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Mostro di Firenze è la denominazione sintetica utilizzata dai media italiani per riferirsi all'autore o agli autori di una serie di otto duplici omicidi avvenuti fra il 1968 e il 1985 nella provincia di Firenze.
L'inchiesta avviata dalla Procura di Firenze ha portato alla condanna in via definitiva di due uomini identificati come autori materiali di 4 duplici omicidi, i cosiddetti compagni di merende: Mario Vanni e Giancarlo Lotti mentre un terzo, Pietro Pacciani, condannato in primo grado a più ergastoli per 7 degli 8 duplici omicidi e successivamente assolto in appello, è morto prima di essere sottoposto ad un nuovo processo di appello, da celebrarsi a seguito dell'annullamento della sentenza di assoluzione da parte della Cassazione. Le Procure di Firenze e Perugia sono tuttora impegnate in un'indagine volta a individuare i presunti mandanti dei duplici omicidi.
La vicenda ebbe molto risalto anche dal punto di vista sociale, suscitando estrema paura per la tipologia di vittime (giovani fidanzati in atteggiamenti intimi) ed aprendo l'opinione pubblica italiana al dibattito sull'opportunità di concedere con maggiore disinvoltura la possibilità per i figli di trovare l'intimità a casa, evitando i luoghi pericolosi[1][2][3][4][5].
Le modalità dei duplici delitti
I reati del mostro di Firenze si sono sviluppati nell'arco di quasi due decenni, e hanno riguardato giovani coppie appartatesi nella campagna fiorentina in cerca di intimità. Le costanti della vicenda attengono anche ai mezzi usati e al modus operandi dell'omicida: i delitti sono avvenuti nelle medesime circostanze di tempo e di luogo. Tranne nel duplice omicidio del 1985, in cui le vittime erano in una tenda da campeggio, tutte le altre coppie di vittime erano all'interno di autoveicoli. Luoghi appartati e notti di novilunio, o comunque molto buie, quasi sempre d'estate, nel fine settimana o in giorni prefestivi[2].
È sempre stata usata la stessa arma da fuoco, identificata in un modello di pistola Beretta appartenente alla serie 70, calibro .22 Long Rifle, in commercio dagli anni Cinquanta, probabilmente un modello con canna lunga, sviluppata come propedeutica alla disciplina sportiva del tiro a segno, caricata con munizioni Winchester marcate con la lettera "H" sul fondello del bossolo (provenienti da almeno due scatole da 50 cartucce ciascuna), con palla in piombo nudo e con palla in piombo ramato galvanicamente.
In quattro degli otto duplici omicidi, l'assassino ha asportato il pube delle donne uccise, negli ultimi due casi anche il seno sinistro delle vittime. I luoghi dei delitti (Signa, Vicchio, Calenzano, Scopeti, ecc.) erano per lo più stradine sterrate nascoste, chiamate tratturi, o piazzole frequentate da coppie in cerca di intimità. Ciò ha portato a pensare che l'assassino fosse una persona esperta dei luoghi e ad ipotizzare che seguisse le sue vittime a distanza[2]. Le indagini tracciarono il profilo dell'assassino come un uomo della zona, di media intelligenza, alto circa 1,80 m.
La serie di delitti e i primi sospettati
21 agosto 1968: L'omicidio di Antonio Lo Bianco e Barbara Locci, Signa [modifica]
La notte del 21 agosto 1968, all'interno di una Alfa Romeo Giulietta bianca posteggiata presso una strada sterrata vicino al cimitero di Signa, vengono assassinati Antonio Lo Bianco, muratore siciliano di 29 anni, sposato e padre di tre figli, e Barbara Locci, casalinga di 32 anni, di origini sarde. I due erano amanti, la donna era sposata con Stefano Mele, un manovale sardo emigrato in Toscana alcuni anni prima. Al momento dell'aggressione, intorno alla mezzanotte, i due sono intenti in preliminari amorosi. Sul sedile posteriore dorme Natalino Mele, di 6 anni, figlio di Barbara Locci e Stefano Mele. L'assassino si avvicina all'auto ferma ed esplode complessivamente otto colpi da distanza ravvicinata, quattro colpiscono la donna e quattro l'uomo. Verranno repertati cinque bossoli di cartucce calibro.22 Long Rifle Winchester con la lettera "H" punzonata sul fondello.
Intorno alle 2:00 del mattino del 22 agosto, il piccolo Natalino Mele suona alla porta di un casolare sito in via del Vingone 154, ad oltre 2 chilometri di distanza da dove è parcheggiata l'automobile del Lo Bianco. Il proprietario, sveglio per via del figlio malato che ha chiesto dell'acqua, si affaccia immediatamente alla finestra, e davanti alla porta vede il bambino che scorgendolo a sua volta gli dice: "Aprimi la porta perché ho sonno, ed ho il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa perché c'è la mi' mamma e lo zio che sono morti in macchina."[6]. Dopo averlo soccorso, l'uomo chiede a Natalino cosa sia successo, e questo stentatamente riferisce altri particolari sul suo arrivo fin lì: "Era buio, tutte le piante si muovevano, non c'era nessuno. Avevo tanta paura. Per farmi coraggio ho detto le preghiere, ho cominciato a cantare la tramontana... La mamma è morta, è morto anche lo zio. Il babbo è a casa malato."[6] I Carabinieri, chiamati mezz'ora dopo dal signor De Felice, il padrone di casa, si mettono alla ricerca dell'auto portandosi dietro il piccolo Mele. Intorno alle 3:00 del mattino l'auto viene ritrovata grazie anche all'indicatore di direzione lampeggiante, nella stradina che si trova su via di Castelletti, a 100 metri dal bivio per Comeana, in una zona abitualmente frequentata da coppie in cerca di intimità[7].
Le indagini conducono al marito della donna, Stefano Mele, 49enne manovale originario di Fordongianus all'epoca in provincia di Cagliari, ora di Oristano, che si sospetta possa aver commesso il delitto per gelosia. Questo elemento è tuttavia reso piuttosto implausibile dal fatto che lo stesso Stefano Mele aveva più volte in passato esternato un temperamento decisamente succube, giungendo persino ad ospitare in casa sua per diverso tempo tal Salvatore Vinci, suo amico ed amante della moglie, da taluni indicato come il vero padre del piccolo Natalino. I pettegolezzi del paese insinuavano persino che l'uomo, al mattino, portasse il caffè a letto agli amanti della donna e che accondiscendesse ad avere rapporti sessuali con alcuni di loro, incluso lo stesso Vinci.[8]).
Il 23 agosto, dopo 12 ore di interrogatorio[9], e dopo aver negato inizialmente un suo coinvolgimento ed aver gettato sospetti sui vari amanti della moglie, arriva a confessare il delitto. Durante il sopralluogo effettuato quello stesso giorno, l'uomo mostra di conoscere alcuni particolari che solo chi fosse stato presente all'omicidio poteva sapere, ma al contempo risulta totalmente incapace di maneggiare un'arma, e sbaglia il finestrino da cui furono portati i colpi[10]. Dopo poche ore Mele ritratta in parte la confessione, e coinvolge come complice Salvatore Vinci. Dice che è lui ad avergli fornito l'arma, ed è stato sempre il Vinci a portarlo fino alla stradina di Castelletti con la sua auto. La pistola, dopo aver sparato, il Mele l'avrebbe buttata nel canale che corre lungo il cimitero, ma l'arma malgrado le ricerche non viene mai trovata. Il pomeriggio del 24 agosto i due uomini vengono messi a confronto, nonostante il Vinci abbia portato un alibi confermato da due testimoni. Il confronto però dura molto poco, perché dopo le prime battute Stefano Mele ritratta ancora e scagiona Salvatore[11]. Non passa mezz'ora che Mele fornisce una nuova versione, e questa volta al posto di Salvatore Vinci c'è il fratello Francesco, anch'egli amante della Locci e, a detta di Mele, assai geloso della donna. Francesco Vinci per un certo periodo aveva addirittura convissuto con la Locci a casa di questa, venendo denunciato dalla propria moglie per abbandono del tetto coniugale e concubinato. Il giorno successivo, visto che quella nuova accusa non è sostenuta da riscontri, Stefano punta il dito contro un terzo amante della moglie, tal Carmelo Cutrona, asserendo che, il pomeriggio prima del delitto, si fosse recato a casa sua in cerca di Barbara e, vedendo lì presente il Lo Bianco (che Mele conosceva col nome di "Enrico"), se ne fosse andato via molto turbato. I magistrati intanto stanno nuovamente sentendo il piccolo Natalino Mele, che dopo aver sostenuto per giorni di non aver sentito, né visto nulla, adesso ammette di aver visto al suo risveglio il padre, e che questo lo avrebbe preso sulle spalle portandolo fino alla casa del Vingone dopo avergli fatto promettere di non dire nulla[12]. È a questo punto che Mele cede confermando la versione del figlio, e scagionando le altre persone accusate fino a quel momento. Nonostante le molte incongruenze, e l'assenza dell'arma, nel marzo del 1970 Stefano Mele viene condannato dal tribunale di Perugia in via definitiva alla pena di 14 anni di reclusione. La pena è piuttosto mite perché l'uomo viene riconosciuto parzialmente incapace di intendere e di volere. Gli vengono inoltre inflitti 2 anni di reclusione per calunnia contro i fratelli Vinci.[13].
