L'omicidio di Wilma Montesi (Roma, 1932 - 1953) è stato un caso di cronaca nera avvenuto in Italia nel 1953, che ha avuto grande rilievo mediatico a causa del coinvolgimento di numerosi personaggi di spicco nelle indagini successive al delitto.
Il caso risulta tuttora irrisolto.
La prima fase: il ritrovamento del cadavere e la chiusura dell'indagine [modifica]
Il ritrovamento del cadavere [modifica]
Spiaggia di Torvaianica, luogo del ritrovamento di Wilma Montesi
Sabato 11 aprile 1953, giorno della vigilia di Pasqua, sulla spiaggia di Torvaianica, presso Roma venne rinvenuto il cadavere di una ragazza romana ventunenne, Wilma Montesi, scomparsa il 9 aprile precedente.
La Montesi era una ragazza di origini modeste, figlia di un falegname e nata nel 1932 a Roma, dove risiedeva in Via Tagliamento[1][2]. Al momento della sparizione, era fidanzata con un agente di polizia, ed in procinto di sposarsi. Era una ragazza considerata molto bella, con qualche aspirazione ad entrare nel mondo del cinema e dello spettacolo, il cui centro si trovava presso la capitale, a Cinecittà.
Il cadavere venne rinvenuto da un manovale, Fortunato Bettini, che stava facendo colazione presso la spiaggia. Il corpo appariva riverso supino sulla battigia, parzialmente immerso in acqua dalla parte della testa. La donna era parzialmente vestita, e gli abiti erano zuppi d'acqua: non aveva più indosso le scarpe, la gonna, le calze e il reggicalze.
Il corpo venne portato presso l’Istituto di Medicina Legale di Roma, dove venne condotta l'autopsia: i medici affermarono che la probabile causa della morte sarebbe stata una "sincope dovuta ad un pediluvio"[3].
Dall'autopsia emerse che la ragazza non solo non aveva subito violenza, ma inizialmente si affermò che la donna era addirittura vergine; in seguito tuttavia un altro medico, il professor Pellegrini, affermò che la presenza di sabbia nelle parti intime della ragazza poteva essere spiegata solo come conseguenza di un rapporto[4].
Le prime testimonianze [modifica]
Alla notizia del ritrovamento i giornali dedicarono ampi articoli: il padre della vittima, Rodolfo Montesi venne a conoscenza del fatto tramite la stampa, il giorno successivo al ritrovamento.
Dalla ricostruzione degli ultimi movimenti della ragazza, emerse che questa non era rientrata a casa la sera del 9 aprile. La madre, insieme all'altra figlia, Wanda, era rientrata e non l'aveva trovata in casa.
La portiera dello stabile in cui vivevano i Montesi affermò di averla vista uscire intorno alle 17.30, e di non averla più vista in seguito.
Alcuni testimoni affermarono di aver visto la Montesi sul treno che da Roma portava ad Ostia: tra le due località vi erano solo pochi chilometri ma troppi per essere percorsi a piedi.[5]
L'ipotesi del suicidio e la chiusura del caso [modifica]
Inizialmente l'ipotesi prevalente fu quella del suicidio: Wilma si sarebbe gettata in mare. In seguito, a fronte di una deposizione della sorella Wanda, venne avanzata un'altra ipotesi che trovò immediatamente credito presso le forze dell'ordine: Wilma Montesi soffriva di un eczema al tallone, che veniva alleviato dall'acqua salata (eczema che, invece di essere stato controllato sul cadavere, fu controllato sulla sorella Wanda).
La ragazza sarebbe quindi entrata in acqua dopo essersi tolta la lunga gonna e le calze, per poi entrare in mare. In seguito avrebbe avuto un malore, forse dovuto alla debolezza fisica dovuta al ciclo mestruale, e sarebbe stata trascinata in mare dalle onde. [6]
La distanza tra Ostia (il presumibile ultimo avvistamento della ragazza) e il punto del ritrovamento venne giustificato tramite una complessa combinazione di correnti marine.
Cresce lo scandalo [modifica]
Il coinvolgimento della stampa [modifica]
L'ipotesi dell'incidente fu considerata attendibile dalla polizia, che chiuse il caso. I giornali, invece, si mostravano scettici.
Il Roma, quotidiano monarchico napoletano, il 4 maggio cominciò ad avanzare l'ipotesi di un complotto per coprire i veri assassini, che sarebbero stati alcuni potenti personaggi della politica; l'ipotesi presentata nell'articolo Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi?, a firma Riccardo Giannini, ebbe largo seguito.
A capo di questa campagna dei media, vi erano prestigiose testate nazionali, quali il Corriere della Sera e Paese Sera, e piccole testate scandalistiche, quali Attualità, ma la notizia si diffuse su quasi tutte le testate locali e nazionali.
Il 24 maggio del 1953 un articolo di Marco Sforza Cesarini, pubblicato sul giornale comunista Vie Nuove, creò molto scalpore: uno dei personaggi apparsi nelle indagini e presumibilmente legati alla politica, sinora definito "il biondino", venne identificato nella persona di Piero Piccioni. Piccioni era un noto musicista jazz (col nome d'arte Piero Morgan), fidanzato di Alida Valli e figlio di Attilio Piccioni, Vicepresidente del Consiglio, Ministro degli Esteri e massimo esponente della Democrazia Cristiana.
Il nome di "biondino" era stato attribuito al giovane da Paese Sera, in un articolo del 5 maggio, in cui si raccontava di come il giovane avesse portato in questura gli indumenti mancanti alla ragazza assassinata. L'identificazione con Piero Piccioni era un fatto noto a tutti i giornalisti, ma nessuno ne aveva mai svelata l'identità al grande pubblico.[7] Su Il merlo giallo, testata neofascista, era addirittura apparsa già ai primi di maggio una vignetta satirica in cui un reggicalze veniva portato in questura da un piccione, un chiaro riferimento al politico e al delitto.
La notizia suscitò clamore perché venne pubblicata poco prima delle elezioni politiche del 1953.
Piero Piccioni e lo scandalo politico [modifica]
Piero Piccioni querelò per diffamazione il giornalista e il direttore del giornale, Fidia Gambetti. Sforza Cesarini venne sottoposto ad un duro interrogatorio. Lo stesso PCI, movimento di riferimento del giornale e unico beneficiario dello scandalo, disconobbe l'operato del giornalista, che venne accusato di "sensazionalismo" e minacciato di licenziamento.
Nemmeno sotto interrogatorio Sforza Cesarini citò mai direttamente il nome della fonte da cui ufficialmente veniva la notizia, limitandosi ad affermare che provenisse da "ambienti dei fedeli di De Gasperi".
Anche il padre del giornalista, un influente docente di filosofia all'Università degli Studi di Roma "La Sapienza", suggerì al figlio di ritrattare, consiglio vivamente sostenuto anche dal celeberrimo "principe del foro" Francesco Carnelutti che aveva preso le parti dell'accusa per conto di Piccioni.
L'avvocato di Sforza, Giuseppe Sotgiu (già presidente dell'Amministrazione provinciale di Roma ed esponente del PCI) si accordò col collega, e il 31 maggio, Sforza Cesarini fu costretto a ritrattare le sue affermazioni. Come ammenda, versò 50 mila lire in beneficenza alla Casa di amicizia fraterna per i liberati dal carcere, ed in cambio Piccioni fece cadere l'accusa.
Nonostante nell'immediato lo scandalo per la DC apparisse ormai escluso, ormai il nome di Piccioni era stato citato, ed in seguito sarebbe ritornato alla ribalta.
Intanto, durante l'estate il caso sparì dalle pagine di cronaca.
