che ha tutte le prerogative per divenire l'inizio di una nuova era del diritto penale internazionale. [...]CAPITOLO II L'AZIONE PENALE: PROFILI DI COMPARAZIONEL'azione in generaleL'azione penale è il perno delle indagini preliminari. L'attività dell'organo d'accusa può essere analizzata attraverso le modalità di esercizio dell'azione penale. Prima di affrontare le sue peculiarità, é utile fare qualche breve cenno sul concetto di azione in generale.In base al significato letterale, l'azione indica un agire diretto e immediato; in ambito giuridico, invece, l'azione è indiretta, nel senso che la pretesa vantata non si realizza agendo motu proprio verso qualcuno, ma per il tramite di un'autorità a cui è devoluto il compito di soddisfarla. In questo senso l'azione costituisce il collegamento tra soggetto agente e giurisdizione, perché, tramite essa, un organo giudicante viene investito del dovere di pronunciarsi.La teoria dell'azione ha registrato, nel corso dei decenni, numerose ed autorevoli posizioni; la nozione è talmente fluida, e talvolta perfino controversa, che forse esistono "tante dottrine dell'azione quanti sono gli scrittori che se ne sono occupati".Il dibattito sull'azione nasce in Germania nel 1700, come conseguenza della teorizzazione dei diritti soggettivi ad opera del giusnaturalismo ed è di natura non solo giuridica, ma anche filosofica. La filosofia illuminista esaltava e poneva al centro della propria visione del mondo l'uomo e la sua libertà e conseguentemente teorizzava un ordine giuridico che aveva come fine il riconoscimento e la tutela di quegli attributi inviolabili, chiamati diritti soggettivi, che preesistevano ed erano quindi ad esso superiori. In quest'ottica il diritto privato, sistema dei diritti soggettivi, era considerato la branca principale del diritto a scapito del diritto pubblico. A questa tendenza si attribuisce il ritardo di una adeguata speculazione giuridica intorno al processo e uno scarso interesse nei confronti dell'azione. L'azzardo fu quello di trasporre l'idea dell'individuo-soggetto di diritto dal piano filosofico al piano giuridico-positivo, senza tenere in debito conto che la costruzione filosofica poteva, al contrario di quella giuridica, aspirare alla coerenza anche a prescindere dal diritto positivo. Tali correnti di pensiero portarono ad una vera e propria frattura nel ragionamento giuridico, a causa della quale il diritto pubblico fu a lungo considerato separato e distinto dal diritto privato. Il mutare del clima culturale e politico tra il XVIII sec. e il XIX sec., fece nascere l'esigenza di saldare tra loro il diritto obiettivo e quello soggettivo. Tale problema presenta due diversi aspetti: da una parte vi è il riconoscimento di una serie di diritti soggettivi in capo ad ogni individuo; a tal fine prezioso è stato il contributo della filosofia; dall'altra vi è il modo in cui gli stessi diritti potranno ricevere tutela e questo è un problema giuridico riguardante il diritto positivo. Pekelis rilevava che "già al mugnaio di Sansouci sarebbe probabilmente sembrata evidente la constatazione che un diritto di proprietà o di credito si ha, in realtà, solo in quanto vi siano dei giudici a Berlino ai quali si può ricorrere, in quanto si abbia cioè un diritto d'azione". Questa condivisibile constatazione si ricollega a quanto affermato nella premessa : qualsiasi diritto, se non è fornito della possibilità di azionarlo per ricevere tutela, non può godere di una fruizione effettiva; in questo senso l'azione condiziona l'esistenza, almeno giuridica, del diritto soggettivo. Questa affermazione non vuole essere esaustiva, non esclude quindi che altre scienze umanistiche, basti pensare alla filosofia, giungano ad affermare l'esistenza dei diritti soggettivi a prescindere dall'azione. Se si accettano queste premesse l'azione non può essere considerata un diritto soggettivo, ma ne è elemento complementare e ben distinto.Maturata questa convinzione, la dottrina ha visto nell'azione una situazione di vantaggio del soggetto, corrispondente ad un attivarsi della giurisdizione. Il riferimento all'azione come meccanismo di attivazione dell'attività giurisdizionale coglie sicuramente nel segno, ma è bene precisare che la situazione di vantaggio del soggetto agente si limita proprio a questo potere di provocare la giurisdizione.Questa