Durante il processo a Stefano Mele, Giuseppe Barranca, cognato di Antonio Lo Bianco e collega di lavoro di Mele, raccontò che la Locci, pochissimi giorni prima del delitto, si era rifiutata di uscire con lui dichiarando che "potrebbero spararci mentre siamo in macchina" e, in un'altra occasione, gli aveva raccontato che c'era un tale che la seguiva in motorino. Una deposizione analoga fu resa da Francesco Vinci, che parlò di un uomo in motorino che avrebbe pedinato la Locci durante i suoi appuntamenti con gli amanti[14].
15 settembre 1974: L'omicidio di Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini, Borgo San Lorenzo
Il 15 settembre 1974 ha luogo il primo duplice omicidio di apparente natura maniacale; Pasquale Gentilcore di 19 anni, impiegato alla Fondiaria Assicurazioni, e Stefania Pettini, 18 anni, segretaria d'azienda impiegata alla Magif, vengono uccisi in una strada sterrata nella frazione di Rabatta, vicino a Borgo San Lorenzo. I due si frequentavano da circa due anni anche se non avevano ancora ufficializzato la relazione[15]. Pasquale Gentilcore, dopo aver accompagnato la sorella Cristina alla discoteca Teen Club di Borgo, promettendole di tornare a prenderla al più tardi per la mezzanotte, raggiunge la fidanzata a Pesciola di Vicchio, presso l'abitazione di lei. Da lì, verso le 22:00, i due giovani ripartono per raggiungere gli amici che li aspettano in quello stesso locale per proseguire la serata. Durante il tragitto decidono però di appartarsi in un tratturo sulle sponde del Sieve, da loro già conosciuto, e normalmente frequentato dalle coppiette della zona.[16] Intorno alla 23:45 (verrà appurato sulla base di una testimonianza che ode dei colpi a quell'ora[17]) qualcuno spunta forse dall'attiguo vitigno e comincia ad aprire il fuoco.
Pasquale Gentilcore, seduto al posto di guida, viene raggiunto da cinque colpi esplosi da una Beretta calibro.22 Long Rifle, la stessa utilizzata nel delitto del 1968; i colpi mortali arrivano dal lato sinistro della 127. La ragazza viene raggiunta da tre colpi che tuttavia non la uccidono; viene trascinata fuori dall'auto ancora viva, e uccisa con tre coltellate profonde allo sterno.[18] Dopo averne disteso il corpo dietro l'auto, l'assassino continua a colpirla per altre 96 volte, colpendo anche il seno ed il pube[19][20].
Successivamente l'omicida penetra la vagina della ragazza con un tralcio di vite; particolare questo che, anni dopo, farà pensare ad un possibile movente esoterico, ma che può anche essere interpretato come un segno di sfregio da parte dell'assassino. Considerato che il luogo del delitto era sito in prossimità di alcune piante di vite, è comunque possibile ipotizzare che il gesto non fosse premeditato. Le sevizie sul corpo della ragazza furono tanto violente da causare, in sede processuale, lo svenimento di un Carabiniere durante l'udienza in cui venivano mostrate le foto del corpo della ragazza[20]. Prima di lasciare il luogo l'omicida colpisce con il coltello anche il corpo esanime di Pasquale con 5 coltellate all'altezza del fegato [20].
In occasione di questo delitto, scoperto la mattina seguente da un contadino che abitava e lavorava da quelle parti, vengono ritrovati, sparsi sul terreno, gli oggetti contenuti nella borsetta della ragazza (particolare questo che si rivelerà costante in tutti gli omicidi). La borsa ed il reggiseno della Pettini verranno invece ritrovati sul far della sera in un luogo poco distante in seguito ad una telefonata anonima, mentre orologio e anelli della ragazza non verranno più trovati.
Il pomeriggio prima di essere uccisa, la Pettini aveva confidato ad un'amica di aver fatto uno "strano incontro" con una persona poco piacevole che l'aveva turbata, ma non ebbe tempo per approfondire il fatto. In ogni caso la ragazza non fu la sola, tra le vittime femminili del maniaco, ad aver lamentato molestie da parte di ignoti poco prima dei delitti.[21]. Gli inquirenti esaminarono anche il diario della ragazza ma senza trovarvi alcuna annotazione insolita. Qualche anno dopo i quotidiani tornarono a parlare del caso dopo che la tomba di Stefania (sepolta assieme al fidanzato, nel cimitero di Borgo San Lorenzo) fu manomessa e danneggiata da ignoti.
6 giugno 1981: L'omicidio di Giovanni Foggi e Carmela De Nuccio, Scandicci
Il primo dei due duplici omicidi del 1981 viene commesso nella notte tra il 6 ed il 7 giugno nei pressi di Mosciano di Scandicci. Le vittime sono Giovanni Foggi, 30 anni, dipendente dell'Enel, e la sua ragazza, Carmela De Nuccio, pellettiera di 21 anni. I due si conoscevano da pochi mesi ma avevano già programmato di sposarsi. La sera del delitto, un sabato, cenano a casa dei genitori di Carmela, poi, verso le 22:00, escono per una passeggiata e si appartano con l'auto, una Fiat Ritmo color rame, in una stradina sterrata sulle colline di Roveta, non lontano dalla discoteca "Anastasia", e in una zona frequentata abitualmente da coppiette e guardoni.
Giovanni viene raggiunto da tre colpi di pistola esplosi attraverso il finestrino anteriore sinistro, mentre altri cinque proiettili colpiscono Carmela.[22] In fase di sopralluogo verranno però rinvenuti solo cinque bossoli su otto[23], un particolare, quello dei bossoli mancanti, che si ripresenterà ancora nel 1983, nel 1984, e che già si era verificato nel 1974 e nel 1968. La ragazza viene tirata fuori dalla macchina e trascinata in fondo al terrapieno rialzato su cui scorre la stradina, dove le verranno recisi i jeans e, per mezzo di tre precisi fendenti, le verrà asportato interamente il pube. Anche in quest'occasione l'omicida, presumibilmente prima di lasciare il luogo del delitto, colpisce con il coltello il corpo esanime del ragazzo.
I corpi dei due giovani saranno rinvenuti il mattino dopo. L'uomo è ancora a bordo dell'auto, come nel delitto del 1974. Anche in questa occasione le armi usate sono la Beretta calibro.22 ed un coltello. Anche in questo caso si verifica l'accanimento sui cadaveri, soprattutto su quello della donna. Ma le analogie non sono finite, perché stranamente, proprio come a Borgo, la borsetta della ragazza viene rovistata, e il contenuto gettato a terra senza che però questa volta risulti mancare nulla. Per il delitto viene inizialmente sospettato l'ex fidanzato della De Nuccio, che in passato aveva avuto screzi con lei, ma il giovane risultò avere un alibi inattaccabile[24].
