« Il femminismo è stato il primo momento politico di critica storica alla famiglia e alla società »
(Manifesto di Rivolta femminile, luglio 1970[1])
(Manifesto di Rivolta femminile, luglio 1970[1])
Con il termine femminismo, generalmente, si intende un movimento politico, culturale e sociale che pone in discussione i rapporti di potere tra i sessi, e che nasce storicamente durante l'800 con la richiesta di pari dignità e diritti per la donna.
Indice[nascondi]
1 Accezioni terminologiche ed origini del termine
2 Storia
2.1 Le origini del femminismo: la «prima ondata»
2.1.1 La rivoluzione industriale: la situazione femminile in Italia
2.2 Il femminismo liberale
2.3 Il femminismo socialista
2.3.1 Friedrich Engels: l'origine della famiglia
2.4 Il femminismo anarchico
2.5 Il Novecento: il movimento delle «suffragette»
2.6 Il periodo del riflusso
2.6.1 Virginia Woolf
2.6.2 Simone de Beauvoir
2.6.3 Betty Friedan
2.7 La «seconda ondata»: il femminismo radicale
2.7.1 Le Redstockings
2.7.2 Kate Millett
2.7.3 Shulamith Firestone
2.7.4 Anne Koedt
2.8 Il femminismo lesbico
2.8.1 Le Radicalesbians
2.8.2 Adrienne Rich
2.8.3 Monique Wittig
2.9 Sviluppi del femminismo statunitense
2.9.1 Gayle Rubin: il sistema sesso/genere
2.9.2 Susan Brownmiller
2.9.3 Dorothy Dinnerstein
2.9.4 Nancy Chodorow
2.9.5 Il femminismo nero
2.10 Il femminismo inglese
2.11 Il femminismo francese: il pensiero della differenza
2.11.1 Luce Irigaray
2.11.2 Julia Kristeva
2.11.3 Hélène Cixous
2.12 Il femminismo accademico: la questione dell'identità
2.12.1 Carol Gilligan
2.12.2 Donna Haraway: il cyberfemminismo
2.12.3 Teresa de Lauretis: le tecnologie di genere
2.12.4 Judith Butler e la queer theory
2.12.5 Rosi Braidotti
2.12.6 Christine Battersby
2.13 Il femminismo italiano
2.13.1 Carla Lonzi
2.13.2 Luisa Muraro
2.13.3 Adriana Cavarero
2.14 Il femminismo cristiano
2.14.1 La teologia femminista
3 Le critiche al femminismo e l'antifemminismo
4 Note
5 Bibliografia
5.1 Narrativa
6 Voci correlate
6.1 Biografie
6.2 Altro
7 Altri progetti
8 Collegamenti esterni
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Accezioni terminologiche ed origini del termine [modifica]
Tale termine può quindi riferirsi:
alla posizione di chi sostiene la parità politica, sociale ed economica tra i sessi, ritenendo che le donne siano state e siano tuttora, in varie misure, discriminate rispetto agli uomini e ad essi subordinate;
alla convinzione che il sesso biologico non dovrebbe essere un fattore pre-determinante che modella l'identità sociale o i diritti sociopolitici o economici della persona;
al movimento politico che ha rivendicato e rivendica pari diritti e dignità tra donne e uomini e che - in vari modi - si interessa alla comprensione delle dinamiche di oppressione di genere.
Movimento complesso ed eterogeneo, il femminismo si è sviluppato con caratteristiche proprie a seconda dei paesi e delle epoche. Molti fattori contribuiscono a definire e ridefinire il concetto di femminismo e le pratiche politiche ad esso connesse, come classe, etnia, orientamento sessuale, così che al suo interno coesistono posizioni e approcci teorici diversi, tanto che alcune studiose, teoriche e militanti femministe parlano di femminismi.
In particolare esistono teorie contrastanti riguardo l'origine della subordinazione maschile/femminile ed in merito al tipo di percorso che dovrebbe essere portato avanti per liberarsene: se lottare solo per le pari opportunità tra uomini e donne, se criticare radicalmente le nozioni di "identità sessuale" e "identità di genere", oppure - ancora - se eliminare alla radice i ruoli e quindi tale subordinazione.
Le origini del termine "femminismo" si possono rintracciare in due ambiti diversi:
all'interno della letteratura medica francese, in cui veniva usato per riferirsi ad un indebolimento del corpo maschile;
nel contesto delle mobilitazioni per il diritto di voto in Francia[2].
In questo secondo ambito fu introdotto nell'uso e nel senso corrente grazie a Hubertine Auclert che lo utilizzò nella sua rivista «La Citoyenne», pubblicata dal 13 febbraio 1881. Successivamente il termine apparirà prima in Gran Bretagna e poi negli Stati Uniti.
Con tale nome il movimento femminista è venuto alla ribalta internazionale negli anni sessanta del Novecento, con l'intento di modificare radicalmente la divisione sessuale dei ruoli maschili e femminili e quindi di rimettere in discussione, in tutti gli aspetti del vivere associato, una gerarchizzazione umana che riteneva gli individui di maggiore o minore valore sulla base dei rapporti di potere basati sul genere e sulle relative proiezioni sociali e politiche. Gli anni settanta hanno visto il termine contestato: alcune parti dei movimenti delle donne rifiutarono di definirsi femministe in relazione all'associazione del termine con l'emancipazionismo[2]. Recentemente molte attiviste non-occidentali preferiscono usare il termine "movimento delle donne" (haraka al-nissa'wiyya)" rifiutando il termine "movimento femminista" (al-haraka al-nassa'wiyya).[3].
Storia [modifica]
Le origini del femminismo: la «prima ondata» [modifica]
La Déclaration di Olimpe de Gouges
Un'antesignana del movimento per l'emancipazione femminile fu Olympe de Gouges (1748-1793) che, con la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina del 1791, dedicato a Maria Antonietta, pose i suoi contemporanei di fronte al ruolo negato nello spazio pubblico alle donne. La de Gouges scontò il suo moderatismo politico filo-monarchico e girondino (fu denunciata dalle donne repubblicane di Parigi) finendo sulla ghigliottina nel 1793.
In quegli stessi anni, nel 1792, l'inglese Mary Wollstonecraft (1759-1797) scriveva nella sua A Vindication of the Rights of Woman (Rivendicazione dei diritti della donna) che "è ora di effettuare una rivoluzione nei modi di vivere delle donne - è ora di restituirle la dignità perduta - e di far sì che esse, in quanto parte della specie umana, operino riformando se stesse per riformare il mondo".[4]
Nata in una famiglia povera, la Wollstonecraft aveva studiato da autodidatta e si era resa economicamente indipendente[5]. Comprese subito la grande importanza che la Rivoluzione francese poteva assumere per lo sviluppo dell'eguaglianza sociale e civile dei cittadini, difendendola nella sua A Vindication of the Rights of Men dagli attacchi del reazionario connazionale Edmund Burke e stabilendosi, alla fine del 1792, proprio in Francia. Qui convisse con lo scrittore e patriota statunitense Gilbert Imlay, dal quale ebbe una figlia, Fanny Imlay. Lasciata dal precedente compagno, ebbe una relazione con William Godwin e morì dando alla luce la futura scrittrice Mary Shelley. A causa della sua condotta di vita, per quanto possibile libera dai pregiudizi dell'epoca, lo scrittore Horace Walpole la definì «una iena in gonnella».[6]
Le rivendicazioni della Wollstonecraft potevano corrispondere ai principi della rivoluzione guidata dalla borghesia francese. Secondo la Wollstonecraft solo le donne della classe media potevano elevarsi dalla condizione di subordinazione in cui erano tenute da un'educazione improntata sui falsi valori maschili, secondo i quali la donna sarebbe stata «naturalmente» inferiore all'uomo. Un'eguale educazione impartita fin dall'infanzia, senza distinzione di sesso, avrebbe invece eliminato alla radice tale problematica.[6]
Le tematiche dell'emancipazione sorsero, quindi, proprio nell'Inghilterra della Gloriosa rivoluzione e del parlamentarismo, negli Stati Uniti che si erano emancipati dalla madre-patria e avevano formulato la prima dichiarazione dei diritti dell'uomo inserita nella stessa dichiarazione d'indipendenza, e nella Francia, che aveva ripreso quella dichiarazione nel momento di dar vita alla grande Rivoluzione contro l'Ancien Régime.
La rivoluzione industriale: la situazione femminile in Italia [modifica]
In tutto l'arco del XIX secolo si assisté ad un sempre più intenso spostamento di grandi masse di persone dalla campagna alle periferie delle città dove sorgevano nuove fabbriche. I vecchi laboratori artigianali, su cui spesso si era fondata la sussistenza di intere famiglie, vennero in parte abbandonati perché incapaci di sostenere la concorrenza della grande manifattura, dove lavoravano, accanto agli uomini, anche le donne e i bambini. Al tradizionale mercato degli oggetti si aggiunse, quindi, il così detto "mercato del lavoro", dove uomini e donne entrarono in concorrenza tra di loro, vendendo al ribasso l'unica merce che possedevano, l'energia delle loro braccia. Per molte donne il lavoro scarsamente retribuito della fabbrica si aggiunse così al consueto lavoro, non retribuito, della cura della casa e della famiglia.