precisazione ci introduce al problema del contenuto dell'azione: anche in questo caso numerosi sono gli orientamenti che oscillano tra il considerare concreto oppure astratto il contenuto dell'azione. Nel primo caso il contenuto sarebbe proprio il diritto che si intende tutelare, ed essa, allora, spetterebbe solo a chi abbia ragione nel diritto sostanziale; tuttavia, a ben vedere, il concetto di azione indica la mera probabilità circa l'esistenza della situazione vantata, dunque solo al termine dell'esercizio dell'attività giurisdizionale ci si potrà pronunciare sulla fondatezza della pretesa. Quest'ultima osservazione è confortata da un dato empirico, poc'anzi segnalato: una volta affermata una pretesa giuridica nelle forme dell'azione, la giurisdizione si attiva automaticamente, non in base alla fondatezza della richiesta, che rappresenta il fine, e non certo il presupposto, dell'attività giurisdizionale.Se, dunque, l'azione prescinde dalla ragione o dal torto di chi la promuove, si deve concludere che il suo contenuto sia astratto.A favore del contenuto astratto dell'azione, a nostro parere, sovvengono pure alcune considerazioni svolte a proposito del concetto di giurisdizione; se essa infatti rappresenta un percorso attraverso il quale l'ordinamento, quindi la norma generale ed astratta, si afferma nei confronti del singolo individuo, l'azione in quanto incipit di questo percorso deve condividere, con la norma invocata la caratteristica dell'astrazione. L'azione è la forma attraverso la quale l'astrazione della norma diviene sostanza.L'azione penaleDopo aver cercato di enucleare alcune caratteristiche dell'azione in generale è il momento di trattare dell'azione penale, la quale non è costituita da elementi reali, ma è un nome che convenzionalmente si attribuisce ad una attività. Il problema dell'azione penale, sotto questo profilo, si risolve nell'analisi e nell'interpretazione di questa attività, e nel comprendere da chi è svolta e con quali criteri.Il problema dell'azione penale è in relazione con l'esercizio della potestà punitiva e con le caratteristiche del processo penale. Per lungo tempo la dottrina ha rifiutato l'idea che l'azione penale comportasse una domanda di condanna e, conseguentemente, osservava che, mentre nel processo civile l'azione comporta la richiesta di una determinata decisione, in quello penale viene una richiesta soltanto una qualsiasi decisione; l'organo che la esercita, quindi, mira all'accertamento della verità. Una soluzione simile è riconducibile nel novero delle teorie assolutizzanti dell'azione che si configurano come veri e propri dogmi, dando inoltre per assodato che la verità esista e possa essere oggetto di conoscenza.Accanto a questa come ad altre simili teorie dell'azione, da qualche decennio si sono sviluppate dottrine sostenitrici dell'opposto principio, vale a dire opinioni che individuano nel concetto di azione un'irrimediabile relatività. A tale conclusione si è giunti attraverso la presa di coscienza della relatività dei valori giuridici. La filosofia del diritto ha evidenziato come tali valori possano considerarsi esistenti solo in quanto affermati da una norma positiva e da questo discenderebbe una loro relazione di dipendenza con l'ordinamento positivo. Tale dipendenza porta a concludere che la singola teoria dell'azione è valida solo in relazione ad un determinato ordinamento.E'stato avanzato il dubbio che simili posizioni divengano, esse stesse, assolutizzanti nel momento in cui pretendano di essere l'unico strumento conoscitivo della realtà e di porre la sola certezza che non esistono certezze.Tale critica ha il merito, forse, di lasciare aperta la possibilità futura di raggiungere una teoria assoluta dell'azione, ma non sembra riuscire a confutare la relatività che attualmente la contraddistingue.Tale teoria, a nostro parere, ha invece contraddetto ed escluso, almeno per ora, la possibilità di creare un dogma dell'azione.Qualsiasi affermazione si basa su delle premesse, accettate le quali è possibile attribuire il predicato della verità alle affermazioni che su di esse si fondano. Alla luce di questo, anche qualora si giungesse ad affermare l'esistenza di una teoria assoluta dell'azione penale, l'accettazione delle premesse sarà la condizione della sua validità. "Stabilire il significato di un