L'arresto di Vincenzo Spalletti
Nelle fasi successive al delitto del giugno 1981 entra in scena Vincenzo Spalletti, trentenne, sposato e padre di tre figli. Spalletti era, ai tempi, un autista di autoambulanze presso la Misericordia di Montelupo Fiorentino. Tuttavia era conosciuto in famiglia e presso la "Taverna del Diavolo", un ristorante della zona, per essere anche un guardone. Il fenomeno del voyeurismo era peraltro in quei tempi marcatamente diffuso nella provincia fiorentina.[25]
La domenica mattina seguente al duplice delitto, rientrato all'alba dopo aver trascorso la serata fuori con un amico guardone, racconterà alla moglie, e ad alcuni avventori di un bar da lui frequentato, di aver visto "due morti ammazzati"; racconterà inoltre particolari inerenti al delitto (in particolare la mutilazione inflitta alla ragazza) che non potevano essere già stati divulgati dagli organi di stampa e dai mass media.
In seguito alle indagini alcune persone testimoniarono di aver visto la sua auto nei pressi del luogo del delitto nella notte del 6 giugno. Spalletti viene quindi arrestato; durante l'interrogatorio afferma di aver letto la notizia sui giornali, cosa impossibile in quanto i giornali che riportavano il fatto non erano stati pubblicati prima di lunedì e, inoltre, mente sull'orario di rientro a casa per la notte del delitto. Viene quindi accusato di falsa testimonianza e incarcerato, ma col sospetto che l'assassino possa essere proprio lui.
Mentre Spalletti si trovava in carcere sua moglie e suo fratello ricevettero diverse telefonate anonime, in cui veniva loro assicurato che il loro congiunto sarebbe stato presto scagionato[25], cosa che in effetti accadrà nell'ottobre dello stesso anno a seguito di un nuovo duplice delitto che scagionerà completamente Spalletti [26][27].
Un conoscente dello Spalletti, anch'egli noto come guardone, sentito dagli inquirenti, asserì di essere stato fermato nei boschi, all'incirca all'epoca del delitto, da un tizio con una divisa che non aveva saputo identificare. L'uomo in divisa gli avrebbe rivolto velate minacce, rimbrottandolo aspramente e mostrandogli - a suo dire - una pistola [25].
22 ottobre 1981: L'omicidio di Stefano Baldi e Susanna Cambi, Le Bartoline
Il 23 ottobre 1981, a soli quattro mesi di distanza dal precedente omicidio, a Travalle di Calenzano vicino a Prato, in località "Le Bartoline", lungo una strada sterrata che attraversa un campo, a poca distanza da un casolare abbandonato, vengono uccisi Stefano Baldi, di 26 anni, operaio tessile di Calenzano e Susanna Cambi commessa di 24 anni. I due giovani, che avrebbero dovuto sposarsi entro pochi mesi, avevano cenato a casa di Stefano la sera prima quindi erano usciti a bordo dell'auto del giovane, una Golf nera, e non avevano più fatto ritorno. Alcuni amici del ragazzo riferirono che il Baldi inizialmente intendeva restare con loro, guardando una partita di calcio ma poi aveva cambiato idea e deciso di trascorrere la serata (vigilia di uno sciopero generale) con la fidanzata. La Cambi viene raggiunta e uccisa da cinque colpi, il ragazzo viene invece colpito quattro volte. Le cartucce sono di marca Winchester con la lettera "H" sul fondello, sparate dalla stessa Beretta calibro.22 LR, di cui solo 7 bossoli dei 9 complessivi che si sarebbero dovuti rinvenire saranno repertati.
In questo caso l'omicida, per raggiungere la ragazza e compiere l'escissione del pube, è costretto ad estrarre dall'auto anche il corpo di Stefano. Il corpo della ragazza verrà trovato ad una decina di metri dall'auto, in un canaletto, con la maglia sollevata fino al collo. Il seno sinistro presenta gravi ferite inferte con arma bianca. Anche in questo caso verranno ritrovati gli oggetti contenuti nella borsetta della vittima femminile sparsi nelle zone circostanti il luogo del delitto. Il corpo di Susanna Cambi presenta ferite da arma da taglio, almeno quattro, di cui tre alla schiena.
Il giorno successivo al delitto, prima del rinvenimento dei corpi, un uomo telefonò alla zia di Susanna chiedendo di parlare con la madre della giovane che, in effetti, in quel periodo era ospite con le due figlie presso la sorella. A causa di un guasto sulla linea tuttavia, la comunicazione venne interrotta subito. Si tratta di un particolare decisamente misterioso considerato che il numero di telefono, appartenente ad un indirizzo nuovo, era provvisorio e quindi nessuno avrebbe dovuto conoscerlo.[28] Secondo quanto sostenuto dall'avvocato Nino Filastò, inoltre, poco prima del delitto Susanna Cambi avrebbe fatto capire alla madre di essere pedinata da qualcuno. In una occasione, mentre guidava l'auto in compagnia della madre, aveva rischiato di provocare un incidente spiegandole che "un tale, il solito" la stava seguendo e che era sua intenzione evitare di incontrarlo.
19 giugno 1982: L'omicidio di Paolo Mainardi e Antonella Migliorini, Baccaiano
La notte del 19 giugno 1982, a Baccaiano di Montespertoli vengono uccisi Paolo Mainardi, meccanico di 22 anni, e Antonella Migliorini di 19, dipendente di una ditta di confezioni. I due giovani, soprannominati dagli amici "Vinavil" perché inseparabili, erano appartati a bordo di una piccola Fiat 147, in uno slargo presente sulla strada Virginio Nuova.
L'assassino sopraggiunge favorito dall'oscurità ed esplode alcuni colpi verso la coppia; Paolo viene solo ferito e riesce a mettere in moto l'auto ed inserire la retromarcia. Probabilmente a causa della concitazione del momento, tuttavia, Paolo non è in grado di controllare l'auto che attraversa trasversalmente la strada e resta poi bloccata nella proda sul lato opposto. A questo punto l'assassino spara contro i fari anteriori dell'auto e colpisce a morte i due giovani. Secondo la versione tuttora condivisa dai più e ammessa al processo, l'assassino in seguito sfilerà le chiavi dal quadro d'accensione della vettura e le getterà lontano, presumibilmente in segno di spregio.
Questo delitto si differenzia dai precedenti per almeno due motivi; innanzitutto il luogo in cui avviene l'aggressione non è appartato; a pochi chilometri di distanza, nel paese di Cerbaia è in corso la festa del Santo patrono, ed il traffico di auto lungo la strada provinciale è ridotto ma costante. In secondo luogo l'omicida, per la prima volta, non esegue le escissioni dei feticci e non ha il tempo materiale per infierire sui cadaveri, probabilmente a causa dei rischi che questa operazione avrebbe comportato, considerato che la macchina era visibilmente disposta in modo innaturale sulla strada.
Il delitto sarà infatti scoperto pochissimo dopo da una vettura sopraggiunta nel frattempo. Antonella è morta, Paolo respira ancora e viene immediatamente trasportato al vicino ospedale di Empoli, dove muore il mattino seguente senza riprendere coscienza. Sul luogo del delitto verranno messi a reperto nove bossoli di calibro.22 Winchester sempre con la lettera "H" punzonata sul fondello.
In quest'occasione il giudice Silvia della Monica, sperando di indurre il mostro a scoprirsi, convocò in Procura i cronisti che si occupavano del caso e chiese loro di scrivere sui giornali che Paolo Mainardi, prima di morire, aveva rivelato importanti informazioni utili alla ricostruzione dell'identità dell'omicida.