I Capocottari [modifica]
Adriana Bisaccia e l'ipotesi dei "Capocottari" [modifica]
Il 6 ottobre 1953, sul periodico scandalistico Attualità, il giornalista e direttore della testata Silvano Muto pubblicò un articolo, La verità sul caso Montesi. Muto aveva condotto un'indagine giornalistica nel "bel mondo" romano, basandosi sul racconto di un'attrice ventitreenne che sbarcava il lunario facendo la dattilografa, tal Adriana Concetta Bisaccia. La ragazza aveva raccontato al giornalista di aver partecipato con Wilma ad un'orgia, che si sarebbe tenuta a Capocotta, presso Castelporziano e non distante dal luogo del ritrovamento. In quell'occasione avevano avuto modo di incontrare alcuni personaggi famosi, principalmente nomi noti della nobiltà della capitale e figli di politici della giovane Repubblica Italiana.[8]
Stando al racconto della Bisaccia, la Montesi avrebbe assunto un cocktail letale di droga e alcool, e avrebbe avuto un grave malore. Il corpo esanime sarebbe stato trasportato da alcuni partecipanti all'orgia sulla spiaggia, dove fu abbandonata.
Tra i nomi citati nell'articolo, vi erano Piero Piccioni e il marchese Ugo Montagna, proprietario della tenuta di Capocotta.
I partecipanti all'orgia, definiti dalla stampa capocottari, rappresentavano l'alta società romana, ed era facile vedere dietro l'operato delle forze dell'ordine un disegno volto a proteggere questi personaggi.
Muto fu perseguito dal procuratore capo di Roma, Angelo Sigurani, per aver diffuso "notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico", ma la notizia fu ripresa da tutti i giornali e divenne l'ipotesi largamente più considerata per la risoluzione del caso.[9]
Querelato anche da Montagna, Muto inizialmente ritrattò parzialmente le proprie tesi, affermando che fossero prodotti dell'immaginazione, salvo poi rinnegare la ritrattazione. Anche la Bisaccia, impaurita e forse minacciata, smentì le sue dichiarazioni e il testo di Muto.[10]
La deposizione della Moneta Caglio [modifica]
Dopo il racconto della Bisaccia, una seconda ragazza rilasciò un'altra deposizione compromettente. La donna, Maria Augusta Moneta Caglio Bessier d’Istria, detta Marianna o il cigno nero (per via del lungo collo), era figlia di un notaio di Milano e come la Bisaccia stava cercando di arrivare al mondo del cinema. Proprio a Roma era diventata amante del Montagna, marchese di san Bartolomeo e personaggio attorno a cui ruotava il mondo dei VIP romani. Già la ragazza aveva incontrato il procuratore Sigurani due volte, ed in entrambe le volte aveva reso una deposizione sulla vicenda, sempre ignorata. [11]
La Caglio affermava che la Montesi fosse diventata la nuova amante di Montagna, e di essere a conoscenza della verità dei fatti: tornata dal padre a Milano, si rivolse allo zio, parroco di Lomazzo, per chiedere istruzioni su come agire. Il sacerdote indirizzò la ragazza da un sacerdote gesuita, padre Alessandro Dall'Oglio, a cui la Caglio consegnò un memoriale in cui confermava la responsabilità di Piccioni e Montagna secondo quanto scritto dai giornali.[12] [13]
Tramite l'opera di Dall'Oglio, il documento arrivò ad Amintore Fanfani, allora Ministro degli Interni, e contribuì a far sospendere il processo per il giornalista Silvano Muto: ormai la teoria non era più la bizzarra invenzione di un giornalista provocatore. Una copia del memoriale venne inviata dalla Caglio anche al Papa.
Una parte della Democrazia Cristiana tuttavia tendeva a screditare la testimonianza sulla base di presunti legami tra la Caglio e una corrente interna alla DC stessa ed avversa a Piccioni. [14]
Ripartono le indagini [modifica]
Indagini, complotti e politica [modifica]
In seguito alla diffusione del memoriale, la Caglio venne interrogata segretamente da Umberto Pompei, colonnello dei carabinieri, che ebbe con lei due incontri. Dal memoriale emergeva anche il nome del capo della polizia Tommaso Pavone, a cui Montagna e Piccioni si sarebbero rivolti in cerca di protezione.
Il 2 febbraio 1954 L'Avanti pubblicò una nota secondo cui il nome di Piccioni sarebbe stato fatto da Giorgio Tupini, in quel momento sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e figlio di Umberto Tupini, in una mossa a sfondo politico. Intanto, Piccioni padre viene confermato al ministero degli esteri del nuovo governo.
Intanto Pompei aveva indagato sui personaggi coinvolti: il 10 marzo riferì in un rapporto che Montagna era stato un agente dell'OVRA e un informatore dei nazisti, attività che avevano portato al suo arricchimento. La notizia, seppur poco pertinente con il caso, suscita grande scalpore e contribuisce alla fama di Silvano Muto. Lo stesso giorno, durante un'udienza in aula sull'argomento i parlamentari comunisti protestano urlando Pavone, Pavone a fronte delle richieste di fiducia nelle istituzioni avanzate da Scelba. [15]
Il giorno successivo, Pavone si dimise dalla carica, e il governo affidò al ministro Raffaele De Caro un'indagine sull'operato della polizia nella vicenda.
La stampa e il Partito [modifica]
Pietro Nenni il 14 marzo 1954 dalle colonne dell'Avanti! ribatté alla teoria innocentista che vedeva gli esponenti della DC come vittime di un complotto, sottolineando come da tempo una parte della stampa, la Chiesa e alcuni organi privati stessero mobilitandosi contro la sinistra parlamentare allo scopo di screditarla e indebolirla.
Palmiro Togliatti su l'Unità invocava una "lotta contro l’omertà e la corruzione [...] in qual modo il regime clericale possa giungere ad un crollo": il riferimento al caso Montesi e alla DC era palese, e le allusioni presenti nell'articolo al fascismo e alla sua caduta erano chiari richiami al coinvolgimento di Montagna nel regime fascista.
Paese sera il 17 marzo 1954 pubblicò uno scoop sensazionale: una foto del presidente del Consiglio Scelba ritratto insieme a Montagna alle nozze del figlio di un deputato democristiano: la tesi della "pastetta" politica prese sempre più piede.
Il Giornale d'Italia annunciò in un articolo l'emissione di un mandato di cattura per Montagna, che letta la notizia si recò spontaneamente in carcere. Agli ufficiali carcerari, tuttavia, non risultava alcun ordine di carcerazione e Montagna venne allontanato.[16]
Verso il processo [modifica]
Si riapre il caso: l'indagine dei carabinieri [modifica]
Il magistrato della sezione istruttoria della Corte d'appello di Roma, Raffaele Sepe, cominciò le indagini processuali, esumando la salma della Montesi e ordinando perizie ed interrogatori. Molte delle accuse a personaggi secondari e solo vagamente correlati alla vicenda caddero, ma da questa fase emerse un disegno preciso che legava Piccioni, Montagna e i vertici delle forze dell'ordine romane.
Il 26 marzo 1954 il caso Montesi fu ufficialmente riaperto dalla Corte d’Appello di Roma. Piero Piccioni e Ugo Montagna furono arrestati rispettivamente con l'accusa di omicidio colposo e di uso di stupefacenti il primo, e di favoreggiamento il secondo: furono inviati al carcere di Regina Coeli. Con loro venne arrestato il questore di Roma, Saverio Polito, imputato di favoreggiamento e altri nove personaggi coinvolti nei fatti vennero imputati, tra cui il principe Maurizio d'Assia. [17] [18] [19]
Il 19 settembre 1954 lo scandalo era tale che Attilio Piccioni si dimise dalle cariche ufficiali.