enunciato equivale a stabilire le regole secondo le quali l'enunciato deve essere usato, e questo a sua volta è lo stesso che stabilire il modo in cui esso può essere verificato".L'obbligatorietà dell'azione penaleNel nostro ordinamento, l'obbligatorietà è il più importante tra i requisiti dell'azione. Come noto, tale principio è stabilito dalla Carta Costituzionale; per questo motivo la dottrina si è spesso interrogata sull'esatto valore dell'obbligatorietà sia de iure condito sia de iure condendo.Una riflessione su questo argomento può arricchirsi di alcuni spunti comparatistici: altri ordinamenti offrono infatti soluzioni differenti, vale a dire diverse modalità d'esercizio dell'azione penale. Tali esperienze, inoltre, sono spesso indicate come modelli da seguire.E' stato giustamente osservato che "vi sono argomenti del diritto nei quali tutto quanto era possibile dire è stato detto, ed ogni nuovo intervento finisce inevitabilmente col ripetere cose già sentite. Quello dell'obbligatorietà ne è un esempio perfetto".Consapevoli di questo, non abbiamo certo l'ambizione di apportare al dibattito delle novità, non di meno una disamina delle varie soluzioni può giovare alla nostra ricerca in quanto utile strumento di comprensione dell'esercizio della potestà punitiva.La scelta tra obbligatorietà e discrezionalità nell'esercizio dell'azione penale riguarda direttamente un importante aspetto dell'organizzazione statale, in quanto ci illustra a che livello debbano essere prese le scelte in materia di politica criminale. Esse possono infatti essere prese a livello decentrato, e potremmo dire locale, nel caso in cui l'organo di accusa abbia la possibilità di scegliere se promuovere o meno l'azione penale. Uno dei vantaggi della discrezionalità è appunto quello di permettere all'organo di accusa di operare una selezione dei reati e degli autori contro cui procedere, stabilendo autonomamente le strategie da seguire. In questa prospettiva è possibile soddisfare le istanze di giustizia a livello locale della comunità.L'adozione dell'opposto principio di obbligatorietà comporta invece, per lo meno a livello teorico, che all'organo di accusa sia precluso un simile modus operandi: infatti, in presenza di determinati requisiti questi dovrà esercitare l'azione penale. In quest'ottica le scelte di politica criminale sono esercitate a livello centrale da parte dello Stato.A questo punto della trattazione abbiamo già utilizzato differenti termini che indicano in base a quali criteri l'organo di accusa decide se esercitare o meno l'azione penale. Prima di proseguire è bene approfondire il loro significato, senza la pretesa di definirli esaustivamente, ma con l'intenzione di indicare il senso col quale verranno utilizzati nel proseguo.La questione ruota attorno a due poli, da una parte l'obbligatorietà dell'azione penale, dall'altra la discrezionalità, che può assumere diversi nomi: essa, infatti, può essere indicata anche dai termini "opportunità" e "facoltatività".Nei sistemi in cui vige il primo principio, all'organo di accusa si prospetta un imperativo categorico, circa l'esercizio dell'azione penale, derivato dalla sua subordinazione esclusiva alla legge; questo quadro dovrebbe permettere di evitare consapevoli inerzie da parte del pubblico ministero. In tale ottica si parla anche di legalità dell'azione penale per significare che tra le scelte legislative di incriminare determinate condotte e il comportamento del titolare dell'azione penale non vi devono essere spazi lasciati a valutazioni circa l'opportunità se esercitare l'azione o meno. Una critica, che sovente viene sollevata contro questo assunto, individua nell'attività del titolare dell'accusa dei momenti in cui si insinuano scelte discrezionali: la selezione implicita nel considerare un fatto corrispondente o meno ad una fattispecie di reato, la scelta di determinati strumenti investigativi, l'affrontare con urgenza certi casi perché ritenuti prioritari. Questa situazione, che si può definire connaturata ad ogni attività umana, è poi aggravata dalla crescente criminalità che affligge le società moderne: a fronte di una sproporzione tra carico di lavoro e quantità del personale gli spazi di discrezionalità, poc'anzi menzionati, danno luogo a rilevanti attenuazioni nel sistema dominato, a livello formale, dall'obbligatorietà. Alla