Sarà inoltre a seguito di questo delitto che il maresciallo Fiori, 15 anni prima in servizio a Signa, ricorderà del delitto avvenuto nell'estate del 1968, e permetterà la riapertura del fascicolo in cui verranno ritrovati i bossoli repertati quell'anno; sarà così possibile comparare i bossoli e stabilire che a sparare nel 1968 era stata la stessa arma utilizzata nel 1982. Anche questo evento non è privo di dettagli inconsueti in quanto, per legge, gli elementi raccolti nel corso di un processo devono essere distrutti a sentenza avvenuta. Va tuttavia rilevato che la pratica non è generalmente seguita nel caso in cui l'arma del delitto non sia stata ritrovata, per l'ovvia necessità di lasciare il campo a successive verifiche, cosa che si è in effetti verificata con i bossoli repertati a Signa nel 1968. Mario Spezi nel suo libro " Dolci colline di sangue" dà una versione un po' differente riguardo al collegamento dei delitti del mostro con quello del 1968 a Signa. In pratica dice Spezi che arrivò agli inquirenti una lettera anonima che conteneva un ritaglio di giornale relativo al delitto del'68 con un messaggio aggiunto a penna che recitava: "Perché non andate a rivedere il processo di Perugia contro Stefano Mele? (Il fascicolo processuale di S. Mele era effettivamente presso il tribunale di Perugia). Nel fascicolo si trovarono stranamente i famosi bossoli cal. 22 serie H in una busta spillata che permisero agli inquirenti di mettere in relazione i delitti del '68 con i successivi del 1974 - 1981 - 1982.
Francesco Vinci
Successivamente al delitto del giugno 1982, che aveva portato gli inquirenti a collegare alla serie di delitti maniacali anche quello avvenuto 14 anni prima a Signa, in maniera inequivocabile grazie ai bossoli sparati dalla medesima pistola, le indagini si rivolgeranno verso Francesco Vinci, pastore, pluripregiudicato, residente a Montelupo Fiorentino, già chiamato in causa anni prima da Stefano Mele nell'omicidio del 1968 per il quale lo stesso Mele stava in quegli anni scontando la pena a 13 anni [29]. Vinci era stato a suo tempo amante fisso della Locci (come il fratello Salvatore) e aveva addirittura abbandonato la famiglia per vivere con la donna, rimediando per questo una denuncia (da parte della moglie) per abbandono del tetto coniugale e concubinato (reato allora ancora punibile in Italia, così come del resto l'adulterio) [30].
Il Vinci viene pertanto posto in stato di fermo con l'imputazione di maltrattamenti al coniuge [31], in modo da poter approfondire alcuni aspetti e raccogliere ulteriori prove per indiziarlo dei delitti del Mostro di Firenze. Tuttavia Francesco Vinci si trovava ancora in carcere al momento in cui si compie un nuovo duplice omicidio, quello del 1983.
Scagionato da tale circostanza, e dalla successiva nuova testimonianza di Stefano Mele, Vinci resta in carcere per tre anni a causa di una condanna per furto di camion, ma viene completamente scagionato dalle accuse per gli omicidi [32]
Francesco Vinci fu trovato assassinato nell'agosto 1993 insieme ad un amico, tal Angelo Vargiu, in una pineta nei pressi di Chianni. I loro corpi, incaprettati, erano stati rinchiusi nel bagagliaio di una Volvo data alle fiamme. Si ipotizzò un collegamento con la vicenda del "mostro", quasi subito scartato [33], ma più probabilmente, date anche le modalità del delitto, ad una vendetta nata in ambienti malavitosi sardi attorno ai quali pare che Vinci gravitasse. Il caso è rimasto sostanzialmente insoluto. [34]
9 settembre 1983: L'omicidio di Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe Rüsch, Giogoli
Il 9 settembre 1983 a Giogoli di Scandicci, in un furgone fermo per la notte in uno spiazzo, vengono assassinati due turisti tedeschi, Jens-Uwe Rüsch e Horst Wilhelm Meyer, entrambi di 24 anni, studenti presso l'università di Münster che al momento dell'aggressione si trovavano a bordo del loro furgone Volkswagen T1 con l'autoradio accesa. I ragazzi vengono raggiunti e uccisi da sette proiettili, sparati con una certa precisione attraverso la carrozzeria del furgone, di cui però saranno repertati solo 4 bossoli Winchester. Le indagini successive al delitto permetteranno di stabilire che i colpi sono stati sparati all'incirca da un'altezza di 1 metro e 30 centimetri da terra - il che fa supporre che l'assassino sia alto almeno 1 metro e 80 centimetri o anche di più. L'assassino fredda dapprima Meyer con tre colpi in rapidissima sequenza, mentre Rüsch tenta inutilmente la fuga ma viene colpito da quattro proiettili, di cui uno al cervello, e si accascia sul fondo dell'automezzo. Una volta uccisi i due giovani, l'assassino sale sul retro del furgone e, accortosi che le vittime sono entrambe di sesso maschile, si dilegua senza compiere escissioni né usare armi bianche. Denaro e macchine fotografiche appartenuti alle vittime non vengono toccati né sembra mancare alcunché di valore. In questo caso, l'assassino fu probabilmente tratto in errore dai capelli lunghi e dalla corporatura esile di Rüsch. Nelle vicinanze del camper furono rinvenute alcune riviste "a contenuto probabilmente omosessuale" stracciate, ma non è mai stato appurato se appartenessero ai giovani, né se i due fossero effettivamente amanti.
La pista sarda
Si pensava quindi che il mostro, non potendo essere Stefano Mele, che era detenuto nel periodo in cui il mostro aveva continuato a colpire, né Francesco Vinci, potesse invece essere un altro personaggio appartenente alla sua cerchia di frequentazioni e conoscenze. Furono pertanto indiziati ed inquisiti Giovanni Mele, fratello di Stefano, e Piero Mucciarini, cognato di Giovanni Mele[35]. Sulla base di nuove rivelazioni di Stefano Mele, che in alcune deposizioni accusò il fratello ed il cognato di aver partecipato all'omicidio della moglie [36], e con l'aggravante di alcuni indizi materiali (tra cui un bisturi in possesso di Giovanni Mele), Piero Mucciarini e Giovanni Mele restano per otto mesi detenuti con l'accusa di essere gli autori dei duplici omicidi[36]. I due vengono scarcerati, ed escono dall'inchiesta [37], non essendoci a loro carico indizi tanto gravi da giustificarne il rinvio a giudizio, ed essendo i due detenuti nel periodo in cui fu commesso l'omicidio di Claudio Stefanacci e Pia Rontini [38][39].
Per un certo periodo venne indagato per gli omicidi anche Salvatore Vinci, fratello di Francesco[40][41].
Stefano Mele morì nel 1995 per una crisi cardiaca a seguito di un intervento chirurgico, mentre risiedeva in uno ospizio per ex detenuti a Ronco all'Adige, presso Verona[42].
29 luglio 1984: L'omicidio di Claudio Stefanacci e Pia Rontini, Vicchio
Le vittime del penultimo delitto del Mostro di Firenze sono Claudio Stefanacci, studente universitario di 21 anni e Pia Gilda Rontini di 18 anni, da poco tempo impiegata presso il bar della stazione di Vicchio nel Mugello. L'auto dei giovani, una Panda celeste, è parcheggiata in fondo ad una strada sterrata che si diparte dalla Strada Provinciale Sagginalese, contro il terrapieno di una collina. Quando vengono aggrediti, i due ragazzi sono seminudi sul sedile posteriore della Fiat Panda di proprietà del ragazzo. L'omicida spara attraverso il vetro della portiera destra colpendo il ragazzo quattro volte (di cui una alla testa), e due volte la ragazza (colpita al volto ed al braccio che aveva probabilmente steso di fronte alla faccia come estremo gesto di difesa)[43].
In seguito l'assassino infierisce con diverse coltellate sui corpi dei due ragazzi, colpendo due volte alla gola Pia e una decina di volte Claudio. Pia viene trascinata, ancora viva anche se ormai in agonia, fuori dalla vettura in un vicino campo di erba medica, dove le vengono asportati il pube e il seno sinistro. Verrà ritrovata con il proprio reggiseno ancora serrato tra le dita della mano destra [43]. La catenina che portava è stata strappata ed è stato rubato il pendente a forma di croce. In questo caso la borsetta non è stata frugata né manomessa, presumibilmente perché nascosta sotto il sedile del passeggero.