Le donne delle benestanti famiglie borghesi non dovettero rapportarsi con questi nuovi panorami: spesso, difatti, non avevano necessità di impegnarsi personalmente in un'attività lavorativa poiché mantenute dai mariti, la cura della casa e spesso anche dei figli, invece, era riservata alla servitù sottoposta al loro comando: di qui l'appellativo di «regine della casa». In questo contesto l'arte del ricamo non rappresentava un'iniziativa propriamente economica, bensì una sorta di arte domestica, in cui le donne potevano mettere in mostra il proprio gusto, impreziosendo al più gli arredi casalinghi. Più o meno stesso discorso valeva per l'abilità culinaria, che gratificava il capofamiglia di ritorno dal lavoro, gravato da pensieri dai quali le consorti erano generalmente escluse. Le numerose gravidanze, spesso a rischio della vita, considerando la tecnologia medica dell'epoca, servivano a perpetuare la trasmissione del nome e dei beni di famiglia agli eredi maschi: la nascita di una femmina veniva tradizionalmente considerata una disgrazia.
Per le donne appartenenti alla classe media sarebbe stato deprecabile cercare un lavoro fuori dall'ambiente familiare, perché ciò avrebbe significato esporle al contatto di estranei, degradarle al livello delle «donne del popolo» e insinuare che il padre o il marito non erano in grado di mantenerle, gettando su di essi un disonorevole discredito. Un'attività intellettuale era resa difficile, oltre che dal generale scetticismo riguardo alle loro effettive capacità, dalla loro istruzione incompleta, perché esse non avevano diritto di accesso alle scuole superiori e perciò anche all'esercizio delle professioni liberali.[7] La loro dipendenza economica dall'uomo le escludeva per legge[7] dalla gestione del patrimonio familiare e dal diritto di paritaria eredità con gli altri beneficiari maschi. Infine, come a riassumere la loro condizione di subordinazione e di ininfluenza nella vita della nazione, erano escluse dal diritto di voto e di rappresentanza parlamentare.
Se dunque tutte le donne, indipendentemente dalla loro connotazione sociale, vivevano una condizione di discriminazione, l'appartenenza a classi sociali diverse produceva problemi ed esigenze differenti e perciò distinti programmi di rivendicazione. Le donne operaie, direttamente impegnate nel lavoro di fabbrica, fecero confluire la loro protesta all'interno delle rivendicazioni del movimento operaio, dal quale - quindi - non si distinsero; le donne della classe media, che invece non erano generalmente inserite nel mondo del lavoro ma del quale volevano far parte, produrranno un movimento d'opinione formato di sole donne. Nell'Ottocento nacquero pertanto due distinte correnti: il femminismo liberale, che ha nella conquista dei diritti civili il suo principale obbiettivo, e il femminismo socialista, che punta a rivendicazioni sindacali e vede nella rivoluzione e nella conseguente instaurazione di una società socialista la condizione necessaria per realizzare una reale, e non solo formale, liberazione delle donne.[8]
Il femminismo liberale [modifica]
Nel luglio del 1848, a Seneca Falls, presso New York, si tenne un'assemblea di circa trecento donne, nella quale Elizabeth Cady Stanton (1815-1902) formulò una dichiarazione dei diritti delle donne all'eguaglianza. Vi si affermava che uomini e donne sono eguali e «dotati dal loro Creatore di diritti inalienabili; che tra questi vi sono la vita, la libertà, il perseguimento della felicità». Il governo deve garantire al popolo tali diritti e, qualora non lo facesse, «è diritto di quelli che ne soffrono di rifiutargli obbedienza e di insistere per istituire un nuovo governo».
Se si giunge a forme di dispotismo, il governo va rovesciato: «tale è stata la tolleranza paziente delle donne sotto questo governo, e tale è ora la necessità che le costringe a richiedere la condizione di eguaglianza alla quale esse hanno diritto. La storia dell'umanità è una storia di ripetute offese e usurpazioni degli uomini nei confronti delle donne, allo scopo di istituire su di esse una tirannia assoluta».[9]
Stuart Mill e Harriet Taylor
Dalla collaborazione tra Harriet Taylor (1808-1858) e John Stuart Mill (1806-1873) derivarono due importanti saggi sulla questione femminile. Ne L'emancipazione delle donne (The Enfranchisement of Women), del 1851, la Taylor, premesso il diritto naturale di ogni essere umano che viva in società a esprimere liberamente le sue capacità, osserva che l'esercizio del potere politico conquistato dagli uomini ha provocato la condizione di sudditanza in cui le donne hanno vissuto e vivono nelle società che si sono succedute nella storia dell'umanità. L'emancipazione della donna sarà possibile quando essa potrà godere degli stessi diritti concessi all'uomo - all'istruzione, all'esercizio delle professioni, alla partecipazione amministrativa e politica - che però le sono ancora negati.
Alla diffusa obiezione che la sua natura biologica assegnerebbe in modo esclusivo alla donna la cura dei figli e della famiglia, impedendole obbiettivamente il pieno esercizio di quei diritti, la Taylor risponde che con la liberazione dagli impegni familiari - da assegnare alla cura di un apposito personale domestico femminile - la donna potrà conseguire la sua piena emancipazione. Una reale emancipazione non può allora essere ottenuta da tutte le donne, ma solo da quelle che potranno liberarsi dai più specifici obblighi familiari: le donne della classe media.
Ne L'asservimento delle donne (The Subjection of Women), pubblicato nel 1869, Stuart Mill individua la causa della mancanza di diritti civili della donne nella storica subordinazione della donna all'uomo, la quale è una forma di schiavitù espressione del più generale rapporto schiavile che è stato una delle forme di organizzazione sociale del passato. Le società antiche sono tramontate da secoli e la schiavitù è stata da poco abrogata anche in America, ma l'asservimento delle donne, oggi come ieri, persiste.
Questa forma persistente di schiavitù - afferma Stuart Mill - viene esercitata da tutti gli uomini su tutte le donne e si realizza innanzi tutto e in forma compiuta nel luogo privato della famiglia. Essa è resa possibile dalla maggior forza muscolare dell'uomo, ma si esercita anche con l'affetto: «Gli uomini non vogliono solamente l'obbedienza delle donne, vogliono anche i loro sentimenti. Tutti gli uomini, tranne i più brutali, vogliono avere nella donna che a loro è più legata non una schiava forzata, ma una schiava volontaria, non una pura e semplice schiava, ma una favorita».
L'idea che tale servitù sia necessaria e naturale è stata inculcata nelle menti delle donne fin dall'infanzia. Esse sono state educate a pensare di dover essere l'opposto dell'uomo: non devono esprimere «una libera volontà e un comportamento auto-controllato, ma una sottomissione e una subordinazione al controllo altrui. Tutte le morali dicono che è dovere delle donne, e tutti i sentimenti correnti affermano che è proprio della loro natura vivere per gli altri, compiere una totale abnegazione di sé e non avere altra vita che la vita affettiva».[10]
L'asservimento della donna all'uomo si dimostra una contraddizione pratica dell'affermazione teorica dell'eguaglianza dei diritti umani: «La subordinazione sociale delle donne si configura come un fatto unico nelle moderne istituzioni sociali; una rottura isolata di quella che è divenuta la loro legge fondamentale; l'unica reliquia di un vecchio mondo di pensiero e di pratica che è esploso in ogni altro aspetto».[11]
Il femminismo socialista [modifica]
«La Femme libre»
I temi dell'emancipazione femminile appaiono nella riflessione dei primi socialisti utopisti, come Robert Owen e Charles Fourier, il quale enunciò la tesi che il grado di emancipazione della donna misura il progresso generale della società, si manifestarono con forza in Francia con Flora Tristan e nelle donne che appoggiano la Rivoluzione del 1848: Désirée Gay, fondatrice con Marie-Reine Guindorf de «La Femme libre» (La donna libera), il primo giornale femminista della storia, Suzanne Voilquin, Pauline Roland, Jeanne Deroin. Esse uniscono le richieste di eguaglianza giuridica e di riforme civili - diritto di voto, introduzione del divorzio - alle rivendicazioni economiche e alle provvidenze sociali - aumenti salariali e diritto al lavoro. Richieste che, prima vanificate dal conservatorismo della Repubblica borghese e poi dalla reazione napoleonica, si ripresenteranno nella breve stagione della Comune di Parigi.