L'"Operazione zio Giuseppe" [modifica]
Nonostante tutto, però, i genitori di Wilma Montesi erano certi dell'innocenza di Piero Piccioni: il 30 settembre però su Il Messaggero il giornalista Fabrizio Menghini (che seguiva il caso con continuità) avanzò la velata ipotesi che vi potessero anche essere indizi in un'altra direzione, ovvero che potrebbero accusare il giovane zio della vittima, Giuseppe Montesi. Il giovane sarebbe stato molto attaccato alla ragazza, se non addirittura invaghito, e possedendo un'auto avrebbe potuto portarne il cadavere sul luogo del ritrovamento.
L'ipotesi venne avanzata con tono sarcastico, ma venne presa seriamente dall'opinione pubblica per via delle parole di Giuseppe Saragat, uomo politico di area socialista, che sull'Avanti! affermò che il caso era vicino ad una svolta drammatica e alla rivelazione del colpevole.
Anche il comportamento evasivo di Giuseppe Montesi contribuì a rendere credibile una tesi basata su mere illazioni: Giuseppe Montesi non volle dire dove si trovava la notte dell'omicidio.
In seguito, all'interrogatorio coi giudici, Giuseppe Montesi ammise che stava trascorrendo la serata con la sorella della sua fidanzata.
Lo scandalo Sotgiu [modifica]
Il 16 novembre 1954 un ulteriore scoop scuote il caso: due giornalisti di Momento Sera, impegnati in un'inchiesta sulla morte di Pupa Montorzi (una ragazza morta per abuso di droga in una situazione apparentemente simile alle ipotesi del caso Montesi) scoprono una casa d'appuntamenti in via Corridoni 15. Durante un appostamento, notano Giuseppe Sotgiu, il politico ed avvocato difensore di Silvano Muto. Sotgiu viene fotografato mentre entra nel bordello in compagnia della moglie, ed emerge che questa si tratteneva in rapporti con alcuni giovani, tra cui un minorenne. Il fatto intacca pesantemente la credibilità dei principali accusatori.[20]
La conclusione del caso [modifica]
Piccioni, Montagna e Polito a processo [modifica]
Piccioni, Polito e Montagna durante il Processo Wilma Montesi
Il 20 giugno 1955 Piccioni, Montagna e Polito vennero rinviati a giudizio da Sepe alla Corte di Assise, iscritti tra gli imputati per un processo penale sulla vicenda. Il 21 gennaio 1957 a Venezia si aprì il dibattimento.
Montagna negò di aver conosciuto la Montesi, e Polito (ormai in pensione) confermò la tesi ufficiale dell'incidente in mare.
Alida Valli depose in favore di Piccioni, confermando il suo alibi secondo cui si trovava ad Ischia colpito da un forte mal di gola.
Alle 00.40 del 28 maggio il tribunale riconobbe gli imputati innocenti e li assolse con formula piena.
Muto, Bisaccia e Moneta Caglio a processo [modifica]
Il processo a Muto (difeso anch'egli da Sotgiu) e alla Bisaccia per le accuse di calunnia si concluse con una condanna a dieci mesi per quest'ultima, con pena sospesa grazie alla "condizionale". Anche la Moneta Caglio fu sottoposta a processo, ma non venne condannata.
La verità sulla vicenda è ancora ignota.
Rilevanza del caso Montesi [modifica]
L'aspetto mediatico [modifica]
Il caso Montesi fu uno dei primi, se non il primo, caso di cronaca nera a raggiungere fama nazionale nella giovane Repubblica Italiana.
La stampa si gettò sul caso attirata dalle complesse relazioni tra delitti, politica e VIP. I principali quotidiani, Corriere della Sera, e Paese Sera, si sollevarono rispettivamente a punti di riferimento per innocentisti e colpevolisti. Il primo vedeva nella vicenda un tentativo di screditare la DC, anche se manteneva una posizione moderata e possibilista[21]. Paese Sera nel giro di un anno passò da sostenitore della tesi ufficiale ad acceso paladino della tesi del "festino".
Un indice della rilevanza di questo caso è data da un articolo a firma Carlo Laurenzi del 4 febbraio, pubblicato sul Corriere della Sera: Laurenzi nota che sulla vicenda, in poco meno di un anno, erano state scritte e proposte a case di produzione almeno 52 sceneggiature per il cinema.[22]
Paese sera ebbe un aumento di tiratura minimo fisso del 50%, arrivando al 200 per cento con la complicità dello scoop Scelba-Montagna.
I pesanti coinvolgimenti anche giudiziari della stampa, pose all'attenzione degli operatori dell'informazione la necessità di una sorta di autogoverno. Da qui prese il via l'idea di un Ordine dei Giornalisti che sarebbe stato istituito ufficialmente 10 anni dopo con la Legge n. 69 del 1963.
La questione politica [modifica]
Il coinvolgimento di Piccioni spostò il piano dello scontro, più o meno volutamente, sul piano politico.
Piccioni era il massimo esponente della DC, all'epoca impegnata in una dura lotta con il PCI. Nei giorni stessi del delitto, era in piena attività la campagna elettorale per le Elezioni Politiche, e l'opinione politica stava dibattendo in modo molto acceso sulla cosiddetta legge truffa.
Forse anche per via dello scandalo, alle elezioni la coalizione della DC non riuscì a raggiungere il premio di maggioranza solo per lo 0,8% dei voti.
Il deputato dell'MSI Franz Turchi nel marzo del 1954 rivolse al neoeletto presidente del consiglio dei ministri Mario Scelba un'interrogazione, cercando di ottenere rassicurazioni sui dubbi che la vicenda aveva sollevato nel mondo politico italiano.
Scelba, sia per volontà politica sia per distrarre l'attenzione dal montare del caso, nel corso del 1954 annunciò a più riprese una serie di misure repressive verso le organizzazioni di sinistra, che però all'atto pratico risultarono in ben poca cosa.
Gian Paolo Brizio Falletti, compagno di Piccioni nella DC, arrivò ad invocare la censura, chiedendo provvedimenti contro il mondo della stampa, che avrebbe dato risonanza ad una vicenda scandalistica e poco attendibile. Le affermazioni del deputato democristiano fecero insorgere i giornalisti e le testate della stampa libera, specie quella schierata a sinistra. La proposta cadde, salvo poi esser ripresa nel novembre 1954 da Scelba che invocava ed auspicava un severo autocontrollo dei giornalisti e sul loro influsso sulla vita civile e morale del paese tramite cronaca e stampa scandalistica.
Contro ogni previsione, la Federazione nazionale della stampa italiana accolse l'invito supportando la proposta, seppur in modo moderato e cercando di rivendicare una certa libertà d'azione.
Reazioni e conseguenze [modifica]
Le reazioni allo scandalo furono diverse.
La DC, partito di maggioranza, vedeva nello scandalo un attacco politico orchestrato da avversari politici e supportato da dissidenti interni: l'operato del partito era volto alla difesa e alla distrazione dal caso, anche tramite accuse e schermaglie politiche.
I partiti di sinistra, il PCI in testa, consideravano il caso come un vero scandalo politico frutto delle manovre democristiane per tutelare dei colpevoli appartenenti alla DC. Il caso venne usato per mettere in discussione l'autorità del governo, già traballante per la maggioranza risicata e per gli evidenti contrasti tra alcuni dei massimi esponenti della DC e quel caso con forti ricadute morali.
