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domenica 6 marzo 2011

Il rito funebre islamico







Il rito funebre islamico
Articolo a cura di Filippo M. Ragusa
Il rito funebre islamico si svolge in modalità del tutto peculiari e tipicamente diverse da quello ebraico o cristiano ed è portatore di significati ed implicazioni proprie. Per comprenderle, occorre ricordare i modi in cui la dottrina e la prassi islamica concepiscono il rapporto fra i vivi e i morti, cosa prescrivono al fedele per garantirsi la salvezza dell'anima, qual è il senso della morte nei vari aspetti della cultura islamica.
L'Islam è sempre fortemente orientato alla comunità. Non stupisce pertanto che siano gli amici ed i parenti più prossimi del defunto a doversi occupare dei riti che ne propiziano il cammino nell'aldilà. Bisogna ricordare comunque che i rituali “classici” della tradizione arabo-islamica sono regolati dal Corano solo in minima parte; per lo più sono affidati alla Sunna e alla prassi consuetudinaria popolare. Ciò spiega la variabilità di forme del rito funebre a seconda dei differenti retroterra culturali su cui si è innestata, anche stabilmente, la religione musulmana. Un’ultima precisazione, che avremo modo di approfondire: in molti contesti la religiosità popolare si manifesta in forme decisamente eterodosse, spesso osteggiate da ‘ulama’ e altri garanti dell’ortodossia.
Già il momento del trapasso presenta connotati rituali. Se possibile, deve avvenire alla presenza di amici e parenti del moribondo: la loro presenza serve ad infondergli coraggio e confortarlo nell’estremo pentimento. Questo è indispensabile, in quanto l’Islam non conosce mediazioni fra il fedele e Dio: ogni musulmano è sacerdote di se stesso. Non esiste pertanto una figura che possa “assolvere” il credente dai suoi peccati, per la cui rimozione – ferma restando la sovrana volontà divina – è indispensabile un pentimento completo e volontario espresso finché il devoto è in vita. I suoi cari devono essere anche testimoni della sua ultima shahada o professione di fede.
Appena dopo la morte, un parente chiude occhi e bocca alla salma e si può procedere a lavarla, per purificarla in vista della sepoltura: la purezza del corpo è importante quanto quella spirituale, come in occasione delle preghiere quotidiane. Disteso su una barella, un tavolo o simili, la testa rivolta in direzione della Mecca, il corpo del defunto è lavato completamente un numero dispari di volte, da musulmani del suo stesso sesso, di norma i suoi parenti.
Una volta lavato, il corpo è profumato con incenso ed avvolto in un numero ancora dispari di sudari bianchi, in genere tre per gli uomini, cinque per le donne. È prescritto che la sepoltura debba avvenire prima possibile, anche nel corso del giorno stesso: imposto in origine dal clima torrido dell’Arabia, il precetto è largamente accettato presso i musulmani di tutte le latitudini. Se oggi è meno diffuso, è perché sempre più musulmani vivono, e muoiono, da emigranti: l’esperienza quotidiana dell’essere straniero porta l’uomo a cercare un radicamento forte, definitivo, ultimo, quale può essere la sepoltura in patria, per quanto lontana essa sia. È questo, fra l’altro, il caso di Mahmoud Darwish, uno dei più autorevoli interpreti del ruolo di straniero che la letteratura dell’ultimo secolo conosca, ma determinato a farsi seppellire nella sua Palestina.
Appena la salma è pronta, si procede perciò ad una preghiera collettiva chiamata Salat al-Janaza, intesa a supplicare di nuovo il perdono per i peccati del defunto e ad invocare su di lui la misericordia divina. La partecipazione collettiva alla preghiera, intesa come elemento coesivo della comunità dei credenti, è raccomandata anche a chi non lo conosceva di persona; non è invece indispensabile la presenza di un imam. Finita la preghiera, la salma viene traslata a braccia in un cimitero, il più possibile vicino al luogo dove viveva il defunto, a meno che non sia morto all’estero; in questi casi spesso prevale il desiderio di essere sepolto in patria, o quantomeno in un Paese di osservanza islamica. Di solito le donne non prendono parte alla processione, anche se nessun precetto lo vieta.
La sepoltura islamica è definitiva, non prevede cioè riesumazioni, e ove possibile non prevede l’uso di una bara; deve tassativamente avvenire in piena terra, in una fossa in cui il defunto possa essere coricato su un fianco, di nuovo con la testa in direzione della Mecca. Sono rifiutate tutte le sepolture sopra il livello del suolo, oltre alla cremazione. Bisogna porre la massima attenzione a preservare l’integrità del corpo: al momento della resurrezione sarà riunito all’anima, ed è importante che sia sepolto intatto. Lo sfarzo dei monumenti funebri è stigmatizzato: solitamente le iscrizioni si limitano al nome e alle date di nascita e di morte del defunto, senza fiori né ritratti.
Sono, o dovrebbero essere, ispirati a sobrietà anche i sepolcri dei personaggi più in vista, come uomini di Stato, celebri letterati e chi per le più varie ragioni è ritenuto vicino a Dio: è il caso, ad esempio, dei Marabut magrebini, maestri di confraternite mistiche ritenuti in possesso di un legame unico e particolare con Dio (la radice r-b-t ha appunto il significato di legare). Attorno alle loro tombe la devozione popolare ha sviluppato un culto paragonabile a quello dei santi nel medioevo cristiano, tuttora vitale nonostante le critiche dei più ortodossi.