Anche Marx prese posizione sul problema della condizione femminile. Da Fourier riprese l'idea secondo la quale «il progresso sociale si può misurare con esattezza dalla posizione sociale del bel sesso»,[12] e vide nello sviluppo capitalistico il fattore di trasformazione degli stessi rapporti tra i sessi: «per quanto terribile e repellente appaia la dissoluzione della vecchia famiglia entro il sistema capitalistico, cionondimeno la grande industria crea il nuovo fondamento per una forma superiore della famiglia e del rapporto tra i due sessi, con la parte decisiva che essa assegna alle donne» nel processo produttivo fuori dalla sfera domestica. Marx giudicava «la composizione del personale operaio combinato con individui d'ambo i sessi e delle età più differenti», per quanto «spontanea e brutale, cioè capitalistica», fonte bensì «di corruzione e di schiavitù», ma che si sarebbe poi rovesciata «in fonte di sviluppo di qualità umane».[13]
Friedrich Engels: l'origine della famiglia [modifica]
« Il rovesciamento del matriarcato segnò la sconfitta sul piano storico universale del sesso femminile. L'uomo prese nelle mani anche le redini della casa, la donna fu avvilita, asservita, resa schiava delle sue voglie e semplice strumento per produrre figli »
(F. Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, p. 84)
Il contributo più organico fornito dal marxismo al dibattito sull'emancipazione della donna fu il libro di Friedrich Engels (1820-1895) L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, pubblicato nel 1884, che tiene conto delle ricerche di Bachofen (1815-1887) sul matriarcato e di Lewis Henry Morgan (1818-1881) sulle società antiche. Quest'ultimo aveva tracciato nella sua Ancient Society, del 1877, una sistemazione dell'evoluzione del genere umano, da lui distinto in stato selvaggio, o del periodo paleolitico, della barbarie, o del neolitico, e della civiltà, ossia le antiche società che conoscono la scrittura, sono divise in classi e sono rette da una forma statale nella quale si esercitano i poteri politici, militari, amministrativi e religiosi.
Secondo Engels, dalla generale promiscuità sessuale che caratterizza le prime aggregazioni tribali si passa all'esclusione dei rapporti sessuali tra genitori e figli e successivamente a quella tra fratelli e sorelle della medesima tribù. Nel primo paleolitico, caratterizzato da un'economia basata sulla raccolta e sulla caccia, non esiste ancora la «famiglia» modernamente intesa, né subordinazione all'uomo della donna, che viene anzi onorata quale fonte di vita e di fecondità: «l'amministrazione comunistica nella quale le donne, per la maggior parte, se non tutte, appartengono a una medesima gens, mentre gli uomini provengono da diverse gentes, è il fondamento oggettivo del predominio delle donne, generalmente diffuso all'epoca delle origini».[14]
Un passo successivo fu, secondo Bachofen ed Engels, il matrimonio di coppia, cioè «la relazione, temporanea o durevole, di una donna con un solo uomo [...] la forma di famiglia caratteristica per la barbarie, come il matrimonio di gruppo lo è per lo stato selvaggio, e la monogamia per la civiltà».[15] Quando nuove forze motrici sociali entrarono in azione, si compì il passo ulteriore verso il matrimonio monogamico.
Il progressivo passaggio dalla caccia e dalla raccolta all'allevamento del bestiame, poi alla lavorazione dei metalli, alla tessitura, all'agricoltura, alle guerre per il controllo di territori più estesi e infine al possesso dei prigionieri in qualità di schiavi produsse il mutamento delle condizioni precedenti: l'accrescersi delle ricchezze diede all'uomo, che nella divisione del lavoro all'interno della famiglia aveva il compito di procurare gli alimenti ed era perciò proprietario dei mezzi di lavoro necessari, una posizione più importante della donna nella famiglia di coppia. Secondo il diritto matriarcale, tuttavia, «il patrimonio doveva rimanere nella gens [...] ai consangunei per parte di madre. I figli dell'estinto però non appartenevano alla sua gens, ma a quella della loro madre [...] essi ereditavano dalla madre [...] ma non potevano ereditare dal padre poiché essi non appartenevano alla sua gens, e il suo patrimonio doveva rimanere in questa gens. Alla morte del possessore di armenti, i suoi armenti sarebbero quindi passati, anzitutto, ai suoi fratelli e sorelle, e ai figli delle sue sorelle [...] i figli suoi però erano diseredati».[16]
L'uomo allora abrogò il diritto matriarcale per favorire i propri figli: «bastò semplicemente decidere che nel futuro i discendenti dei membri di sesso maschile rimanessero nella gens e ne fossero però esclusi quelli dei membri di sesso femminile [...] fu introdotta la discendenza in linea maschile e il diritto ereditario patriarcale».[17] Fu una rivoluzione epocale: «il rovesciamento del matriarcato segnò la sconfitta sul piano storico universale del sesso femminile. L'uomo prese nelle mani anche le redini della casa, la donna fu avvilita, asservita, resa schiava delle sue voglie e semplice strumento per produrre figli».[18]
Rapido è il passaggio dalla famiglia di coppia alla famiglia monogamica, nella quale il vincolo non è più dissolubile ad arbitrio - l'uomo può però ripudiare la moglie se gli è infedele o incapace di generargli figli - ed è fondata sul dominio maschile che pretende figli certi perché dovranno ereditare il suo patrimonio. La forma classica di tale famiglia si presenta in Grecia, dove anche il figlio adulto può comandare la madre,[19] il marito si porta a letto le schiave che convivono con lui sotto gli occhi della moglie,[20] e i maschi generati da tali unioni hanno diritto al nome e all'eredità.[21] Naturalmente, il matrimonio è realmente monogamico soltanto per la donna. Accanto al commercio sessuale con la schiava, che è una forma di prostituzione coatta, appare nella società antica l'aperta prostituzione della donna libera: così, mentre la donna è reclusa nella casa patriarcale, la sessualità dell'uomo si esprime sia dentro la famiglia allargata alle schiave, sia fuori di essa.
La moderna famiglia è naturalmente diversa da quella antica: trasformando tutte le cose in merci, la produzione capitalistica «dissolse tutti gli antichi rapporti tradizionali e mise al posto del costume ereditario e del diritto storico la compravendita e il "libero" contratto».[22] Anche il matrimonio divenne un contratto e, pur rimanendo un matrimonio di classe, essendo il matrimonio borghese fondato sul calcolo e sulla convenienza, «all'interno della classe venne concesso agli interessati un certo grado di libertà di scelta».[23]
La grande industria ha poi aperto alla donna operaia la via della produzione sociale, ma se essa vi si inserisce, non è più in grado di assolvere i doveri familiari, e viceversa, come rilevavano anche i fautori liberali dell'emancipazione. Per Engels, «l'emancipazione della donna ha come prima condizione preliminare la reintroduzione dell'intero sesso femminile nella pubblica industria, e ciò richiede a sua volta l'eliminazione della famiglia monogamica in quanto unità economica della società».[24]
La monogamia sorse storicamente quando grandi ricchezze si concentrarono nelle stesse mani: essa scomparirà quando le ricchezze saranno socializzate: «col passaggio dei mezzi di produzione in proprietà comune, la famiglia singola cessa di essere l'unità economica della società. L'amministrazione domestica privata si trasforma in un'industria sociale. La cura e l'educazione dei fanciulli diventa un fatto di pubblico interesse».[25] Le unioni saranno fondate unicamente sull'amore sessuale individuale «quando vi sarà una generazione di uomini i quali, durante la loro vita, non si saranno mai trovati nella circostanza di comperarsi la concessione di una donna con il denaro o mediante altra forza sociale, e una generazione di donne che non si saranno mai trovate nella circostanza né di concedersi a un uomo per qualsiasi motivo che non sia vero amore, né di rifiutare di concedersi all'uomo che amano».[26]
Il femminismo anarchico [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Anarco-femminismo.
Il movimento anarchico non si differenzia sostanzialmente da quello socialista riguardo al tema dell'emancipazione femminile, sostenendo che solo un profondo rivolgimento sociale avrebbe potuto realmente liberare le donne dall'oppressione patriarcale. Per un anarchico è il principio di autorità la fonte di ogni mancanza di libertà ed è pertanto inutile ed equivoco chiedere allo Stato riconoscimenti che per sua natura non può dare.
Non già che tutti gli anarchici e i socialisti appoggiassero, in linea di principio, l'eguaglianza tra uomo e donna: Proudhon (1809-1865) sosteneva l'inferiorità naturale della donna e affermava che la donna avrebbe dovuto occuparsi unicamente della casa e della famiglia. A questo proposito ebbe una polemica con Jeanne-Marie Poinsard, alias Jenny d'Héricourt (1809-1875) comunista rivoluzionaria, che nel 1856 lo aveva attaccato nell'articolo Il signor Proudhon e la questione delle donne.
La d'Héricourt fu difesa dall'anarchico francese, emigrato negli Stati Uniti, Joseph Déjacque (1821-1864). Nel suo pamphlet De l'être humain mâle et femelle (Sull'essere umano maschio e femmina), pubblicato nel 1857 in forma di lettera indirizzata a Proudhon, lo chiamò «anarchico del giusto mezzo, liberale e non libertario, volete il libero scambio per il cotone e le candele, e preconizzate dei sistemi che proteggano l'uomo contro la donna nella circolazione delle passioni umane; gridate contro gli alti baroni del capitale e volete riedificare l'alta baronia del maschio sulla femmina vassalla».[27]
Il movimento femminile anarchico mosse i suoi primi passi con Voltairine de Cleyre (1866-1912) e si sviluppò a partire dalla fine del secolo con Emma Goldman (1869-1940) e Lucy Parsons (1853-1942), producendo durante la guerra civile spagnola l'organizzazione delle Mujeres Libres.