La destra estrema e i monarchici invece additavano la faccenda come un caso di evidente fallimento del sistema democratico tout court.
Il Partito Socialista Democratico Italiano di Saragat e i movimenti di area socialista, legati da un'alleanza politica alla DC, erano consapevoli e rinfacciavano soprattutto le responsabilità dei vertici democristiani, ed in particolare di Amintore Fanfani che veniva additato come colui che aveva dato corso alle indagini dei carabinieri sulla base del memoriale della Caglio. Dopo lo scandalo Sotgiu, il partito di Saragat si riavvicinò alla DC, associandosi all'accusa verso i dirigenti di PCI e PSI di aver imbastito il caso come trappola politica.
Lo scandalo Sotgiu costò molto caro ai partiti comunisti, che videro colpita in modo grave la loro immagine di difensori di una presunta superiorità morale.
Nell'estate 2006, il giornalista Francesco Grignetti ha pubblicato un libro sulla vicenda, Il caso Montesi [23], in cui afferma di aver reperito presso gli archivi della Polizia di Stato all'EUR alcuni faldoni di documenti d'epoca, nei quali emerge il tentativo di insabbiamento operato dal ministero dell’Interno e parzialmente fallito per via del clamore mediatico suscitato.
L'interesse del pubblico e l'Affare Montesi [modifica]
Pur non essendo il primo caso di "nera" a stimolare l'opinione pubblica, per notorietà fu senza dubbio una delle vicende più dibattute degli anni cinquanta. Diversi fattori si andavano a sommare, costituendo una commistione di interessi e retroscena di grandissima attrazione per i lettori dell'epoca.
Il fattore sociale [modifica]
Innanzitutto, la vittima era una bella ragazza, giovane e di modeste origini: il prototipo della ragazza della porta accanto; non era difficile per i lettori affezionarsi al personaggio.
Il fatto che la vittima fosse stata rinvenuta ancora vergine, andava ad escludere tutta una serie di implicazioni che avrebbero reso la vicenda troppo scabrosa e compromettente per ricevere un tale rilievo sulla stampa nazionale.
Tutti questi elementi andavano a stimolare l'interesse dei lettori comuni. Anche il fatto che le due principali accusatrici fossero giovani di bell'aspetto e legate al mondo dello spettacolo aumentava l'interesse verso la vicenda.
La tempesta politica [modifica]
In secondo luogo, sin dall'inizio emerse il coinvolgimento di personaggi di primo piano sulla scena politica. Dapprima citati come anonimi (fattore che suscitò ancora di più l'attenzione dei giornali e l'interesse del pubblico), quando i nomi vennero resi pubblici la loro rilevanza rese la vicenda di grande centralità anche per i lettori interessati di politica.
La vicenda assunse i tratti di una guerra tra tutti i partiti di maggioranza, ed addirittura tra fazioni all'interno della stessa Democrazia Cristiana che da sola ammontava a poco meno del 50% dell'elettorato. Di fatto, il coinvolgimento dei vertici DC in una questione simile era un grave danno all'immagine del partito. Allo stesso modo, le vicende correlate al caso furono una vera tempesta per il partito comunista italiano, la seconda forza politica dell'epoca. Il caso andò a colpire trasversalmente la quasi totalità dell'arco parlamentare.
La battaglia giudiziaria [modifica]
Di grande interesse divenne anche l'aspetto giudiziario della vicenda, con una giostra di denunce, querele e controquerele che arrivarono a coinvolgere i principali e più noti avvocati dell'epoca.
Le questioni legate alla giustizia erano al centro anche di un importante dibattito: i personaggi importanti, amici dei vertici delle forze dell'ordine, potevano forse essere trattati diversamente ed evitare le conseguenze delle loro azioni?
La rapida chiusura della prima indagine, con una motivazione poco credibile e su basi puramente speculative, apparve essere un chiaro gesto in questa direzione, di fronte a cui la stampa non poteva rimanere in silenzio.
Secondo la tradizione occidentale e statunitense, la stampa aveva il ruolo di controllore dei processi democratici, e come tale era compito dei giornalisti esporre il probabile "broglio giudiziario".
La stampa e il mercato [modifica]
Oltre al compito sociale, però, la stampa doveva affrontare anche un'altra sfida: la crescente competizione in campo editoriale, che vedeva la nascita (e la chiusura) di testate di cronaca e di giornali d'opinione a ritmi sempre crescenti, e una progressiva saturazione del mercato.
Il modo più sicuro ed efficace per ottenere successi di vendita era proporre delle notizie in esclusiva, scoop su fatti di grande attualità.
In virtù delle considerazioni precedenti, il caso Montesi era perfetto per questo scopo. La girandola di dichiarazioni sensazionali veniva alimentata dalla caccia alla notizia, e a sua volta accresceva la forza mediatica del caso.
Tuttavia, come detto più sopra, la questione portò gli operatori della stampa ad una riflessione che si sarebbe concretizzata 10 anni dopo con l'istituzione dell'Ordine dei Giornalisti (L. 69/1963)
Note [modifica]
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/Montesi(stampaitaliana).pdf
^ http://www.liberaeva.com/giallopassione/wilmamontesi.htm
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/
^ http://www.liberaeva.com/giallopassione/wilmamontesi.htm
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/
^ http://www.zetema.it/content/download/1629/11190/file/Montesi-testo.pdf
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/Montesi(stampaitaliana).pdf
^ http://www.zetema.it/content/download/1629/11190/file/Montesi-testo.pdf
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/Montesi(stampaitaliana).pdf
^ http://www.poliziaedemocrazia.it/live/index.php?domain=archivio&action=articolo&idArticolo=1218
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/Montesi(stampaitaliana).pdf
^ http://www.zetema.it/content/download/1629/11190/file/Montesi-testo.pdf
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/Montesi(stampaitaliana).pdf
^ http://www.liberaeva.com/giallopassione/wilmamontesi.htm
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/Montesi(stampaitaliana).pdf
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/Montesi(stampaitaliana).pdf
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/
^ http://www.poliziaedemocrazia.it/live/index.php?domain=archivio&action=articolo&idArticolo=1218
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/Montesi(stampaitaliana).pdf
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/Montesi(stampaitaliana).pdf
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/Montesi(stampaitaliana).pdf
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/Montesi(stampaitaliana).pdf
^ Francesco Grignetti, Il caso Montesi, Marsilio editore, 2006
Bibliografia [modifica]
Pier Mario Fasanotti; Valeria Gandus, La ragazza del pediluvio in Mambo italiano 1945-1960. Tre lustri di fatti e misfatti, Marco Tropea Editore, 2000. pp. 179-201 ISBN 8843801937
Angelo Frignani. La strana morte di Wilma Montesi. Adn Kronos, 2003 ISBN 88-7118-157-3
Carlo Lucarelli, Il caso Wilma Montesi in Nuovi misteri d'Italia. I casi di Blu notte, Torino, Einaudi, 2004. pp. 25-45 ISBN 978-88-06-16740-0
Francesco Grignetti. Il caso Montesi . Gli specchi Marsilio, 2006.