luce di queste considerazioni si parla dunque di "obbligatorietà nel reale" per significare che il principio, così come delineato a livello teorico, non regge l'impatto con la realtà e addirittura non rende possibile l'individuare e controllare scelte discrezionali dell'organo di accusa "mascherate" dietro l'aurea dell'obbligatorietà. A ben vedere, tale critica è animata da due differenti argomentazioni: in primis, nel momento in cui l'organo di accusa applica la legge esercita un'ineliminabile discrezionalità ed in tal modo contraddic e viola l'obbigatorietà dell'azione penale; secondariamente la carenza di organico e la conseguente congestione degli uffici dei pubblici ministeri privano di effettività il principio in questione.Quest'ultimo, non è un argomento giuridico, è un dato di fatto tanto vero, quanto insufficiente, a nostro parere, a contraddire sul piano teorico il principio in questione. Una scelta a favore dell'obbligatorietà o della discrezionalità non dovrebbe essere una "confessione di impotenza" nei confronti di situazioni innegabili di malfunzionamento della macchina giudiziaria.Il secondo argomento fa leva sull'impossibilità di prevedere a priori i comportamenti umani, e si propone invece di dimostrare l'inesistenza teorica dell'obbligatorietà. La moderna dottrina ha posto in risalto come l'opera di interpretazione del diritto sia in realtà un procedimento di creazione di diritto. L'operatore giuridico si trova ad interpretare una disposizione, che diverrà norma a seguito del procedimento ermeneutico. Il pubblico ministero è evidentemente interprete della fattispecie legislativa incriminatrice e quindi protagonista di quest'opera creatrice, la quale, però, non è un'attività assolutamente libera : la legge fornisce un parametro cui far riferimento, in tal senso si può parlare di un'attività vincolata. Queste osservazioni presentano indubbiamente degli aspetti di verità, ed effettivamente mettono in rilievo l'esistenza di spazi discrezionali ineliminabili anche in attività che potremmo chiamare vincolate. Da qui a sostenere che l'obbligatorietà sia una sorta di finzione giuridica, il passo non è breve. Suggestiva è l'idea che il potere discrezionale sia uno strumento per accertare il dovere, in tal senso il pubblico ministero, nel decidere se esercitare o meno l'azione penale, accerta l'esistenza di un obbligo, in forza anche di valutazioni discrezionali. L'importante è che questa discrezionalità, il cui riconoscimento è inevitabile se si riconosce un certo grado di creatività connaturato al processo di interpretazione, non diventi arbitrio. Fino a questo punto abbiamo trattato dell'obbligatorietà, nella sua accezione più pura, sulla scorta delle osservazioni e delle critiche provenienti dalla dottrine italiana; questo non a caso, in quanto il nostro ordinamento è l'unico che prevede l'obbligatorietà dell'azione penale senza alcuna deroga.[...]
estratto da: http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=tacchiventuriestratto da http://www.iaf-lionardo.it/GIUSTIZIA%20INTERNAZIONALE.ppt.
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E' giusto domandarsi se veramente la pace abbia come presupposto imprescindibile la giustizia, intesa come ordine fondato sulla legalità. La situazione politica dei paesi balcanici è la conseguenza di una instabilità dovuta a tensioni ed odi antichi: può un tribunale internazionale riportare la pace? Queste considerazioni ci portano a guardare con interesse alla soluzione con cui il Sud Africa è uscito dal regime di apartheid: in questo caso si è preferito istituire una Commissione che portasse alla luce le violazioni subite dalla maggioranza nera, e non si è reputato necessario punire i colpevoli attraverso processi penali ordinari. Questa particolare scelta trova la sua motivazione nel fatto che il regime segregazionista è stato abbandonato a seguito d'intensi negoziati, e non a causa di una sconfitta militare. Nonostante venisse concessa l'immunità agli autori dei crimini, in cambio della testimonianza di quanto era accaduto, la Commissione ha svolto il suo operato con estrema difficoltà.
in tema di azione penale in diritto internazionale clicca il link sottostante
http://files.studiperlapace.it/spp_zfiles/docs/tacchiventuri.pdf
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