Anche a Emma Goldman non interessarono le iniziative delle donne borghesi a favore del diritto di voto, ma vide nello Stato il braccio armato della società patriarcale e divisa in classi.[28] Nel 1897 scriveva: «Io chiedo l'indipendenza della donna, il suo diritto di mantenere se stessa, di vivere per se stessa, di amare chi e quanti vuole. Chiedo libertà per entrambi i sessi, libertà di azione, libertà nell'amore e nella maternità».[29]
Infermiera di professione, era fautrice dell'educazione delle donne in materia di controllo delle nascite, alternativa positiva all'aborto praticato spesso e clandestinamente come tragica conseguenza di infelici condizioni sociali. Sostenne l'amore libero, criticò l'istituzione matrimoniale e il fanatismo religioso. Vide nell'uscita dal capitalismo la soluzione per l'emancipazione, non solo femminile, ma di tutta l'umanità.
Il Novecento: il movimento delle «suffragette» [modifica]
Per approfondire, vedi la voce suffragette .
La morte di Emily Davison nel derby di Epsom
In Inghilterra, nel 1897 Millicent Fawcett (1847-1929) fondò la National Union of Women's Suffrage per ottenere il diritto di voto alle donne: a questo scopo l'organizzazione svolse opera di proselitismo per convincere gli uomini, i soli che legalmente potessero concedere tale diritto. Al fallimento della National Union seguì nel 1903 la creazione della Women's Social and Political Union da parte di Emmeline Pankhurst (1858-1928) e delle figlie Christabel (1880-1958) e Sylvia (1882-1960), decise a utilizzare mezzi più energici e spettacolari.
Nel 1905, le «suffragette» Christabel e Annie Kenney (1879-1953) furono arrestate e incarcerate per aver gridato slogan in favore del diritto di voto durante una riunione del Partito liberale. Seguirono altre manifestazioni e arresti: in carcere, le manifestanti attuarono lo sciopero della fame, e il governo fu costretto a emanare nel 1913 il The Prisoners Act che prevedeva il rilascio della scioperante quando le sue condizioni di salute si fossero fatte critiche, fatta salva la sua successiva incarcerazione. Ancora nel 1913 la suffragetta Emily Davison (1872-1913) rimase uccisa nel tentativo di fermare il cavallo del re Giorgio V, durante lo svolgimento del tradizionale derby di galoppo a Epsom.[30]
Durante la Prima guerra mondiale, il movimento si divise in due: la WSPU di Emmeline e Christabel Pankhurst appoggiò la guerra, al contrario della socialista Women's Suffrage Federation di Sylvia Pankhurst. Nel 1918, il Parlamento britannico votò la Representation of the People Act che accordava il diritto di voto alle donne benestanti con più di 30 anni. Nel 1928 tutte le donne inglesi ottennero il diritto di voto. Il primo paese ad accordare alle donne il diritto di voto fu la Nuova Zelanda, nel 1893, grazie alle iniziative di Kate Sheppard (1847-1934). La Russia lo concesse nel 1918, gli Stati Uniti nel 1919, la Spagna e il Portogallo nel 1931, la Francia nel 1944, l'Italia nel 1946, la Grecia nel 1952 e la Svizzera soltanto nel 1971.
Il periodo del riflusso [modifica]
Virginia Woolf [modifica]
L'emergenza della Grande guerra frenò il movimento femminile e l'immediato dopoguerra vide il conseguimento, in pochi ma importanti paesi, degli obiettivi per i quali le due maggiori correnti si erano battute: il diritto di voto nei paesi anglosassoni e la Rivoluzione socialista in Russia, oltre al diritto all'istruzione superiore e all'esercizio delle professioni liberali in diversi paesi. Per quasi cinquant'anni l'opinione pubblica mondiale non parlerà di femminismo, ma in questo periodo di riflusso alcune scrittrici presentarono riflessioni e formularono tesi di grande importanza che saranno riprese e sviluppate quando apparirà la «seconda ondata» femminista.
Virginia Woolf (1882-1941) scrisse il saggio Three Guineas (Le tre ghinee) nel 1938, quando ormai si annunciava in Europa un nuovo e più tremendo conflitto. La scrittice immagina che un'associazione pacifista maschile le chieda un contributo per finanziare iniziative che possano scongiurare le minacce di guerra: la Woolf possiede tre ghinee, e decide di ripartirle in tre diverse opere di beneficenza, che raggiungano tuttavia il medesimo risultato di prevenire la guerra.
Una ghinea andrà a uno di quei pochi e poveri colleges femminili che stavano allora sorgendo in Inghilterra, a condizione che vi si insegnino «la medicina, la matematica, la musica, la pittura, la letteratura. È l'arte dei rapporti umani; l'arte di comprendere la vita e la mente degli altri, insieme alle arti minori che le completano: l'arte di conversare, di vestire, di cucinare».[31] Sono le arti che favoriscono la pace perché mettono insieme gli esseri umani, che s'insegnano con poca spesa e che anche i poveri possono esercitare. Nel college non dovranno essere insegnate quelle altre arti che dividono, che opprimono e che producono le guerre, «l'arte di governare, di uccidere, di accumulare terre e capitale».[32]
La seconda ghinea andrà a un'associazione che favorisce l'ingresso delle donne alle libere professioni, purché non siano professioni gestite o influenzate direttamente da uomini. Se tutte le professioni potessero essere esercitate dalle donne, esse ne sarebbero trasformate grazie al loro particolare, diverso, modo di essere, e di qui potrebbe venire un aiuto importante a scongiurare la guerra.[33]
La terza ghinea andrà senz'altro all'associazione pacifista maschile. Sarebbe però opportuno, afferma la Woolf, che esistesse anche un'associazione femminile pacifista: la si potrebbe chiamare la «Società delle Estranee». Sarà formata da «figlie di uomini colti» e dovrà essere molto diversa dalle analoghe associazioni: «non avrà alcuna sede, alcun comitato, alcuna segreteria; non convocherà riunioni, non organizzerà convegni». Non vi si terranno cerimonie e non si presteranno giuramenti, e il primo dovere delle aderenti sarà quello di non combattere mai con le armi e di rifiutarsi, in caso di guerra, di fabbricare armi e di prestarsi a fare le infermiere, come accadde nella guerra precedente.
Vi è poi un altro dovere, il più importante, difficile e in sintonia con il nome che l'associazione si è data: si tratta «non di incitare i fratelli a combattere, e neppure di cercare di dissuaderli, bensì di mantenere un atteggiamento di totale indifferenza». L'indifferenza nasce dai fatti, ed è «un fatto che la donna non è in grado di capire l'istinto che spinge il fratello a combattere, la gloria, l'interesse, la virile soddisfazione che il combattimento gli offre». L'istinto del combattimento è una caratteristica sessuale che lei non può condividere - forse è il corrispondente maschile dell'istinto materno - e che perciò non può nemmeno giudicare. Questa è la ragione dell'atteggiamento di indifferenza che occorre tenere di fronte a «un istinto completamente estraneo a lei, tanto estraneo quanto sono riusciti a renderlo secoli di tradizione e di educazione. Questa è una distinzione fondamentale e istintiva su cui può poggiare l'indifferenza».[34]
Non vi è, nella Woolf, la preoccupazione di rimarcare la necessità dell'eguaglianza tra i sessi, ma vi è la sottolineatura di una differenza che le appare positiva, perché deve comportare il rifiuto di una cultura non condivisibile, né accettabile, ma invasiva, perché è la cultura dominante: la differenza uomo-donna deve generare nella donna l'indifferenza per i valori politici e morali della cultura maschile. Un tema, questo, che sarà al centro della riflessione del femminismo di «seconda ondata».
Simone de Beauvoir [modifica]
« Donna non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l'aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell'uomo: è l'insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna »
(S. de Beauvoir, Il secondo sesso, 1984, p. 325)
Il voluminoso saggio Le deuxième sexe (Il secondo sesso) di Simone de Beauvoir (1908-1986) apparve nel 1949. La Beauvoir, legata allo scrittore e filosofo Jean-Paul Sartre (1905-1980), non era, per sua stessa dichiarazione, propriamente una femminista, anche se darà poi il suo sostegno al movimento femminile, ma era un'esistenzialista che, da questa prospettiva, indagava sulle cause della condizione di inferiorità in cui si trova la donna e sulle sue possibili vie di uscita.
Ogni essere umano compie durante la sua vita innumerevoli scelte: per esempio, sceglie questo o quel corso di studi, questo o quel lavoro, sceglie di relazionarsi con questa o quella persona, prende insomma questa o quella decisione, anche la più insignificante. Certamente esiste il condizionamento dato dell'ambiente e dalle circostanze particolari in cui si trova a vivere, ma in ultima istanza egli è sempre libero di scegliere, anzi è «costretto a scegliere» e perciò è «costretto a essere libero». In questa libertà, egli può operare due scelte fondamentali: quella di vivere nel mondo quale esso è, ed è la scelta che Sartre chiama dell'«immanenza», del vivere nell'«in sé», limitando la propria libertà con la subordinazione alle regole e ai valori del mondo, e vi è la scelta contraria del vivere nel «per sé», la scelta della «trascendenza», nella quale si realizza la propria libertà operando per trasformare il mondo nel quale si vive, avendo scelto di modificarne le dinamiche, le regole, i valori.