Silvio Lanaro, Storia dell'Italia repubblicana. L'economia, la politica, la cultura, la società dal dopoguerra agli anni '90, Venezia, Marsilio Editori, 1992, pp. 234-235, ISBN 978-88-317-6396-7
Paolo Murialdi. La stampa italiana del dopoguerra (1943-1972). Laterza, 1973
Karen Pinkus, The Montesi Scandal: The Death of Wilma Montesi and the Birth of the Paparazzi in Fellini's Rome, University of Chicago Press, 2003
Massimo Polidoro. Il mistero del reggicalze in Cronaca nera, pp. 141-180. Casale Monferrato, Edizioni Piemme, 2005. ISBN 88-384-8132-6
Voci correlate [modifica]
Capocotta
Collegamenti esterni [modifica]
Nu magazine: Wilma Montesi, vergine e "martire"
Estratto da "http://it.wikipedia.org/wiki/Omicidio_di_Wilma_Montesi"
Il ritrovamento del cadavere [modifica]
Spiaggia di Torvaianica, luogo del ritrovamento di Wilma Montesi
Sabato 11 aprile 1953, giorno della vigilia di Pasqua, sulla spiaggia di Torvaianica, presso Roma venne rinvenuto il cadavere di una ragazza romana ventunenne, Wilma Montesi, scomparsa il 9 aprile precedente.
La Montesi era una ragazza di origini modeste, figlia di un falegname e nata nel 1932 a Roma, dove risiedeva in Via Tagliamento[1][2]. Al momento della sparizione, era fidanzata con un agente di polizia, ed in procinto di sposarsi. Era una ragazza considerata molto bella, con qualche aspirazione ad entrare nel mondo del cinema e dello spettacolo, il cui centro si trovava presso la capitale, a Cinecittà.
Il cadavere venne rinvenuto da un manovale, Fortunato Bettini, che stava facendo colazione presso la spiaggia. Il corpo appariva riverso supino sulla battigia, parzialmente immerso in acqua dalla parte della testa. La donna era parzialmente vestita, e gli abiti erano zuppi d'acqua: non aveva più indosso le scarpe, la gonna, le calze e il reggicalze.
Il corpo venne portato presso l’Istituto di Medicina Legale di Roma, dove venne condotta l'autopsia: i medici affermarono che la probabile causa della morte sarebbe stata una "sincope dovuta ad un pediluvio"[3].
Dall'autopsia emerse che la ragazza non solo non aveva subito violenza, ma inizialmente si affermò che la donna era addirittura vergine; in seguito tuttavia un altro medico, il professor Pellegrini, affermò che la presenza di sabbia nelle parti intime della ragazza poteva essere spiegata solo come conseguenza di un rapporto[4].
Le prime testimonianze [modifica]
Alla notizia del ritrovamento i giornali dedicarono ampi articoli: il padre della vittima, Rodolfo Montesi venne a conoscenza del fatto tramite la stampa, il giorno successivo al ritrovamento.
Dalla ricostruzione degli ultimi movimenti della ragazza, emerse che questa non era rientrata a casa la sera del 9 aprile. La madre, insieme all'altra figlia, Wanda, era rientrata e non l'aveva trovata in casa.
La portiera dello stabile in cui vivevano i Montesi affermò di averla vista uscire intorno alle 17.30, e di non averla più vista in seguito.
Alcuni testimoni affermarono di aver visto la Montesi sul treno che da Roma portava ad Ostia: tra le due località vi erano solo pochi chilometri ma troppi per essere percorsi a piedi.[5]
L'ipotesi del suicidio e la chiusura del caso [modifica]
Inizialmente l'ipotesi prevalente fu quella del suicidio: Wilma si sarebbe gettata in mare. In seguito, a fronte di una deposizione della sorella Wanda, venne avanzata un'altra ipotesi che trovò immediatamente credito presso le forze dell'ordine: Wilma Montesi soffriva di un eczema al tallone, che veniva alleviato dall'acqua salata (eczema che, invece di essere stato controllato sul cadavere, fu controllato sulla sorella Wanda).
La ragazza sarebbe quindi entrata in acqua dopo essersi tolta la lunga gonna e le calze, per poi entrare in mare. In seguito avrebbe avuto un malore, forse dovuto alla debolezza fisica dovuta al ciclo mestruale, e sarebbe stata trascinata in mare dalle onde. [6]
La distanza tra Ostia (il presumibile ultimo avvistamento della ragazza) e il punto del ritrovamento venne giustificato tramite una complessa combinazione di correnti marine.
Cresce lo scandalo [modifica]
Il coinvolgimento della stampa [modifica]
L'ipotesi dell'incidente fu considerata attendibile dalla polizia, che chiuse il caso. I giornali, invece, si mostravano scettici.
Il Roma, quotidiano monarchico napoletano, il 4 maggio cominciò ad avanzare l'ipotesi di un complotto per coprire i veri assassini, che sarebbero stati alcuni potenti personaggi della politica; l'ipotesi presentata nell'articolo Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi?, a firma Riccardo Giannini, ebbe largo seguito.
A capo di questa campagna dei media, vi erano prestigiose testate nazionali, quali il Corriere della Sera e Paese Sera, e piccole testate scandalistiche, quali Attualità, ma la notizia si diffuse su quasi tutte le testate locali e nazionali.
Il 24 maggio del 1953 un articolo di Marco Sforza Cesarini, pubblicato sul giornale comunista Vie Nuove, creò molto scalpore: uno dei personaggi apparsi nelle indagini e presumibilmente legati alla politica, sinora definito "il biondino", venne identificato nella persona di Piero Piccioni. Piccioni era un noto musicista jazz (col nome d'arte Piero Morgan), fidanzato di Alida Valli e figlio di Attilio Piccioni, Vicepresidente del Consiglio, Ministro degli Esteri e massimo esponente della Democrazia Cristiana.
Il nome di "biondino" era stato attribuito al giovane da Paese Sera, in un articolo del 5 maggio, in cui si raccontava di come il giovane avesse portato in questura gli indumenti mancanti alla ragazza assassinata. L'identificazione con Piero Piccioni era un fatto noto a tutti i giornalisti, ma nessuno ne aveva mai svelata l'identità al grande pubblico.[7] Su Il merlo giallo, testata neofascista, era addirittura apparsa già ai primi di maggio una vignetta satirica in cui un reggicalze veniva portato in questura da un piccione, un chiaro riferimento al politico e al delitto.
La notizia suscitò clamore perché venne pubblicata poco prima delle elezioni politiche del 1953.
Piero Piccioni e lo scandalo politico [modifica]
Piero Piccioni querelò per diffamazione il giornalista e il direttore del giornale, Fidia Gambetti. Sforza Cesarini venne sottoposto ad un duro interrogatorio. Lo stesso PCI, movimento di riferimento del giornale e unico beneficiario dello scandalo, disconobbe l'operato del giornalista, che venne accusato di "sensazionalismo" e minacciato di licenziamento.
Nemmeno sotto interrogatorio Sforza Cesarini citò mai direttamente il nome della fonte da cui ufficialmente veniva la notizia, limitandosi ad affermare che provenisse da "ambienti dei fedeli di De Gasperi".
Anche il padre del giornalista, un influente docente di filosofia all'Università degli Studi di Roma "La Sapienza", suggerì al figlio di ritrattare, consiglio vivamente sostenuto anche dal celeberrimo "principe del foro" Francesco Carnelutti che aveva preso le parti dell'accusa per conto di Piccioni.
L'avvocato di Sforza, Giuseppe Sotgiu (già presidente dell'Amministrazione provinciale di Roma ed esponente del PCI) si accordò col collega, e il 31 maggio, Sforza Cesarini fu costretto a ritrattare le sue affermazioni. Come ammenda, versò 50 mila lire in beneficenza alla Casa di amicizia fraterna per i liberati dal carcere, ed in cambio Piccioni fece cadere l'accusa.
Nonostante nell'immediato lo scandalo per la DC apparisse ormai escluso, ormai il nome di Piccioni era stato citato, ed in seguito sarebbe ritornato alla ribalta.
Intanto, durante l'estate il caso sparì dalle pagine di cronaca.