I cadaveri vengono scoperti prima dell'alba da alcuni amici della coppia, ma l'allarme per la scomparsa dei due era stato dato già verso le 23 circa dalla madre della Rontini, preoccupata per l'insolito ritardo della figlia che, al momento di uscire di casa, poco dopo le 21, aveva promesso di rientrare entro un'ora essendo stanca dopo aver lavorato tutto il giorno.[44]. Anche in questo caso pare che la vittima femminile avesse subito molestie da parte di ignoti nei giorni precedenti al delitto. Un'amica di famiglia di Pia, conosciuta durante un soggiorno di studio in Danimarca e che in seguito aveva intrattenuto con lei relazioni di corrispondenza, riferì tempo dopo di aver ricevuto una telefonata dalla giovane, pochissimo tempo prima del delitto, in cui Pia le riferiva che nel bar dove lavorava "c'erano persone poco piacevoli assieme alle quali si sentiva molto insicura"[45].
Tale fatto sembra peraltro avvalorato da un riscontro raccolto in una fase successiva al delitto; il Sig. Bardazzi gestore di una tavola calda in località San Piero a Sieve aveva dichiarato di riconoscere nei due fidanzatini uccisi una coppia che nel pomeriggio del 29 luglio 1984, poche ore prima dell'omicidio, si era fermata presso il suo locale. Subito dopo di loro, secondo il teste, era arrivato un "signore distinto", alto, corpulento, sguardo intenso, in giacca e cravatta, dai capelli rossicci, che aveva ordinato una birra e si era seduto all'esterno del locale, senza staccare gli occhi dalla ragazza. Non appena i giovani avevano terminato di mangiare e si erano avvicinati alla cassa, l'uomo aveva bevuto d'un fiato la birra e si era accodato a loro. Invitato a partecipare ai funerali delle vittime, tuttavia, non riconobbe il "signore distinto" tra i presenti.[44].
Nel marzo del 1994 le croci piantate sul luogo del delitto dal padre di Pia Rontini in memoria dei due giovani assassinati sono state danneggiate da ignoti [46]
8 settembre 1985: L'omicidio di Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot, Scopeti
L'ultimo duplice delitto (e quello su cui si hanno più particolari e riscontri [47]) avviene nella campagna di San Casciano Val di Pesa in frazione Scopeti, all'interno di una piazzola attorniata da cipressi in cui erano solite appartarsi le giovani coppie[48] Le vittime sono due giovani francesi, Jean-Michel Kraveichvili, musicista venticinquenne, e la trentaseienne Nadine Mauriot, commerciante, madre di due bambine piccole recentemente separata dal marito, entrambi provenienti da Audincourt.
Le vittime sono accampate in una piccola tenda ad iglù a poca distanza dalla strada. L'omicidio è stato fatto risalire da taluni alla notte di domenica 8 settembre 1985, da altri a quella tra sabato 7 settembre e domenica 8 settembre 1985, considerazione motivata con la presenza sui cadaveri delle vittime di larve di mosca che necessitano di almeno 25 ore di tempo per svilupparsi [44] e col fatto che Nadine Mauriot aveva avvertito i parenti in Francia che sarebbe rientrata dalla vacanza al più tardi domenica sera per accompagnare a scuola le figlie il giorno successivo e riaprire il negozio di sua proprietà [49]. Una coppia che si era appartata nella piazzola del delitto nelle prime ore del pomeriggio di domenica 8 settembre 1985, inoltre, riferì di aver notato la tenda delle vittime all'interno della quale sembrava esservi una persona distesa, e parlò di "un nugolo di mosche" e di "cattivo odore" nella zona, tanto che i due ragazzi decisero di andarsene [44].
Le modalità dell'aggressione sono simili a quelle precedentemente messe in pratica dall'omicida, eccettuato il fatto che, in questo caso, le vittime non si trovavano in auto ma in una tenda piantata vicino alla propria Volkswagen: il mostro, dopo aver forse reciso con un coltello il telo esterno della tenda sulla parte posteriore, si sposta verso l'ingresso della tenda e spara. Nadine muore all'istante, il giovane Jean-Michel, ferito non mortalmente, riesce ad uscire dalla tenda e a fuggire di corsa in direzione del bosco, ma viene raggiunto dall'omicida che lo finisce a coltellate e poi ne occulta il corpo, cercando di nasconderlo in una pila di rifiuti poco distante dalla tenda [50].
Dopo averlo estratto dalla tenda per effettuare le mutilazioni sul pube e sul seno sinistro, anche il cadavere della donna viene in qualche modo occultato e risistemato all'interno della tenda in modo che non sia visibile. Il modus operandi particolare attuato dall'omicida in quest'ultimo delitto lascia presupporre che l'assassino avesse l'intento di ritardare il più possibile la scoperta dei corpi. Un brandello del seno della ragazza viene spedito alla Procura della Repubblica di Firenze in una busta anonima con l'indirizzo composto da lettere di giornali ritagliate, indirizzato alla dottoressa Silvia Della Monica, PM incaricato delle indagini sul mostro [51]. La scoperta dei corpi avverrà, per puro caso, poche ore prima che la lettera giunga in Procura vanificando così il macabro piano dell'omicida.
I "compagni di merende"
Per approfondire, vedi la voce Compagni di merende.
Pietro Pacciani
Precisamente negli anni novanta, con l'arrivo a capo della Squadra Mobile di Firenze di Michele Giuttari, le indagini si concentrarono, dopo una segnalazione anonima e dopo alcune analisi da parte della procura su persone abitanti nella zona degli omicidi [2], prima su Pietro Pacciani, un agricoltore di Mercatale in Val di Pesa, e successivamente su alcuni amici di Pacciani coinvolti nella vicenda: Vanni, Lotti, Pucci, e Faggi [52][53][54] (quest'ultimo prosciolto nel 1996 da ogni accusa riguardante gli omicidi [55][56]).
Nato ad Ampinana il 7 gennaio 1925, ex partigiano [57] soprannominato "il Vampa" per una bravata che gli aveva ustionato il viso, Pacciani era un uomo collerico e violento indipendentemente dal giudizio per i delitti del mostro. A ventisei anni Pacciani sorprende la fidanzata, Miranda Bugli (appena quindicenne), in atteggiamenti intimi con un altro uomo, tal Severino Bonini di 41 anni e uccide a coltellate il rivale costringendo poi la ragazza ad avere un rapporto sessuale proprio accanto al cadavere; al processo l'imputato dichiarerà d'essere stato accecato dal furore avendo visto la fidanzata denudarsi il seno sinistro [58](proprio quello che in due casi viene asportato alle vittime del pluriomicida). Per questo fatto Pietro Pacciani è condannato (e sconta) 13 anni di carcere. L'analogia di questo delitto con quelli del "mostro" sarà l'indizio che guiderà gli inquirenti sul Pacciani. La violenza dell'agricoltore si riversa sulla moglie Angiolina Manni (bastonata e costretta a rapporti sessuali) e sulle due figlie Rosanna e Graziella[59], nutrite con cibo per cani, picchiate, violentate con falli artificiali e zucchine, costrette a visionare foto del padre in pose pornografiche [58].
Pacciani viene arrestato con l'accusa di essere l'omicida delle otto coppie di giovani il 17 gennaio 1993. Il 1 novembre 1994 inizia il processo che rivela le atroci violenze familiari [2] e che si conclude con la condanna dell'imputato all'ergastolo da parte del tribunale di Firenze con l'accusa di essere il responsabile di quattordici dei sedici omicidi per cui era imputato [60].
Ad incastrare Pacciani ci sono molti elementi, tra cui intercettazioni telefoniche, un bossolo di pistola compatibile con quelli trovati sui luoghi degli omicidi, trovato a casa sua [61], alcuni oggetti che l'accusa ritenne appartenessero ad alcune delle vittime [2][62][63] oltre alle testimonianze di Lotti e di altre persone che lo riconobbero nei luoghi degli omicidi [64][65].
Altri elementi a carico di Pacciani sono stati i grossi movimenti di denaro sul conto bancario dello stesso, cifre enormi per un agricoltore all'epoca dei fatti [66], che portarono successivamente ad ipotizzare che Pacciani ricevesse denaro per eseguire gli omicidi su commissione da parte di mandanti mai identificati [2][67].