Partendo da questi presupposti la Beauvoir nota come «ogni soggetto si pone concretamente come trascendenza attraverso una serie di finalità; esso non attua la propria libertà che in un perpetuo passaggio ad altre libertà; la sola giustificazione dell'esistenza presente è la sua espansione verso un avvenire indefinitamente aperto. Ogni volta che la trascendenza ripiomba nell'immanenza v'è uno scadere dell'esistenza nell'in sé, della libertà nella contingenza; tale caduta è una colpa morale se è accompagnata dal consenso del soggetto, ma se gli è imposta, prende l'aspetto di una privazione e di un'oppressione; in ambedue i casi è un male assoluto».
È proprio questa la posizione che la donna assume nel mondo: «Ogni individuo che vuol dare un significato alla propria esistenza, la sente come un bisogno infinito di trascendersi. Ora, la situazione della donna si presenta in questa singolarissima prospettiva: pur essendo, come ogni individuo umano, una libertà autonoma, ella si scopre e si sceglie in un mondo in cui gli uomini le impongono di assumere la parte dell'Altro [...] pretendono di irrigidirla in una funzione di oggetto e di votarla all'immanenza, perché la sua trascendenza deve essere perpetuamente trascesa da un'altra coscienza essenziale e sovrana».[35]
Ciascun essere umano, nella sua propria individualità, è necessariamente «altro» (minuscolo) rispetto a ogni (altro) individuo, ma in questa ovvia considerazione di alterità non vi è alcuna connotazione di valore, né indicazione di una condizione di subordinazione: l'«Altro» (maiuscolo), per la Beauvoir è invece l'essere connotato come irriducibilmente inferiore che, in quanto tale, va tenuto distinto e individuato con chiarezza in modo da essere collocato in un piano inferiore e separato. In questo contesto l'«Altro» è la donna, è l'appartenente a un sesso diverso da quello che ha connotato e connota di sé il mondo, è perciò «il secondo sesso», essendo naturalmente quello maschile il primo.
È difficile comprendere come e quando sia nata questa sudditanza, che non può in nessun modo essere paragonata alle oppressioni sociali, o razziali o religiose che nella storia hanno generato e generano conflitti aperti e sanguinosi. L'opposizione dei sessi, secondo la Beauvoir, deve essersi originata da una scelta esistenziale in un contesto storico determinato, a partire da un'unione originale: «la coppia è un'unità fondamentale le cui metà sono connesse indissolubilmente l'una all'altra. Nessuna frattura della società in sessi è possibile. Ecco ciò che essenzialmente definisce la donna: essa è l'Altro nel seno di una totalità, i cui due termini sono indispensabili l'uno all'altro».[36]
Ciò spiega perché «quando l'uomo considera la donna come l'Altro, trova in lei una complicità profonda. Così la donna non rivendica se stessa in quanto soggetto perché non ne ha i mezzi concreti, perché esperimenta il necessario legame con l'uomo senza porne la reciprocità, e perché spesso si compiace nella parte dell'Altro».[37] Questa sorta di consenso della donna a essere Altro è stato espresso dalla Beauvoir nella celebre definizione «Donna non si nasce, lo si diventa», ma la donna potrà liberarsi dalla sua dipendenza in una società dove sia bandito ogni tipo di sfruttamento. Allora avverrà la sua trasformazione da Altro in altro per l'uomo; riconoscendosi reciprocamente soggetti liberi e uguali, uomo e donna manterranno «i miracoli che genera la divisione degli esseri umani in due categorie distinte: il desiderio, il possesso, l'amore, il sogno, l'avventura; e le parole che ci commuovono - dare, conquistarsi, unirsi - conserveranno il loro senso [...] e la coppia umana troverà la sua vera forma».[38]
Betty Friedan [modifica]
Il dopoguerra vide molte donne, che nei paesi belligeranti erano state impiegate al posto degli uomini inviati al fronte, ritornare alle loro consuete mansioni casalinghe. Negli Stati Uniti, in particolare, l'accelerazione al progresso tecnico impressa dalla stessa guerra permise alle imprese già impegnate nello sforzo bellico di riconvertire la produzione in beni di consumo ad alto contenuto tecnologico, resi accessibili a un largo pubblico grazie alle agevolazioni creditizie.
Nasceva la cosiddetta società dei consumi, che presto si sarebbe espansa all'Europa: le case degli americani si riempirono di elettrodomestici – televisioni, forni elettrici, frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie, aspirapolvere, lucidatrici – che, insieme con l'uso dell'automobile che permetteva di sbrigare più velocemente le commissioni e con i grandi supermercati dove si poteva trovare qualunque cosa rendendo più semplice e rapida la spesa, sembravano rendere lievi e perfino divertenti i già faticosi e noiosi lavori domestici. Il sogno della famiglia della middle class divenne la casa unifamiliare con annesso giardino a prato, che si affaccia nel viale silenzioso di un quartiere residenziale, lontano dalle pericolose periferie dei centri urbani. Contemporaneamente, la pubblica opinione vantava alle ragazze le soddisfazioni del matrimonio e della vita familiare, e la convenienza di rinunciare agli studi e al lavoro: solo allevare figli e prendersi cura del marito avrebbe realizzato le autentiche aspirazioni di una donna.
Nel 1957 Betty Friedan (1921-2006) organizzò dei sondaggi presso molte donne di mezza età, laureate o d'istruzione superiore, che si erano dedicate esclusivamente a una vita di casalinghe, intervistandole circa la loro istruzione, le loro esperienze e le eventuali soddisfazioni ricavate dalla loro vita attuale. Scrisse articoli su quello che chiamò "il problema senza nome", che poi raccolse e rielaborò nel libro The Feminine Mystique (La mistica della femminilità),[39] pubblicato nel 1963.
Il suo libro-inchiesta ebbe grande successo e smentì l'immagine stereotipata fornita dagli «esperti» di pubblicità, di sociologia e di psicologia nelle riviste specializzate: esisteva in realtà un «problema senza nome condiviso da innumerevoli donne americane», del quale i creatori della «mistica della femminilità» - la donna tutta casa, figli e marito - non avevano mai parlato. Il problema consisteva nel disagio della loro condizione, del quale non riuscivano a trovare una causa, ma ne esprimevano i sintomi: «Talvolta c'era chi diceva: "Ogni tanto mi sento vuota ... incompleta". Oppure: "Mi pare di non esistere". Talvolta questa sensazione veniva annullata con un tranquillante. Talvolta la donna pensava che tutto dipendeva dal marito o dai figli, o che quel che le occorreva era un nuovo arredamento, o un alloggio migliore o un amante o un altro bambino. A volte andava dal medico accusando sintomi che a malapena riusciva a descrivere: "Un senso di stanchezza ... mi arrabbio tanto con i bambini da spaventarmi ... mi vien da piangere senza motivo"».[40]
Denunciato il ruolo coatto di sposa e di madre della donna americana, la Friedan ritiene che essa debba procurarsi un lavoro e cercare di coniugare gli impegni professionali con quelli domestici. È la soluzione tradizionale già suggerita dal femminismo liberale del secolo precedente. Nel 1966 la stessa Friedan, insieme ad Aileen Hernandez e a Pauli Murray, fondò la NOW, National Organization for Women,[41] un'organizzazione che presentò proposte legislative allo scopo di ottenere l'effettiva eguaglianza tra i due sessi.
La «seconda ondata»: il femminismo radicale [modifica]
Intanto negli Stati Uniti si diffondeva la protesta contro la discriminazione razziale, contro la politica neo-colonialista nei confronti dei paesi del Terzo mondo e contro la partecipazione alla guerra vietnamita: cresceva il numero dei renitenti alla leva in un Paese ove esisteva ancora la coscrizione obbligatoria. In prima fila si ponevano intellettuali e studenti della New Left: tra di loro, gruppi di giovani donne cominciarono a pensare in modo nuovo il problema del ruolo delle donne in una società che formalmente riconosceva l'eguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, ma di fatto sembrava essere ancora dominata dagli uomini.
Si tratta di femministe provenienti dalle file della classe media, alle quali le analisi della tradizione liberale e socialista non sembrano più sufficienti: se nelle democrazie occidentali le donne hanno ormai ottenuto parità giuridica ed eguali retribuzioni nell'ambiente di lavoro, ma se nella società e nella famiglia comandano ancora gli uomini, vuol dire che i motivi del dominio maschile vanno individuati alla radice, e cioè nella differenza sessuale.