I Capocottari [modifica]
Adriana Bisaccia e l'ipotesi dei "Capocottari" [modifica]
Il 6 ottobre 1953, sul periodico scandalistico Attualità, il giornalista e direttore della testata Silvano Muto pubblicò un articolo, La verità sul caso Montesi. Muto aveva condotto un'indagine giornalistica nel "bel mondo" romano, basandosi sul racconto di un'attrice ventitreenne che sbarcava il lunario facendo la dattilografa, tal Adriana Concetta Bisaccia. La ragazza aveva raccontato al giornalista di aver partecipato con Wilma ad un'orgia, che si sarebbe tenuta a Capocotta, presso Castelporziano e non distante dal luogo del ritrovamento. In quell'occasione avevano avuto modo di incontrare alcuni personaggi famosi, principalmente nomi noti della nobiltà della capitale e figli di politici della giovane Repubblica Italiana.[8]
Stando al racconto della Bisaccia, la Montesi avrebbe assunto un cocktail letale di droga e alcool, e avrebbe avuto un grave malore. Il corpo esanime sarebbe stato trasportato da alcuni partecipanti all'orgia sulla spiaggia, dove fu abbandonata.
Tra i nomi citati nell'articolo, vi erano Piero Piccioni e il marchese Ugo Montagna, proprietario della tenuta di Capocotta.
I partecipanti all'orgia, definiti dalla stampa capocottari, rappresentavano l'alta società romana, ed era facile vedere dietro l'operato delle forze dell'ordine un disegno volto a proteggere questi personaggi.
Muto fu perseguito dal procuratore capo di Roma, Angelo Sigurani, per aver diffuso "notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico", ma la notizia fu ripresa da tutti i giornali e divenne l'ipotesi largamente più considerata per la risoluzione del caso.[9]
Querelato anche da Montagna, Muto inizialmente ritrattò parzialmente le proprie tesi, affermando che fossero prodotti dell'immaginazione, salvo poi rinnegare la ritrattazione. Anche la Bisaccia, impaurita e forse minacciata, smentì le sue dichiarazioni e il testo di Muto.[10]
La deposizione della Moneta Caglio [modifica]
Dopo il racconto della Bisaccia, una seconda ragazza rilasciò un'altra deposizione compromettente. La donna, Maria Augusta Moneta Caglio Bessier d’Istria, detta Marianna o il cigno nero (per via del lungo collo), era figlia di un notaio di Milano e come la Bisaccia stava cercando di arrivare al mondo del cinema. Proprio a Roma era diventata amante del Montagna, marchese di san Bartolomeo e personaggio attorno a cui ruotava il mondo dei VIP romani. Già la ragazza aveva incontrato il procuratore Sigurani due volte, ed in entrambe le volte aveva reso una deposizione sulla vicenda, sempre ignorata. [11]
La Caglio affermava che la Montesi fosse diventata la nuova amante di Montagna, e di essere a conoscenza della verità dei fatti: tornata dal padre a Milano, si rivolse allo zio, parroco di Lomazzo, per chiedere istruzioni su come agire. Il sacerdote indirizzò la ragazza da un sacerdote gesuita, padre Alessandro Dall'Oglio, a cui la Caglio consegnò un memoriale in cui confermava la responsabilità di Piccioni e Montagna secondo quanto scritto dai giornali.[12] [13]
Tramite l'opera di Dall'Oglio, il documento arrivò ad Amintore Fanfani, allora Ministro degli Interni, e contribuì a far sospendere il processo per il giornalista Silvano Muto: ormai la teoria non era più la bizzarra invenzione di un giornalista provocatore. Una copia del memoriale venne inviata dalla Caglio anche al Papa.
Una parte della Democrazia Cristiana tuttavia tendeva a screditare la testimonianza sulla base di presunti legami tra la Caglio e una corrente interna alla DC stessa ed avversa a Piccioni. [14]
Ripartono le indagini [modifica]
Indagini, complotti e politica [modifica]
In seguito alla diffusione del memoriale, la Caglio venne interrogata segretamente da Umberto Pompei, colonnello dei carabinieri, che ebbe con lei due incontri. Dal memoriale emergeva anche il nome del capo della polizia Tommaso Pavone, a cui Montagna e Piccioni si sarebbero rivolti in cerca di protezione.
Il 2 febbraio 1954 L'Avanti pubblicò una nota secondo cui il nome di Piccioni sarebbe stato fatto da Giorgio Tupini, in quel momento sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e figlio di Umberto Tupini, in una mossa a sfondo politico. Intanto, Piccioni padre viene confermato al ministero degli esteri del nuovo governo.
Intanto Pompei aveva indagato sui personaggi coinvolti: il 10 marzo riferì in un rapporto che Montagna era stato un agente dell'OVRA e un informatore dei nazisti, attività che avevano portato al suo arricchimento. La notizia, seppur poco pertinente con il caso, suscita grande scalpore e contribuisce alla fama di Silvano Muto. Lo stesso giorno, durante un'udienza in aula sull'argomento i parlamentari comunisti protestano urlando Pavone, Pavone a fronte delle richieste di fiducia nelle istituzioni avanzate da Scelba. [15]
Il giorno successivo, Pavone si dimise dalla carica, e il governo affidò al ministro Raffaele De Caro un'indagine sull'operato della polizia nella vicenda.
La stampa e il Partito [modifica]
Pietro Nenni il 14 marzo 1954 dalle colonne dell'Avanti! ribatté alla teoria innocentista che vedeva gli esponenti della DC come vittime di un complotto, sottolineando come da tempo una parte della stampa, la Chiesa e alcuni organi privati stessero mobilitandosi contro la sinistra parlamentare allo scopo di screditarla e indebolirla.
Palmiro Togliatti su l'Unità invocava una "lotta contro l’omertà e la corruzione [...] in qual modo il regime clericale possa giungere ad un crollo": il riferimento al caso Montesi e alla DC era palese, e le allusioni presenti nell'articolo al fascismo e alla sua caduta erano chiari richiami al coinvolgimento di Montagna nel regime fascista.
Paese sera il 17 marzo 1954 pubblicò uno scoop sensazionale: una foto del presidente del Consiglio Scelba ritratto insieme a Montagna alle nozze del figlio di un deputato democristiano: la tesi della "pastetta" politica prese sempre più piede.
Il Giornale d'Italia annunciò in un articolo l'emissione di un mandato di cattura per Montagna, che letta la notizia si recò spontaneamente in carcere. Agli ufficiali carcerari, tuttavia, non risultava alcun ordine di carcerazione e Montagna venne allontanato.[16]
Verso il processo [modifica]
Si riapre il caso: l'indagine dei carabinieri [modifica]
Il magistrato della sezione istruttoria della Corte d'appello di Roma, Raffaele Sepe, cominciò le indagini processuali, esumando la salma della Montesi e ordinando perizie ed interrogatori. Molte delle accuse a personaggi secondari e solo vagamente correlati alla vicenda caddero, ma da questa fase emerse un disegno preciso che legava Piccioni, Montagna e i vertici delle forze dell'ordine romane.
Il 26 marzo 1954 il caso Montesi fu ufficialmente riaperto dalla Corte d’Appello di Roma. Piero Piccioni e Ugo Montagna furono arrestati rispettivamente con l'accusa di omicidio colposo e di uso di stupefacenti il primo, e di favoreggiamento il secondo: furono inviati al carcere di Regina Coeli. Con loro venne arrestato il questore di Roma, Saverio Polito, imputato di favoreggiamento e altri nove personaggi coinvolti nei fatti vennero imputati, tra cui il principe Maurizio d'Assia. [17] [18] [19]
Il 19 settembre 1954 lo scandalo era tale che Attilio Piccioni si dimise dalle cariche ufficiali.