In realtà, conformemente all’idea dell’Islam come religione “mediana” e “mediatrice” fra gli estremi dell’esperienza umana, tutti gli eccessi sono banditi dal rito, compresi quelli di espressione del dolore. Pianti disperati, urla ed atti pubblici di autolesionismo, a dispetto delle cartoline folcloristiche propinate da certi media, sono giudicati severamente nel pensiero islamico dominante: la disperazione è considerata sintomo di poca fede nella resurrezione, e i casi in cui i presenti si abbandonano ad atti d’isteria collettiva dovrebbero essere spiegati singolarmente. Della morte, spiegano gli Hadith, non ci si dovrebbe lamentare: con essa finisce solo la breve parentesi terrena della vita di un fedele, che lascia il posto all’attesa della resurrezione.
Sempre la fertile tradizione popolare ha costruito una descrizione dettagliata dell’aldilà islamico, a partire dagli angeli Munkar e Nakir, che appena dopo la sepoltura sottopongono l’anima del defunto ad un interrogatorio sulle sue azioni e sulle sue intenzioni. Se l’esito è positivo, l’anima prosegue la sua esistenza nell’attesa del Giudizio Universale, che secondo un passo coranico sarà amministrato dal profeta Gesù. L’intercessione per i morti di chi resta al mondo è considerata gradita a Dio, ma ai fini del giudizio, più delle azioni compiute in vita, si ritengono valide le intenzioni con cui sono state compiute. D’altra parte, l’ortodossia islamica non riconosce all’uomo il libero arbitrio né l’origine degli atti compiuti, ma solo il “possesso” – e la responsabilità – per atti creati comunque da Dio. Il Corano parla invece diffusamente delle circostanze del Giudizio, e fa riferimenti al paradiso e all’inferno più dettagliati degli altri testi sacri rivelati, ma comunque legati ai modelli tradizionali delle culture mediterranee: per i meritevoli, il giardino popolato da ogni sorta di piaceri, non esclusi, come è noto, quelli sessuali; un’eternità cupa e preda delle fiamme per i dannati.
Per quanto riguarda la periodizzazione islamica del lutto, i tre giorni successivi all’inumazione del defunto sono quelli del cordoglio: in casa o presso tendoni o padiglioni allestiti per l’occasione, i parenti ricevono la visita e le condoglianze dei loro cari. Si organizzano pasti comuni, espressione di solidarietà familiare e comunitaria in cui il dolore per la perdita subita si tempera nella conferma dei legami sociali. Un esempio è il ‘asha’al-mayyit, il lauto “pranzo del morto” ancor oggi in uso al Cairo, che riprende la tradizione arcaica dei banchetti funebri: il lutto si esorcizza esibendo una vitalità data dall’abbondanza e dall’atto stesso del nutrirsi, a dispetto delle esternazioni più pacate preferite dalla cultura dominante.
Pratiche accettate più ampiamente hanno luogo nel periodo successivo al cordoglio, che culmina nel quarantesimo giorno dopo la morte. In occasione di questa ricorrenza, è comunissimo che la famiglia del defunto, in visita alla sua tomba, distribuisca cibo e offerte ai custodi del cimitero e ai bisognosi locali. Alcuni giuristi interpretano questo atto come una comune elemosina (sadaqa), opera meritoria solo per chi la compie; ma molti sono altrettanto convinti che serva da intercessione per la salvezza eterna del defunto.
Cerimonie funebri che esulano dal modello finora presentato sono piuttosto rare, e proprio perciò godono di un’attenzione particolare. Gli spettatori delle televisioni occidentali si stanno abituando alle esequie di certi combattenti classificati come martiri, testimoni del messaggio divino fino all’estremo sacrificio. Oltre che dalla malafede, la frettolosa definizione di “cultura della morte” che alcuni hanno applicato al contesto arabo-islamico può derivare da una sopravvalutazione di questi eventi, fraintesi sia nella loro eccezionalità, sia nella portata dei contenuti dottrinali attribuiti al martirio – contenuti, questi, non del tutto dissimili da quelli veicolati da qualsiasi mitologia della guerra, più o meno santa, in ogni società.
In effetti, la tensione al martirio è un elemento presente quasi solo nell’ambiente sciita, dove è inteso rievocare la tragica fine di al-Hasan e al-Husayn, figli del califfo ‘Ali: imam nel senso sciita del termine, cioè guide illuminate dell’intera comunità dei credenti, dunque meritevoli di essere imitati. D’altra parte anche fra gli sciiti l’accordo sulle modalità dell’imitazione è lungi dall’essere completo: i sostenitori del martirio non sono numerosi né, spesso, in buona fede.
Altro e ben diverso esempio di funerale atipico è quello tributato alle maggiori personalità del loro tempo, ritenute tali per motivi artistici, politici, religiosi e non solo. Si pensi ad esempio alle esequie della cantante Umm Kulthum o del presidente Nasser, caratterizzate dalla partecipazione di folle oceaniche ed eterogenee, o al recentissimo funerale del poeta Mahmoud Darwish. Oltre a dimostrare l’attaccamento della gente ai suoi idoli, simili cerimonie hanno un effetto coesivo sul corpo sociale tanto più apprezzato in società meno individualiste della nostra, che pongono accenti maggiori su interessi e bisogni collettivi.

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