Le Redstockings [modifica]
Il nuovo femminismo radicale, rappresentato ai suoi esordi dal gruppo delle Redstockings,[42] il 7 luglio 1969 lanciò il suo manifesto a New York: «Le donne sono una classe oppressa. La nostra oppressione è totale e riguarda ogni aspetto della nostra vita. Siamo sfruttate come oggetti sessuali e di riproduzione, come personale domestico e come manodopera a basso costo. Siamo considerate esseri inferiori, il cui unico scopo è quello di migliorare la vita degli uomini. La nostra umanità è negata. Il nostro comportamento ci viene prescritto e imposto con la minaccia della violenza fisica [...] Noi identifichiamo gli agenti della nostra oppressione negli uomini. La supremazia maschile è la più antica, la più basilare forma di dominio. Tutte le altre forme di sfruttamento e di oppressione (razzismo, capitalismo, imperialismo ecc.) sono estensioni della supremazia maschile: gli uomini dominano le donne, pochi uomini dominano il resto. Tutte le strutture di potere nel corso della storia sono stati a prevalenza maschile e maschilista. Gli uomini hanno controllato tutte le istituzioni politiche, economiche e culturali e hanno sostenuto questo controllo con la forza fisica. Hanno usato il loro potere per mantenere le donne in una posizione di inferiorità. Tutti gli uomini ricevono benefici economici, sessuali e psicologici dalla supremazia maschile. Tutti gli uomini hanno oppresso le donne».[43]
Kate Millett [modifica]
L'anno successivo uscì il libro Sexual politics (La politica del sesso),[44] di Kate Millett (n. 1934), una delle fondatrici del gruppo delle Redstockings, la quale elabora il tema secondo il quale il sessismo - la politica basata sul dominio del sesso maschile su quello femminile - è alla base del vigente sistema patriarcale.
Analizzando anche testi degli scrittori contemporanei David Lawrence, Norman Mailer, Henry Miller e Jean Genet, la Millett rileva come i primi tre vedano nella donna «una fastidiosa forza minoritaria da conculcare e mirano a un ordinamento sociale nel quale la femmina sarebbe perfettamente dominata», mentre l'omosessuale Genet «ha invece integrato la donna in una visione di drastica sollevazione sociale, dove la sua antica subordinazione può dar luogo a una forza esplosiva. E, effettivamente, in Les paravents, sono le donne a rappresentare la rivoluzione».[45]
Per la Millett, che ha un'estrazione marxista, precedente al dominio di classe è il dominio dell'uomo sulla donna che si esprime nella politica sessista delle società patriarcali. La donna è considerata un oggetto sessuale da usare per il proprio piacere, ma lo stesso atto sessuale, prima ancora di essere un atto di piacere e di procreazione, è un atto politico con il quale si manifesta e si riafferma la supremazia del maschio «in tutti i momenti della storia e in tutte le forme istituzionali [...] e con tutti i mezzi (dalle "lusinghe" del "mito" della donna alle "minacce" di violenza sessuale)».[46]
Shulamith Firestone [modifica]
Anche The Dialectic of Sex (La dialettica dei sessi) di Shulamith Firestone (n. 1945), pubblicato nel 1970, cerca le cause del predominio maschile sulle donne e le trova nella condizione che la natura ha assegnato alla donna di trovarsi per mesi in gravidanza, a dover partorire e allevare per anni i propri figli. In molti anni della sua vita la donna si trova pertanto, all'interno della famiglia, in una condizione di obbiettiva debolezza e bisognosa dell'aiuto dell'uomo, che da questa situazione ha tratto i motivi per imporre il suo dominio.
Come è necessaria una rivoluzione socialista per eliminare le distinzioni di classe, così è necessaria una rivoluzione femminista perché le donne si riapproprino del controllo del loro corpo e della fertilità: «l'obiettivo finale della rivoluzione femminista deve essere, a differenza di quella del primo movimento femminista, non solo l'eliminazione del privilegio maschile, ma della stessa distinzione dei sessi: le differenze genitali tra gli esseri umani non avranno più alcuna importanza culturale».
Si potrebbe così tornare alla libera espressione di una pansessualità - quella che Freud chiamava perversa polimorfa - che sostituisca l'attuale unico binomio etero-omosessuale e «la riproduzione della specie da parte di un sesso a beneficio di entrambi sarebbe sostituita dalla riproduzione artificiale». Grazie alla socializzazione dell'allevamento dei figli cesserebbe la dipendenza del bambino dalla madre e dalla madre dal bambino, e si spezzerebbe la tirannia della famiglia biologica, così come la cibernetica libererà uomini e donne dalle fatiche del lavoro.[47]
Anne Koedt [modifica]
Anne Koedt (n. 1941), altra militante delle Redstockings come la Millett e la Firestone, aveva già scritto nel 1968 per le Notes from the First Year di quest'ultima un articolo che ripubblicò rielaborato nel 1970, The Myth of the Vaginal Orgasm (Il mito dell'orgasmo vaginale),[48] un testo molto «scandaloso» all'epoca, nel quale attaccò il fondamento della teoria freudiana sulla sessualità femminile, ossia l'idea che una giovane divenga realmente donna sessualmente adulta quando abbandoni l'orgasmo clitorideo, ottenuto con la pratica della masturbazione, in favore dell'orgasmo vaginale, che sarebbe provocato dalla penetrazione maschile. Freud sosteneva che la frigidità femminile - l'incapacità di raggiungere l'orgasmo vaginale - era una forma di nevrosi, riconducibile a una fissazione alla fase puberale.
In realtà «la vagina non è un'area altamente sensibile e non è congegnata per raggiungere l'orgasmo. È la clitoride il centro della sensibilità sessuale e l'equivalente femminile del pene». E come il pene è l'unica area sessualmente sensibile dell'uomo, nella donna «c'è una sola area di acme sessuale, anche se ci sono molte aree di sollecitazione sessuale: quell'area è la clitoride» che nel rapporto sessuale convenzionale non viene sufficientemente stimolata e la donna sembra «frigida». Che le cose stiano effettivamente in questo modo era del resto già stato dimostrato da decenni da studi d'istologia e di sessuologia, passati inosservati, per la loro stessa natura, all'opinione pubblica.[49]
Della cosiddetta frigidità femminile è in realtà responsabile l'uomo, che ha l'errata idea che la penetrazione vaginale - niente altro che una masturbazione maschile ottenuta con lo sfregamento del pene nelle pareti vaginali - sia il canonico e corretto rapporto sessuale in grado di appagare entrambi i partners. Ne deriva altresì che attraverso il mito freudiano «le donne sono state definite sessualmente nei termini che piacciono agli uomini [...] siamo state nutrite col mito della donna liberata e del suo orgasmo vaginale - un orgasmo che di fatto non esiste».[50]
Il mito freudiano è del resto funzionale a una società organizzata in vista dello sfruttamento degli interessi maschili e gli uomini «temono di diventare sessualmente superflui se la clitoride fosse sostituita alla vagina come centro del piacere femminile». A loro volta le donne potrebbero liberare la loro sessualità: «lo stabilimento dell'orgasmo clitorideo come fatto minaccerebbe l'istituzione eterosessuale. Esso indicherebbe infatti che il piacere sessuale si può ottenere sia da un uomo che da un'altra donna, facendo così dell'eterosessualità non un assoluto ma un'opzione».[51]
Il femminismo lesbico [modifica]
Per approfondire, vedi le voci Movimento lesbico e Separatismo femminista.
Le Radicalesbians [modifica]
Simbolo del lesbismo
« Il femminismo è la teoria, il lesbismo la pratica »
(Attribuito a Ti-Grace Atkinson, in A. Koedt, Lesbianism and Feminism)
Le conclusioni del saggio della Koedt diedero una forte spinta all'organizzazione di un movimento lesbico, dal momento che inizialmente le lesbiche si erano sentite discriminate dal movimento femminista. Nel 1970 il gruppo delle Radicalesbians poté pubblicare sulle Notes from the Third Year il suo manifesto, The Woman Identified Woman.
«Che cosa è una lesbica? Una lesbica è la rabbia di tutte le donne condensata al punto di esplosione» - è l'esordio del manifesto. Innanzi tutto «il lesbismo, come l'omosessualità maschile, è una categoria di comportamento possibile solo in una società sessista caratterizzata da rigidi ruoli sessuali e dominata dalla supremazia maschile. Tali ruoli sessuali disumanizzano le donne definendoci una sottocategoria rispetto alla dominante casta degli uomini». Le lesbiche sono considerate una sorta di uomini mancati, alienati dal proprio corpo e dalle proprie emozioni e «l'omosessualità è il risultato di un particolare modo di creare ruoli o modelli di comportamento sulla base del sesso, e in quanto tale è una categoria inautentica, non in consonanza con la "realtà". In una società in cui gli uomini non opprimessero le donne, e l'espressione sessuale potesse seguire i sentimenti, le categorie di omosessualità ed eterosessualità scomparirebbero».[52]
«Lesbica» è anche un'etichetta che «l'uomo getta contro qualsiasi donna che osi essere suo pari sfidando le sue prerogative, tra le quali è compresa quella di considerare le donne un mezzo di scambio tra gli uomini». Ecco perché questa etichetta è oggi affibbiata alle femministe come ieri era assegnata a quelle donne che seppero costruirsi una vita indipendente dalla tutela dell'uomo.