Il 13 febbraio 1996 Pacciani (in carcere da 1.100 giorni) è assolto dalla corte d'appello per non aver commesso il fatto [68], l'assoluzione è però viziata da un errore tecnico che non consentì di sentire e verbalizzare le testimonianze di quattro persone direttamente coinvolte nel gruppo dei Compagni di merende, tra cui anche Lotti, che pochi mesi dopo si autoaccuserà di uno degli omicidi e fornirà elementi a carico di Pacciani e Vanni; in conseguenza di ciò, il 12 dicembre 1996 la corte di Cassazione annulla l'assoluzione e dispone un nuovo processo[69] che Pacciani non potrà subire a causa della morte.
Nel luglio del 1996, la moglie chiede la separazione da Pacciani [70], e anche dopo l'assoluzione del marito decide di abbandonare la casa e chiudere ogni relazione con il coniuge fino alla morte, avvenuta ad 80 anni nel 2005 [71].
Nel dicembre del 1996, Pacciani viene rinviato a giudizio per sequestro e maltrattamenti ai danni della moglie [72]. In particolare gli inquirenti addebitavano a Pacciani di aver aggredito la moglie nel 1992, al ritorno della stessa da un interrogatorio durante il quale la signora avrebbe rilasciato dichiarazioni compromettenti per il marito [72]. La reazione di Pacciani fu registrata e ascoltata in diretta dalla polizia che aveva apposto alcune microspie nella casa del contadino[2].
Il 22 febbraio 1998 viene trovato morto nella sua abitazione di Mercatale con i pantaloni abbassati e il maglione tirato in alto fino al collo. Un esame tossicologico rivela nel sangue tracce di un farmaco antiasmatico fortemente controindicato per lui (affetto da una malattia cardiaca). Le circostanze sospette della morte provocano ulteriori ombre sulla vicenda che sembrava essere giunta ad una conclusione [2][73]. Pacciani infatti, dopo la sentenza di assoluzione di secondo grado, era tornato ad abitare nel suo casolare, dove la sera era solito "barricarsi in casa", sprangando la porta e tutte le serrande, quasi avesse timore di qualcosa (così le testimonianze dei vicini)[74]. La sera in cui i Carabinieri lo trovarono morto nella sua abitazione, la porta e le finestre erano completamente spalancate, e le luci spente. Le successive intercettazioni telefoniche, relative al "caso Narducci" (vedi apposito paragrafo sotto), fanno emergere la possibilità che Pacciani sia stato ucciso dagli appartenenti ad una setta satanica perché colpevole di averli traditi[74].
Mario Vanni
Nato a San Casciano in Val di Pesa il 23 dicembre 1927, di professione portalettere, Vanni, detto "Torsolo", è rimasto particolarmente famoso come inventore involontario della locuzione "compagni di merende", che i media ricavarono dalla caricatura di una sua espressione. Sentito infatti come testimone al processo contro Pacciani, il postino, alla domanda «Signor Vanni, che lavoro fa lei?» rispose in modo inatteso e illogico «Io sono stato a fa' delle merende co' i' Pacciani no?», suscitando l'ilarità generale e facendo supporre al PM che fosse stato istruito alle risposte. Il suo continuo, goffo e reticente riferimento a tali "merende", oltre a determinarne l'incriminazione, produsse l'ironico modo di dire, usato per indicare persone legate da un rapporto losco.
Vanni viene arrestato in concomitanza con l'assoluzione (poi annullata) di Pietro Pacciani, per concorso in duplice omicidio e villipendio di cadavere, messo in atto secondo l'accusa proprio assieme a Pacciani [68][75].
Il Vanni ha dimostrato durante lo svolgimento del processo un atteggiamento ostile nei confronti dei giudici, dettato in maggior parte dall'ignoranza, dall'abuso di alcol, dalla paura e dalla sua età avanzata, che non gli permetteva forse di comprendere lucidamente lo svolgersi delle udienze. Viene spesso richiamato e allontanato dall'aula, fino ad essere espulso dopo aver lanciato una maledizione sul PM e aver dichiarato la sua fede per Mussolini [2].
Dei "compagni di merende", Vanni fu condannato al carcere a vita. La condanna, per soli quattro degli otto duplici omicidi, è stata resa definitiva nel 2000 dalla Corte di Cassazione. Nel 2004 la pena gli viene sospesa per motivi di salute, e Vanni trascorre i suoi ultimi cinque anni di vita in una casa di riposo per anziani non autosufficienti a Pelago, in provincia di Firenze. Ricoverato il 12 aprile 2009 all'ospedale toscano di Ponte a Niccheri è morto il giorno dopo [76]. Era l'ultimo compagno di merende ad essere rimasto in vita.
Giancarlo Lotti
Giancarlo Lotti, detto "Katanga", fu condannato a 26 anni di reclusione per i delitti del mostro. A differenza di Vanni e Pacciani, che protestarono sempre la loro innocenza, Lotti rese confessione[2], e accusò in maniera precisa Pacciani e Vanni [50] fornendo particolari di alcuni omicidi cui aveva assistito [77] e autoaccusandosi [78] dell'omicidio dei due ragazzi tedeschi [79]. Le testimonianze di Lotti si rivelano decisive nel chiarire molti aspetti della vicenda, nonostante il legale dello stesso Lotti e alcuni periti indichino Lotti come poco attendibile [80]. Va detto per completezza d'informazione che nel corso del dibattimento processuale ai cosiddetti "compagni di merende" e nei controinterrogatori fatti al Lotti dalla difesa di Mario Vanni (Avv.Filastò) si evidenziarono numerose incongruenze in ciò che riportava lo stesso Lotti; in pratica riferì il Lotti alcuni fatti e particolari dei delitti che oggettivamente non potevano essere considerati attendibili. Giancarlo Lotti viene scarcerato nel marzo 2002 per gravi motivi di salute. Muore qualche settimana dopo a causa di tumore al fegato[81].
Fernando Pucci, amico dei tre compagni, pur non subendo condanne per i delitti, testimoniò contro Pacciani e Vanni come testimone oculare di alcuni omicidi [77] rischiando l'incriminazione a causa delle deposizioni spesso reticenti e contraddittorie[82].
La pista esoterica
Le indagini sui delitti del mostro e sui compagni di merende hanno successivamente condotto gli inquirenti ad ipotizzare l'esistenza di una sorta di sovrastruttura mandante dei delitti[83]. Tale ipotesi si basa su alcune dichiarazioni del teste e imputato Giancarlo Lotti, il quale ha dichiarato in sede processuale che i feticci escissi dai corpi femminili sarebbero stati comprati da personaggi ignoti ed altolocati[2], e sul ritrovamento di un possibile simbolo esoterico, una piramide di granito colorato (una rara varietà di una pregevole pietra ornamentale, nota come breccia africana) di circa quindici centimetri, rinvenuta ad alcuni metri dai corpi esanimi di Giovanni Foggi e Carmela De Nuccio in occasione del delitto del giugno 1981.[84]
Altri riscontri di supposta simbologia esoterica si sono avuti in occasione dell'ultimo delitto della serie, quello del 1985 a danno dei due turisti francesi; pochi giorni prima di essere assassinati i due si erano accampati in zona Calenzano ma erano stati invitati ad andarsene da un guardacaccia, in quanto il campeggio libero non era consentito in quella zona[2]. In seguito lo stesso guardacaccia aveva rinvenuto, poco distante dal luogo in cui Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili si erano accampati la prima volta, tre cerchi di pietre, di cui due aperti ed uno chiuso, contenenti bacche, pelli di animali bruciate e croci di legno. Secondo il parere di alcuni specialisti tali cerchi di pietre potrebbero essere ricondotti a pratiche di tipo esoterico, da collegarsi con le fasi di individuazione, condanna a morte ed esecuzione materiale della coppia[2]. Tuttavia l'episodio del guardiacaccia è stato recentemente smentito dall'avvocato dei familiari delle vittime francesi, che a tal proposito ha diffuso anche un documento Pdf liberamente consultabile.[85]
Le frequentazioni di Pacciani e Vanni durante gli anni degli omicidi alimentarono il filone d'inchiesta su possibili moventi esoterici e riti legati al satanismo alla base dei delitti [86][87]. In particolare Pacciani e Vanni frequentavano un tale "mago indovino", presso una cascina situata nei dintorni di San Casciano, dove si consumavano orge e riti collegabili all'occultismo.[74]. Durante le perquisizioni eseguite dalla Polizia di Stato a casa di Pacciani sono stati trovati almeno tre libri ricollegabili alla magia nera e al satanismo.[74]
La pista esoterica trova riscontro anche in virtù delle grosse somme di denaro delle quali entrò in possesso Pacciani negli anni dei delitti, che rendono meno ipotetica la teoria secondo cui i Compagni di Merende agissero per conto di personalità rimaste nell'ombra[88][89], interessate a ricavare i feticci dai corpi mutilati [83]. Pacciani, modesto contadino, arrivò addirittura a disporre di 157 milioni di lire (dell'epoca) in contanti e buoni postali fruttiferi, oltre ad aver acquistato due case e ristrutturato la sua abitazione[74]. I controlli eseguiti dalla Polizia di Stato evidenziarono che Pacciani, prima dei delitti attribuibili al "Mostro di Firenze", versava in condizioni di grande povertà, e non ereditò beni che potessero giustificare la improvvisa ricchezza[74].