L'"Operazione zio Giuseppe" [modifica]
Nonostante tutto, però, i genitori di Wilma Montesi erano certi dell'innocenza di Piero Piccioni: il 30 settembre però su Il Messaggero il giornalista Fabrizio Menghini (che seguiva il caso con continuità) avanzò la velata ipotesi che vi potessero anche essere indizi in un'altra direzione, ovvero che potrebbero accusare il giovane zio della vittima, Giuseppe Montesi. Il giovane sarebbe stato molto attaccato alla ragazza, se non addirittura invaghito, e possedendo un'auto avrebbe potuto portarne il cadavere sul luogo del ritrovamento.
L'ipotesi venne avanzata con tono sarcastico, ma venne presa seriamente dall'opinione pubblica per via delle parole di Giuseppe Saragat, uomo politico di area socialista, che sull'Avanti! affermò che il caso era vicino ad una svolta drammatica e alla rivelazione del colpevole.
Anche il comportamento evasivo di Giuseppe Montesi contribuì a rendere credibile una tesi basata su mere illazioni: Giuseppe Montesi non volle dire dove si trovava la notte dell'omicidio.
In seguito, all'interrogatorio coi giudici, Giuseppe Montesi ammise che stava trascorrendo la serata con la sorella della sua fidanzata.
Lo scandalo Sotgiu [modifica]
Il 16 novembre 1954 un ulteriore scoop scuote il caso: due giornalisti di Momento Sera, impegnati in un'inchiesta sulla morte di Pupa Montorzi (una ragazza morta per abuso di droga in una situazione apparentemente simile alle ipotesi del caso Montesi) scoprono una casa d'appuntamenti in via Corridoni 15. Durante un appostamento, notano Giuseppe Sotgiu, il politico ed avvocato difensore di Silvano Muto. Sotgiu viene fotografato mentre entra nel bordello in compagnia della moglie, ed emerge che questa si tratteneva in rapporti con alcuni giovani, tra cui un minorenne. Il fatto intacca pesantemente la credibilità dei principali accusatori.[20]
La conclusione del caso [modifica]
Piccioni, Montagna e Polito a processo [modifica]
Piccioni, Polito e Montagna durante il Processo Wilma Montesi
Il 20 giugno 1955 Piccioni, Montagna e Polito vennero rinviati a giudizio da Sepe alla Corte di Assise, iscritti tra gli imputati per un processo penale sulla vicenda. Il 21 gennaio 1957 a Venezia si aprì il dibattimento.
Montagna negò di aver conosciuto la Montesi, e Polito (ormai in pensione) confermò la tesi ufficiale dell'incidente in mare.
Alida Valli depose in favore di Piccioni, confermando il suo alibi secondo cui si trovava ad Ischia colpito da un forte mal di gola.
Alle 00.40 del 28 maggio il tribunale riconobbe gli imputati innocenti e li assolse con formula piena.
Muto, Bisaccia e Moneta Caglio a processo [modifica]
Il processo a Muto (difeso anch'egli da Sotgiu) e alla Bisaccia per le accuse di calunnia si concluse con una condanna a dieci mesi per quest'ultima, con pena sospesa grazie alla "condizionale". Anche la Moneta Caglio fu sottoposta a processo, ma non venne condannata.
La verità sulla vicenda è ancora ignota.
Rilevanza del caso Montesi [modifica]
L'aspetto mediatico [modifica]
Il caso Montesi fu uno dei primi, se non il primo, caso di cronaca nera a raggiungere fama nazionale nella giovane Repubblica Italiana.
La stampa si gettò sul caso attirata dalle complesse relazioni tra delitti, politica e VIP. I principali quotidiani, Corriere della Sera, e Paese Sera, si sollevarono rispettivamente a punti di riferimento per innocentisti e colpevolisti. Il primo vedeva nella vicenda un tentativo di screditare la DC, anche se manteneva una posizione moderata e possibilista[21]. Paese Sera nel giro di un anno passò da sostenitore della tesi ufficiale ad acceso paladino della tesi del "festino".
Un indice della rilevanza di questo caso è data da un articolo a firma Carlo Laurenzi del 4 febbraio, pubblicato sul Corriere della Sera: Laurenzi nota che sulla vicenda, in poco meno di un anno, erano state scritte e proposte a case di produzione almeno 52 sceneggiature per il cinema.[22]
Paese sera ebbe un aumento di tiratura minimo fisso del 50%, arrivando al 200 per cento con la complicità dello scoop Scelba-Montagna.
I pesanti coinvolgimenti anche giudiziari della stampa, pose all'attenzione degli operatori dell'informazione la necessità di una sorta di autogoverno. Da qui prese il via l'idea di un Ordine dei Giornalisti che sarebbe stato istituito ufficialmente 10 anni dopo con la Legge n. 69 del 1963.
La questione politica [modifica]
Il coinvolgimento di Piccioni spostò il piano dello scontro, più o meno volutamente, sul piano politico.
Piccioni era il massimo esponente della DC, all'epoca impegnata in una dura lotta con il PCI. Nei giorni stessi del delitto, era in piena attività la campagna elettorale per le Elezioni Politiche, e l'opinione politica stava dibattendo in modo molto acceso sulla cosiddetta legge truffa.
Forse anche per via dello scandalo, alle elezioni la coalizione della DC non riuscì a raggiungere il premio di maggioranza solo per lo 0,8% dei voti.
Il deputato dell'MSI Franz Turchi nel marzo del 1954 rivolse al neoeletto presidente del consiglio dei ministri Mario Scelba un'interrogazione, cercando di ottenere rassicurazioni sui dubbi che la vicenda aveva sollevato nel mondo politico italiano.
Scelba, sia per volontà politica sia per distrarre l'attenzione dal montare del caso, nel corso del 1954 annunciò a più riprese una serie di misure repressive verso le organizzazioni di sinistra, che però all'atto pratico risultarono in ben poca cosa.
Gian Paolo Brizio Falletti, compagno di Piccioni nella DC, arrivò ad invocare la censura, chiedendo provvedimenti contro il mondo della stampa, che avrebbe dato risonanza ad una vicenda scandalistica e poco attendibile. Le affermazioni del deputato democristiano fecero insorgere i giornalisti e le testate della stampa libera, specie quella schierata a sinistra. La proposta cadde, salvo poi esser ripresa nel novembre 1954 da Scelba che invocava ed auspicava un severo autocontrollo dei giornalisti e sul loro influsso sulla vita civile e morale del paese tramite cronaca e stampa scandalistica.
Contro ogni previsione, la Federazione nazionale della stampa italiana accolse l'invito supportando la proposta, seppur in modo moderato e cercando di rivendicare una certa libertà d'azione.
Reazioni e conseguenze [modifica]
Le reazioni allo scandalo furono diverse.
La DC, partito di maggioranza, vedeva nello scandalo un attacco politico orchestrato da avversari politici e supportato da dissidenti interni: l'operato del partito era volto alla difesa e alla distrazione dal caso, anche tramite accuse e schermaglie politiche.
I partiti di sinistra, il PCI in testa, consideravano il caso come un vero scandalo politico frutto delle manovre democristiane per tutelare dei colpevoli appartenenti alla DC. Il caso venne usato per mettere in discussione l'autorità del governo, già traballante per la maggioranza risicata e per gli evidenti contrasti tra alcuni dei massimi esponenti della DC e quel caso con forti ricadute morali.
La destra estrema e i monarchici invece additavano la faccenda come un caso di evidente fallimento del sistema democratico tout court.