«Lesbica» è una delle categorie sessuali con le quali gli uomini hanno diviso l'umanità: «mentre tutte le donne sono disumanizzate come oggetti sessuali, quando accettano di essere oggetti degli uomini esse ottengono la compensazione di essere identificate con la forza, l'ego e lo status dell'uomo. La disumanizzazione si rivela dal fatto che quando una donna eterosessuale conosce una lesbica, subito comincia a riguardarla come un suo potenziale oggetto sessuale, attribuendo alla lesbica un ruolo maschile surrogato: questo comportamento rivela il suo condizionamento eterosessuale a fare di sé stessa un oggetto quando il sesso è potenzialmente coinvolto in una relazione». Si nega così alla lesbica la sua piena umanità e si dimostra quanto forte sia il condizionamento culturale maschile in seno alle stesse donne.[53]
Aver interiorizzato le definizioni che la cultura maschile dà delle donne, le esclude dalla possibilità di elaborare i termini della loro vita: «l'uomo ci attribuisce una sola cosa: lo status che ci rende schiave legittimandoci agli occhi della società in cui viviamo. Questo, nell'attuale gergo culturale, si chiama "femminilità" o "essere una vera donna". Noi siamo autentiche, legittimate, reali nella misura in cui siamo proprietà di un uomo del quale portiamo il nome. Essere una donna che non appartiene a nessun uomo significa essere invisibile, patetica, inautentica, irreale. L'uomo conferma la sua immagine di noi - ciò che dobbiamo essere per essere accettate da lui - ma non il nostro vero io; lui conferma la nostra femminilità, come la chiama, in relazione a lui, ma noi non possiamo affermare la nostra personalità, il nostro autentico noi stesse. Finché saremo subordinate alla cultura maschile per questa definizione, per questa approvazione, noi non potremo essere libere».[54]
Adrienne Rich [modifica]
La scrittrice Adrienne Rich (n. 1929) nel 1976 aveva già dato un contributo alle discussioni del movimento femminista con Of Woman born (Nato di donna), in cui aveva difeso la funzione della maternità, considerandola una risorsa e una ricchezza della donna, purché sottratta alla logica patriarcale. Con Compulsory Heterosexuality and Lesbian Existence (Eterosessualità obbligata ed esistenza lesbica), del 1980, la Rich interviene per rivendicare la piena legittimità del femminismo lesbico all'interno del movimento femminista, orientato in senso eterosessuale pur se violentemente polemico verso la cultura patriarcale: «La ricerca teorica femminista non può più limitarsi ad esprimere tolleranza per il "lesbismo" in quanto "stile di vita alternativo" o fare riferimenti meramente rituali alle lesbiche. È ormai tempo di elaborare una critica femminista dell'orientamento eterosessuale imposto alle donne».[55]
La Rich contesta che la sessualità femminile sia eterosessuale per una sorta di inclinazione di natura «mistico-biologica» - la necessità della riproduzione della specie - una preferenza o una scelta che spinge le donne verso gli uomini «nonostante i potenti impulsi e le complementarità emotive che spingono le donne verso le donne». Per la Rich «l'eterosessualità, come la maternità, deve essere considerata ed analizzata in quanto istituzione politica».[56]
L'eterosessualità è stata e viene imposta alle donne con i più diversi mezzi: lo stupro, le percosse, l'incesto, l'educazione - la spinta sessuale maschile equivarrebbe a un diritto - l'idealizzazione dell'amore eterosessuale nell'arte, nella letteratura, nei media, nella pubblicità - l'ideologia dell'amore eterosessuale inculcata alla donna fin da piccola attraverso le fiabe, la televisione, il cinema, la pubblicità, le canzonette e la coreografia dei riti nuziali è un mezzo potente di educazione all'eterosessualità - i matrimoni con spose bambine e quelli obbligati, la prostituzione, gli harem, le teorie psicoanalitiche sulla frigidità e l'orgasmo vaginale, le immagini pornografiche di donne che provano piacere dalla violenza sessuale e dall'umiliazione.[57]
Ma fra i tanti sistemi di imposizione vi è naturalmente anche «l'occultamento della possibilità di una scelta lesbica, un continente sommerso che affiora di tanto in tanto per essere poi subito risommerso. Qualsiasi studio o elaborazione teorica femminista che contribuisca a mantenere l'occultamento e la marginalità lesbica opera contro la liberazione e il rafforzamento delle donne come gruppo».[58]
La scrittrice introduce i concetti di esistenza lesbica e di continuum lesbico: «esistenza lesbica sta ad indicare sia il riconoscimento della presenza storica delle lesbiche che la nostra costante elaborazione del significato di tale esistenza. Per continuum lesbico intendo una serie di esperienze - sia nell'ambito della vita di ogni singola donna che attraverso la storia - in cui si manifesta l'interiorizzazione di una soggettività femminile e non solo il fatto che una donna abbia avuto o consciamente desiderato rapporti sessuali con un'altra donna. Se allarghiamo il concetto fino a includervi molte altre espressioni di intensità affettiva primaria fra donne, quali il condividere una ricca vita interiore, l'alleanza contro la tirannia maschile, lo scambio reciproco di appoggio pratico e politico [...] allora cominceremo a recuperare brandelli di storia e di psicologia delle donne che ci erano finora esclusi come conseguenza delle definizioni limitative e in gran parte cliniche di "lesbismo"».[59]
La Rich si rifiuta di assimilare all'omosessualità maschile l'esperienza lesbica, che è, come la maternità, un'esperienza profondamente femminile con uno specifico erotismo, che non può essere ristretto a nessuna singola parte del corpo, o al solo corpo, come un'energia non solo diffusa, ma onnipresente come scrive Audre Lorde,[60] «quando si condivide la gioia, sia fisica che emotiva o psichica» e quando le donne condividono insieme il loro lavoro.[61]
Monique Wittig [modifica]
La femminista lesbica francese Monique Wittig (1935-2003) denuncia in The straight mind, del 1980, l'uso del linguaggio come arma politica, per dare una «lettura scientifica della realtà sociale nella quale gli esseri umani sono dati come invarianti, intoccati dalla storia e immuni dai conflitti di classe, con una psiche identica per ciascuno di essi perché geneticamente programmata». Un esempio è fornito dalla psicanalisi, che pretende di interpretare il linguaggio simbolico dell'inconscio secondo modelli che in realtà essa stessa ha precostituito manipolando i discorsi dei malati. Nella psicanalisi di Jacques Lacan, così come nello strutturalismo antropologico di Lévi-Strauss, l'inconscio e il pensiero primitivo appaiono invariabilmente eterosessuali, ma si tratta di «un'operazione che è stata loro necessaria per eterosessualizzare sistematicamente quella dimensione personale che è emersa tra gli individui dominati nel campo storico, soprattutto tra le donne».
Le cosiddette scienze che presuppongono l'eterosessualità come fondamento di ogni società pretendono di presentare i loro concetti in modo neutro e apolitico, ma sono funzionali al mantenimento dell'oppressione, sono l'ideologia del gruppo dominante. La caratteristica di questa ideologia è di universalizzare tutti i concetti - come quelli di "donna", di "uomo", di "sesso", di "differenza" - come se fossero leggi generali vere per tutte le società, per tutte le epoche e per tutti gli individui, perché fondate sulla "natura", e perciò invarianti, quando in realtà sono solo espressioni di una cultura particolare sviluppatasi storicamente.[62]
In One is not Born a Woman (Donna non si nasce) del 1981 - titolo che fa riferimento alla nota frase di Simone de Beauvoir - Monique Wittig sostiene che gli uomini e le donne costituiscono due classi separate, una divisione che ha unicamente origine politica: «non solo non esiste nessun gruppo naturale "donne" (noi lesbiche ne siamo una prova vivente, fisica), ma come individui noi rimettiamo in questione la "donna", che per noi non è che un mito», un mito costruito sul principio dell'eterosessualità e sulla riproduzione. Ammettere l'esistenza di una divisione "naturale" tra donne e uomini significa naturalizzare la storia e i fenomeni sociali, giustificando così l'oppressione come fatto necessario, e rendendo impossibile ogni cambiamento.
Essendo "donna" e "uomo" due categorie politiche, non sono di conseguenza eterne. Occorre perciò sopprimere gli uomini in quanto classe attraverso una lotta di classe politica: «quando la classe degli uomini sarà scomparsa, anche le donne in quanto classe scompariranno a loro volta, perché non ci sono schiavi senza padroni». Una nuova definizione della persona e del soggetto per tutta l'umanità può essere trovata solo al di fuori delle categorie di sesso, nel rifiuto delle scienze che le utilizzano come loro fondamenti.
Il lesbismo è per la Wittig «la sola forma sociale nella quale possiamo vivere libere» come "lesbica" è il solo concetto al di là delle categorie di sesso, perché il soggetto designato non è una donna, né economicamente, né politicamente, né ideologicamente, perché «ciò che costituisce una donna è la relazione sociale specifica con un uomo», una relazione di servitù dalla quale le lesbiche si sono emancipate. La distruzione della classe delle donne passa attraverso «la distruzione dell'eterosessualità come sistema sociale basato sull'oppressione e l'appropriazione delle donne da parte degli uomini, che produce il corpo delle dottrine della differenza tra i sessi per giustificare questa oppressione».[63]
Sviluppi del femminismo statunitense [modifica]
Gayle Rubin: il sistema sesso/genere [modifica]
Nel 1974 fu pubblicato il saggio di Gayle Rubin (n. 1949) The Traffic in Women. Notes on the "Political Economy" of Sex (Lo scambio delle donne. Note sulla "economia politica" del sesso). La Rubin parte dalla classica analisi di Engels, che ritiene però di dover integrare con le ricerche freudiane in psicanalisi e quelle antropologiche di Lévi-Strauss. Per quanto le conclusioni di questi ultimi siano contestabili, il materiale da loro fornito è un utile strumento di comprensione della realtà sociale, con i suoi meccanismi di oppressione delle donne e dell'omosessualità.