Possibili collegamenti con il caso Narducci
Ulteriore tesi è quella che vede nel responsabile dei delitti, o in uno dei capi della misteriosa setta che avrebbe commissionato gli omicidi seriali, il dottor Francesco Narducci, medico e professore universitario perugino morto nel Lago Trasimeno a trentasei anni nel 1985, a poche settimane dall'ultimo degli omicidi del mostro. La morte, all'epoca, fu archiviata come incidente e la salma fu tumulata senza procedere ad autopsia, apparendo abbastanza chiara la causa di morte (annegamento) .
Il coinvolgimento di Narducci si fonda sull'intercettazione telefonica di un gruppo di pregiudicati umbri che avrebbero minacciato una tale "Dora"[74] di fargli fare la stessa fine del "medico ucciso sul Trasimeno", velato riferimento alla morte dello stesso Narducci, rinvenuto cadavere al largo dell'isola Polvese, e sulla base di alcune lettere anonime ricevute dagli investigatori nei mesi successivi, nelle quali veniva collegato il medico agli omicidi.[90]. Alcuni esperti del caso, scettici rispetto alla figura del Narducci coinvolto nelle vicende del mostro, affermano che in realtà il personaggio citato nella famosa intercettazione alla Sig.ra Dora non fosse il Narducci ma un altro medico implicato in un giro di usurai che poi si suicidò al lago Trasimeno.
In seguito furono intercettate altre telefonate minacciose rivolte a "Dora": in una di queste una voce femminile (molto alterata) faceva riferimento, oltre al presunto omicidio di Narducci, anche all' "omicidio di Pacciani". Secondo la voce al telefono entrambi gli omicidi erano stati eseguiti dagli appartenenti ad una setta satanica, perché le vittime erano colpevoli di averli traditi[74]: la stessa fine, nella telefonata, era minacciata anche a "Dora".[91].
Le telefonate intercettate, insieme ad altri elementi, portarono ad ipotizzare che il Narducci sia stato assassinato dagli stessi membri della presunta setta, o comunque dagli altri componenti del gruppo autore degli omicidi, in quando oramai ritenuto un pericolo a fronte della sua volontà di rivelare la matrice dei delitti o di dissociarsi dalla stessa [92].
Nel 2002 venne riesumata la salma, sulla quale esame autoptici dimostrarono la presenza di ferite compatibili con lo strangolamento, e con tracce di narcotizzanti nei tessuti [93].
Proprio il presunto omicidio del medico umbro, legato alla sostituzione del suo cadavere [93][94] con quello di uno sconosciuto in maniera tale da insabbiare le indagini sulle effettive cause della morte nell'autunno del 1985, ha dato luogo all'avvio di una inchiesta giudiziaria da parte della Procura della Repubblica di Perugia, profilando il coinvolgimento di una loggia massonica, alla quale apparteneva il padre di Narducci[95], sia nella copertura degli omicidi del mostro che nella sostituzione del cadavere[96][97]. Secondo Ugo Narducci invece, il figlio Francesco si tolse volontariamente la vita a seguito di diagnosi mediche che gli attribuivano un grave problema di salute [95].
Nel giugno del 2009, una parte dell'inchiesta relativa alle modalità della fine del medico perugino è stata archiviata dal GIP del capoluogo umbro[98]. Mario Spezi e Francesco Calamandrei, indagati, insieme a due pregiudicati, nella vicenda, sono stati prosciolti da ogni addebito e con formula piena.[99] Per quanto riguarda la presunta morte per omicidio di Narducci, il gip ha disposto l'archiviazione, accogliendo la richiesta del pubblico ministero. Nelle motivazioni dell'archiviazione, comunque, il gip ha riconosciuto al pubblico ministero degli interessanti spunti investigativi, non sufficienti però a sostenere una richiesta di rinvio a giudizio.[100].
Un altro filone dell'inchiesta, relativo a presunti depistaggi, operati da vari soggetti istituzionali e dalla famiglia di Narducci, finalizzati a nasconderne l'omicidio e sostituire il cadavere, è stato aperto dalla Procura della Repubblica di Perugia.[101] In particolare si contestava a membri della famiglia di Narducci, e a vari esponenti delle istituzioni, il reato di associazione per delinquere finalizzata all'occultamento di cadavere. I soggetti, secondo l'accusa, in concorso tra di loro, avrebbero occultato le reali modalità della morte di Narducci, sostituendo il cadavere con quello di uno sconosciuto[101]. Inoltre avrebbero impedito la autopsia sul cadavere, assolutamente di prassi in casi simili di sospetto annegamento: la autopsia non fu eseguita all'epoca, ma soltanto dopo la riapertura delle indagini da parte della Procura di Perugia. Il 20 aprile 2010, all'esito dell'udienza preliminare davanti al Gip di Perugia, tutti gli imputati vengono prosciolti da tali accuse di irregolarità e depistaggio[102][103].
Francesco Calamandrei, il farmacista
Nel 2004 viene perquisito (per la terza volta) l'appartamento di un farmacista di San Casciano in seguito alle indagini per gli ultimi quattro omicidi. Questa volta però gli viene notificato anche un avviso di garanzia[104]. L'uomo, secondo l'accusa, è il "mandante" degli omicidi, il cui scopo è quello di prelevare parti anatomiche dai cadaveri per usarle durante riti satanici. La principale testimone dell'accusa è la moglie, affetta da una malattia mentale[105].
Il 21 maggio 2008, al termine di un processo con rito abbreviato iniziato nel settembre 2007, Calamandrei (che era indagato anche nell'inchiesta sulla morte di Narducci come possibile mandante dell'omicidio del medico perugino [106][107]) viene assolto con formula piena dalle accuse in quanto il fatto non sussiste[108].
Ipotesi alternative alle sentenze giudiziare
Ipotesi del serial killer solitario legato alla pista sarda
Una tesi seguita negli ultimi anni e profilata ad esempio da Mario Spezi nel libro Dolci colline di sangue del 2006, è quella secondo cui il mostro sarebbe un individuo legato al "clan dei sardi", già indagato marginalmente nelle vicende degli omicidi seriali.
La tesi di Spezi muove dalla ricostruzione del primo omicidio del 1968 ritenendo che l'omicidio di Lastra a Signa venne effettivamente commesso per ragioni sentimentali e d'onore da parte di soggetti legati alle famiglie Mele e Vinci, con la Beretta e le cartucce utilizzati successivamente dal mostro.
Tuttavia, il mostro sarebbe del tutto estraneo a tale vicenda essendosi appropriato solo successivamente della pistola e le munizioni per avviare, dal delitto del 1974, la catena seriale di omicidi[2].