Il Partito Socialista Democratico Italiano di Saragat e i movimenti di area socialista, legati da un'alleanza politica alla DC, erano consapevoli e rinfacciavano soprattutto le responsabilità dei vertici democristiani, ed in particolare di Amintore Fanfani che veniva additato come colui che aveva dato corso alle indagini dei carabinieri sulla base del memoriale della Caglio. Dopo lo scandalo Sotgiu, il partito di Saragat si riavvicinò alla DC, associandosi all'accusa verso i dirigenti di PCI e PSI di aver imbastito il caso come trappola politica.
Lo scandalo Sotgiu costò molto caro ai partiti comunisti, che videro colpita in modo grave la loro immagine di difensori di una presunta superiorità morale.
Nell'estate 2006, il giornalista Francesco Grignetti ha pubblicato un libro sulla vicenda, Il caso Montesi [23], in cui afferma di aver reperito presso gli archivi della Polizia di Stato all'EUR alcuni faldoni di documenti d'epoca, nei quali emerge il tentativo di insabbiamento operato dal ministero dell’Interno e parzialmente fallito per via del clamore mediatico suscitato.
L'interesse del pubblico e l'Affare Montesi [modifica]
Pur non essendo il primo caso di "nera" a stimolare l'opinione pubblica, per notorietà fu senza dubbio una delle vicende più dibattute degli anni cinquanta. Diversi fattori si andavano a sommare, costituendo una commistione di interessi e retroscena di grandissima attrazione per i lettori dell'epoca.
Il fattore sociale [modifica]
Innanzitutto, la vittima era una bella ragazza, giovane e di modeste origini: il prototipo della ragazza della porta accanto; non era difficile per i lettori affezionarsi al personaggio.
Il fatto che la vittima fosse stata rinvenuta ancora vergine, andava ad escludere tutta una serie di implicazioni che avrebbero reso la vicenda troppo scabrosa e compromettente per ricevere un tale rilievo sulla stampa nazionale.
Tutti questi elementi andavano a stimolare l'interesse dei lettori comuni. Anche il fatto che le due principali accusatrici fossero giovani di bell'aspetto e legate al mondo dello spettacolo aumentava l'interesse verso la vicenda.
La tempesta politica [modifica]
In secondo luogo, sin dall'inizio emerse il coinvolgimento di personaggi di primo piano sulla scena politica. Dapprima citati come anonimi (fattore che suscitò ancora di più l'attenzione dei giornali e l'interesse del pubblico), quando i nomi vennero resi pubblici la loro rilevanza rese la vicenda di grande centralità anche per i lettori interessati di politica.
La vicenda assunse i tratti di una guerra tra tutti i partiti di maggioranza, ed addirittura tra fazioni all'interno della stessa Democrazia Cristiana che da sola ammontava a poco meno del 50% dell'elettorato. Di fatto, il coinvolgimento dei vertici DC in una questione simile era un grave danno all'immagine del partito. Allo stesso modo, le vicende correlate al caso furono una vera tempesta per il partito comunista italiano, la seconda forza politica dell'epoca. Il caso andò a colpire trasversalmente la quasi totalità dell'arco parlamentare.
La battaglia giudiziaria [modifica]
Di grande interesse divenne anche l'aspetto giudiziario della vicenda, con una giostra di denunce, querele e controquerele che arrivarono a coinvolgere i principali e più noti avvocati dell'epoca.
Le questioni legate alla giustizia erano al centro anche di un importante dibattito: i personaggi importanti, amici dei vertici delle forze dell'ordine, potevano forse essere trattati diversamente ed evitare le conseguenze delle loro azioni?
La rapida chiusura della prima indagine, con una motivazione poco credibile e su basi puramente speculative, apparve essere un chiaro gesto in questa direzione, di fronte a cui la stampa non poteva rimanere in silenzio.
Secondo la tradizione occidentale e statunitense, la stampa aveva il ruolo di controllore dei processi democratici, e come tale era compito dei giornalisti esporre il probabile "broglio giudiziario".
La stampa e il mercato [modifica]
Oltre al compito sociale, però, la stampa doveva affrontare anche un'altra sfida: la crescente competizione in campo editoriale, che vedeva la nascita (e la chiusura) di testate di cronaca e di giornali d'opinione a ritmi sempre crescenti, e una progressiva saturazione del mercato.
Il modo più sicuro ed efficace per ottenere successi di vendita era proporre delle notizie in esclusiva, scoop su fatti di grande attualità.
In virtù delle considerazioni precedenti, il caso Montesi era perfetto per questo scopo. La girandola di dichiarazioni sensazionali veniva alimentata dalla caccia alla notizia, e a sua volta accresceva la forza mediatica del caso.
Tuttavia, come detto più sopra, la questione portò gli operatori della stampa ad una riflessione che si sarebbe concretizzata 10 anni dopo con l'istituzione dell'Ordine dei Giornalisti (L. 69/1963)
Note [modifica]
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/Montesi(stampaitaliana).pdf
^ http://www.liberaeva.com/giallopassione/wilmamontesi.htm
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/
^ http://www.liberaeva.com/giallopassione/wilmamontesi.htm
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/
^ http://www.zetema.it/content/download/1629/11190/file/Montesi-testo.pdf
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/Montesi(stampaitaliana).pdf
^ http://www.zetema.it/content/download/1629/11190/file/Montesi-testo.pdf
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/Montesi(stampaitaliana).pdf
^ http://www.poliziaedemocrazia.it/live/index.php?domain=archivio&action=articolo&idArticolo=1218
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/Montesi(stampaitaliana).pdf
^ http://www.zetema.it/content/download/1629/11190/file/Montesi-testo.pdf
^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/Montesi(stampaitaliana).pdf
^ http://www.liberaeva.com/giallopassione/wilmamontesi.htm
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^ http://www.misteriditalia.it/altri-misteri/montesi/Montesi(stampaitaliana).pdf
^ Francesco Grignetti, Il caso Montesi, Marsilio editore, 2006
Bibliografia [modifica]
Pier Mario Fasanotti; Valeria Gandus, La ragazza del pediluvio in Mambo italiano 1945-1960. Tre lustri di fatti e misfatti, Marco Tropea Editore, 2000. pp. 179-201 ISBN 8843801937
Angelo Frignani. La strana morte di Wilma Montesi. Adn Kronos, 2003 ISBN 88-7118-157-3
Carlo Lucarelli, Il caso Wilma Montesi in Nuovi misteri d'Italia. I casi di Blu notte, Torino, Einaudi, 2004. pp. 25-45 ISBN 978-88-06-16740-0
Francesco Grignetti. Il caso Montesi . Gli specchi Marsilio, 2006.
Silvio Lanaro, Storia dell'Italia repubblicana. L'economia, la politica, la cultura, la società dal dopoguerra agli anni '90, Venezia, Marsilio Editori, 1992, pp. 234-235, ISBN 978-88-317-6396-7
Paolo Murialdi. La stampa italiana del dopoguerra (1943-1972). Laterza, 1973
Karen Pinkus, The Montesi Scandal: The Death of Wilma Montesi and the Birth of the Paparazzi in Fellini's Rome, University of Chicago Press, 2003
Massimo Polidoro. Il mistero del reggicalze in Cronaca nera, pp. 141-180. Casale Monferrato, Edizioni Piemme, 2005. ISBN 88-384-8132-6
Voci correlate [modifica]
Capocotta
Collegamenti esterni [modifica]
Nu magazine: Wilma Montesi, vergine e "martire"
Estratto da "http://it.wikipedia.org/wiki/Omicidio_di_Wilma_Montesi"
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