Secondo Spezi solo un componente delle famiglie coinvolte nel primo delitto del 1968 avrebbe potuto appropriarsi di pistola e cartucce, essendo del tutto improbabile una casuale cessione, da parte del detentore, di un'arma e di una scatola di cartucce già utilizzati in un omicidio (quello del 1968, e quindi potenzialmente a rischio per lo stesso venditore). Sarebbe secondo Spezi soprattutto da escludere una cessione volontaria a soggetti estranei a quell'ambiente familiare, come pure un casuale e contemporaneo rinvenimento da parte di terzi di pistola e cartucce[2]. Secondo il giornalista gli omicidi sono da attribuire ad una sola persona, un serial killer che avrebbe sempre agito da solo.
Mario Spezi è stato arrestato nel 2006 con l'accusa di depistaggio delle indagini e calunnia, proprio in conseguenza della sua propensione per la Pista Sarda, cosa che lo avrebbe portato, secondo la tesi accusatoria a creare false prove al fine di portare gli investigatori sulla strada da lui voluta [109][110][111].
Scarcerato dopo 23 giorni di detenzione (di cui 12 di isolamento)[112] al carcere di Perugia, nel giugno 2009 Spezi è stato prosciolto da ogni accusa [113].
Ipotesi del serial killer in divisa
Un'altra ipotesi di rilievo, contrastante e critica con le sentenze giudiziarie, è quella espressa dell'avvocato fiorentino Nino Filastò nel suo libro Storia delle Merende Infami.[114]
Il libro, pubblicato da Maschietto Editore nel 2004, è una sorta di controinchiesta sui delitti delle coppiette. Lo scrittore-avvocato, che investiga sul caso dai primi anni '80, oltre ad essere stato il legale di Mario Vanni, tenta di mostrare l'innocenza dei compagni di merende con un'analisi globale su tutta la vicenda. Si mettono in luce le incongruenze del pentito Giancarlo Lotti, e si criticano le modalità di indagine. Filastò aveva già scritto, a metà anni '90, un saggio sull'argomento chiamato Pacciani Innocente.
Nell'ipotesi di Filastò il mostro è un serial killer di tipo lust murder, mai entrato nelle indagini ed affetto da una grave patologia sessuale.[115] Alcuni elementi, come per esempio il libretto di circolazione trovato fuori posto nella macchina di una coppietta uccisa, oppure la capacità del mostro di avvicinarsi agevolmente alle vetture, portano l'avvocato ad inquadrare il serial killer come un "uomo in divisa". Radicale è anche la critica di Filastò verso le teorie esoteriche e "di gruppo" sulla vicenda, ritenute antistoriche e criminologicamente incompatibili con delitti seriali di stampo maniacale.[116]
Ulteriori teorie
Sulla vicenda si riscontrano anche ulteriori ipotesi, più o meno discordanti con i verdetti dei processi. Il caso-mostro è un evento e un'indagine dalla durata pressoché quarantennale (dal 1968 ad oggi, con i primi quattro omicidi ancora ufficialmente insoluti); è inevitabile dunque una grande varietà di opinioni. Oltre alle più celebri ipotesi "non ufficiali" di Spezi o Filastò, si registrano altre teorie su chi ha commesso i cosiddetti delitti delle coppiette. Secondo il noto criminologo Francesco Bruno, il mostro sarebbe un soggetto unico, mosso da delirio religioso e suggestioni esoteriche.[117] Invece Francesco Ferri, guidice che assolse Pacciani nel processo d'appello ed autore del polemicissimo Il caso Pacciani. Storia di una colonna infame? [118], si riallaccia all'idea originaria dell'ignoto serial killer lust murder, ipotizzato sia dal profilo dell'Fbi che dall'italiana perizia De Fazio. Sono presenti anche idee alternative più di stampo cosiddetto "cospirazionista", che vedono i delitti come fatti di sangue legati a strategie occulte di organizzazioni internazionali.[119] Tornando a teorie che ipotizzano il mostro come legato alla "pista sarda", si segnala l'idea di un detective privato che riporta dubbi e retroscena su uno dei primi sospettati.[120]
Filmografia
Nel febbraio 1986 esce con poca risonanza e in poche città italiane L'assassino è ancora tra noi, film realizzato frettolosamente e con pochi mezzi che, pur cavalcando l'onda emotiva dell'ultimo duplice delitto del 1985, passerà del tutto inosservato. Tre mesi dopo, distribuito dalla Titanus di Goffredo Lombardo, arriva sugli schermi Il Mostro di Firenze, tratto dall'omonimo libro del 1983 del giornalista e scrittore Mario Spezi e diretto da Cesare Ferrario.[121]. Sempre negli anni immediatamente successivi all'ultimo duplice delitto, viene messo in produzione un'altra pellicola, intitolata Tramonti Fiorentini, diretta da Gianni Siragusa. Dopo alcune settimane la lavorazione fu interrotta e del film non se ne seppe più nulla. Lo sceneggiatore Daniele Stroppa, su interessamento di Aristide Massaccesi, provò a scrivere un trattamento per completare il film, ma le cose si fermarono un'altra volta. Alla fine pare che Gianni Siragusa riuscì a completare le riprese (prendendo alcune scene dal film di Camillo Teti) e il film uscì molti anni dopo nel 1997 direttamente in vhs, col titolo 28° minuto.[senza fonte]
Nel settembre 2008 l'americano Tom Cruise ha acquistato i diritti per portare prossimamente sul grande schermo un adattamento del libro Dolci colline di sangue (The monster of Florence) di Mario Spezi e Douglas Preston[122].
Il regista Antonello Grimaldi realizza nella primavera 2009 la serie televisiva Il mostro di Firenze, una ricostruzione della vicenda dal 1981 al 2006 per il canale tv Fox Crime: 6 parti da 45 minuti ciascuna di durata, che vanno in onda dal 12 novembre al 10 dicembre 2009.[123]
Delle vicende del mostro si sono occupate varie trasmissioni tv: Un giorno in pretura, Blu Notte , Chi l'ha visto?, Enigma, Giallo Uno, Top Secret e Delitti-Speciale.
Bibliografia [modifica]
Giuseppe Alessandri. La leggenda del Vampa. Loggia De Lanzi, 1995.
Luca Cardinalini, Pietro Licciardi. La strana morte del dr. Narducci. Il rebus dei due cadaveri e il «mostro» di Firenze. DeriveApprodi, 2008. ISBN 978-88-89969-27-4.
Alessando Cecioni; Gianluca Monastra, Il mostro di Firenze, Roma, Nutrimenti,
Nino Filastò, Storia delle merende infami, Firenze, Maschietto Editore, 2005.
Michele Giuttari. Il mostro , Rizzoli, 2006 ISBN 978-88-17-01628-5
Carlo Lucarelli. I mostri di Firenze in Nuovi misteri d'Italia. I casi di Blu Notte. Torino, Einaudi, 2004. pp. 94–133. ISBN 978-88-06-16740-0.
Michele Giuttari e Carlo Lucarelli, Compagni di sangue, Rizzoli 1999, ISBN 881725858X
Ruggero Perugini, Un uomo abbastanza normale, Mondadori,
Douglas Preston; Mario Spezi, Dolci colline di sangue, Milano, Sonzogno Editore, 2006. ISBN 978-88-454-1271-4
Francesco Ferri. Il caso Pacciani. Storia di una colonna infame?. Edizioni Pananti, Firenze, 1996.
Massimo Polidoro, Cronaca Nera, pagg. 219-312, Piemme, 2005
Note [modifica]
^ Firenze, Volantini Anti-Mostro 'Non Fate L' Amore In Auto'. Reppublica. URL consultato il 2010-09-01.
^ a b c d e f g h i j k l m n o p [1] Puntata del programma Blu Notte dedicata alle vicende del Mostro di Firenze
^ 'IL MOSTRO TORNERA' AD UCCIDERE'. Reppublica. URL consultato il 2010-09-01.
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Voci correlate
Compagni di merende
Assassino seriale
Michele Giuttari
Mario Spezi
Silvia Della Monica
Il mostro di Firenze (serie televisiva)
Dolci colline di sangue
Collegamenti esterni
Il Mostro di Firenze: il profilo criminologico del F.B.I. e l'analisi delle perizie balistiche del processo Pacciani
Un archivio con tutti i protagonisti della vicenda del "mostro di Firenze"
Google map dei delitti
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