Freud e Lévi-Strauss, infatti, «forniscono gli strumenti concettuali per individuare quella parte della vita sociale che è il locus dell'oppressione della donna, delle minoranze sessuali e di certi aspetti della personalità dell'individuo. Io chiamo questa parte della vita sociale "sex/gender system" [...] Un "sex/gender system" è, a una prima definizione, la tendenza dei dispositivi tramite i quali una società trasforma l'istinto sessuale biologico in prodotto dell'attività umana e attraverso cui i bisogni sessuali, così trasformati, sono soddisfatti».
Mentre gli individui si distinguono biologicamente secondo il sesso, ossia secondo le due categorie di maschi e femmine, il genere è «l'insieme dei processi di adattamento, modalità di comportamento e di rapporti, con i quali ogni società trasforma la differenza sessuale biologica in prodotti dell'attività umana». Si tratta del risultato di un processo storico che ha per conseguenza l'attribuzione, all'interno della società, di determinati ruoli in base al sesso di appartenenza. Attraverso l'educazione impartita fin dall'infanzia ci si aspetta che ogni individuo si identifichi con il ruolo assegnatogli – riconosca cioè la sua identità sessuata nel ruolo – e onori le aspettative relative assumendo i comportamenti corrispondenti.
Ne Les structures élémentaires de la parenté (Le strutture elementari della parentela) Lévi-Strauss aveva analizzato il matrimonio nelle società primitive. Egli ritiene che «l'essenza dei sistemi di parentela consista nello scambio delle donne tra uomini», costruendo così implicitamente una teoria dell'oppressione sessuale: «Scambio delle donne è una formula rapida per esprimere che i rapporti sociali di un sistema di parentela specificano che gli uomini hanno certi diritti sulle loro parenti donne, e che le donne non hanno gli stessi diritti, né su se stesse né sui loro parenti uomini. In questo senso, il concetto di scambio delle donne rappresenta una percezione profonda di un sistema nel quale le donne non hanno pieni diritti su se stesse».
La Rubin va oltre le analisi di Lévi-Strauss, spiegando il senso dei sistemi di parentela. Questi si basano sul matrimonio e trasformano i maschi in uomini e le femmine in donne, cioè in un genere. Inoltre, «il tabù dell'incesto presuppone l'esistenza di un tabù, precedente e meno esplicito, sull'omosessualità. Una proibizione gravante su certe unioni eterosessuali suppone un tabù sulle unioni non eterosessuali. Il genere non è solo l'identificazione con un sesso, è anche l'obbligo di indirizzare il desiderio sessuale verso il sesso opposto. La divisione sessuale del lavoro è compresa in entrambi gli aspetti del genere: essa li crea uomo e donna e li crea eterosessuali. Il rifiuto della componente omosessuale della sessualità umana e, come suo corollario, l'oppressione degli omosessuali, è quindi un prodotto dello stesso sistema che, con le sue regole e i suoi rapporti, opprimono le donne».
Dalla psicanalisi la Rubin accetta il concetto di complesso di Edipo: la sua esistenza e i suoi effetti negativi sono dovuti proprio al sistema sex/gender, in quanto i bambini si trovano, crescendo e venendo investiti del ruolo, a dover negare l'amore per la madre, la figura primaria della loro infanzia. Se invece sia l'uomo che la donna si prendessero cura paritariamente dei loro figli, «il primo oggetto d'amore potrebbe essere bisessuale. Se l'eterosessualità non fosse obbligatoria, questo primo amore non dovrebbe essere represso [...] e l'intero dramma edipico si potrebbe ridurre a una reliquia».
Il movimento femminista, che si pone il problema del superamento delle contraddizioni di un sistema sociale che produce l'oppressione sessista, deve pertanto mirare all'eliminazione del ruoli sessuali imposti. Il sogno della Rubin è quello di «una società androgina senza genere [...] nella quale l'anatomia di una persona sia irrilevante per stabilire cosa si deve fare e con chi si deve fare l'amore».[64]
Susan Brownmiller [modifica]
La ricerca delle origini dell'oppressione femminile nella storia umana portò Susan Brownmiller (n. 1935) a teorizzare nel suo Against Our Will. Men, Women and Rape (Contro la nostra volontà. Uomini, donne e violenza sessuale) del 1975, che sia stato lo stupro o anche soltanto la minaccia della violenza sessuale il mezzo con il quale gli uomini primitivi ottennero quella subordinazione delle donne che, pur in forma mutate, si è perpetuata nelle società moderne.
Già il socialdemocratico tedesco August Bebel (1840-1913), ne La donna e il socialismo (1879), prima ancora di Engels rintracciò nella necessità di avere maggiore quantità di forza-lavoro l'origine del ratto delle donne e della schiavitù dei nemici fatti prigionieri: «Le donne diventarono lavoratrici e oggetti di piacere per i conquistatori, i loro uomini diventarono schiavi». Ma, anche se questa analisi è probabilmente vera in sé, secondo la Brownmiller lo stupro, quale mezzo di intimidazione e di asservimento, ha cronologicamente preceduto il ratto e la schiavitù: «in termini di anatomia umana, la possibilità di un coito forzato incontrovertibilmente esiste. Questo solo fattore può essere bastato per determinare un'ideologia maschile dello stupro. Quando gli uomini scoprirono che potevano violentare, si misero a farlo».
Se le prime violenze sessuali poterono essere episodiche, presto l'uomo comprese che esse potevano rappresentare «la fondamentale arma offensiva dell'uomo contro la donna, il principale agente del volere di lui e della paura di lei [...] il definitivo banco di prova della sua forza superiore [...] Si tratta, né più né meno, che di un consapevole processo d'intimidazione mediante il quale tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura».[65]
Dorothy Dinnerstein [modifica]
The Mermaid and the Minotaur. Sexual Arrangements and Human Malaise (La sirenetta e il minotauro. Modalità sessuale e malessere umano) pubblicato nel 1976 dalla psicanalista Dorothy Dinnerstein (1923-1992) rappresenta nelle due figure mitologiche della sirenetta e del minotauro i caratteri rispettivamente femminili e maschili generati dall'allevamento dei figli nelle famiglie delle moderne società occidentali.
Nel rapporto, prevalente se non unico, che i bambini stabiliscono con la propria madre a motivo dell'assenza o dell'insufficiente presenza del padre, si stabiliscono due distinte relazioni di genere: il bambino finirà per sottrarsi alla tutela opprimente della madre assumendo da adulto la figura del minotauro, l'essere che domina e possiede le donne, in modo da ribaltare il suo ruolo infantile di essere dominato da una donna. La bambina, per sottrarsi all'analoga tutela materna, assumerà invece la figura della sirenetta, che seduce l'uomo in modo essere dominata da questi, che si sostituisce così alla madre nel ruolo di dominante.
Come la Rubin, anche la Dinnerstein ritiene che la presenza a pari titolo del padre a fianco della madre - quello che ella chiama dual parenting - possa condurre a una trasformazione dei ruoli di genere che si stabiliscono all'interno della famiglia.
Nancy Chodorow [modifica]
La psicanalista Nancy Chodorow (n. 1944), autrice nel 1978 de The Reproduction of Mothering. Psychoanalysis and the Sociology of Gender (La riproduzione della funzione materna. Psicanalisi e sociologia di genere) considera le differenze di genere formazioni di compromesso del complesso edipico. Tutti i bambini, per i quali la madre rappresenta il primo oggetto sessuale, formano il loro Io in reazione alla figura dominante della madre. Il maschio forma il suo senso di indipendenza in modo più immediato emulando il padre nel suo interesse possessivo verso la madre/moglie.
Per la bambina le cose vanno diversamente, poiché nella successiva fase edipica tenta di fare del padre l'oggetto del suo amore, ma viene ostacolata dal legame intenso con la madre. Tuttavia, da questo legame primario nasce e si mantiene la vocazione della bambina alla maternità, così che la riproduzione della funzione materna della donna costituisce la base per il perpetuarsi della sua collocazione nella sfera domestica: «che le donne facciano le madri è un aspetto fondamentale dell'organizzazione del sistema sesso/genere: sta alla base della divisione del lavoro e accanto all'ideologia circa le capacità e la natura della donna, genera anche una psicologia e un'ideologia della dominanza maschile». Nella divisione del lavoro l'agire dell'uomo si colloca infatti nel luogo allargato della società, mentre l'agire della donna si restringe nell'ambito della famiglia, e i loro distinti ruoli si riproducono nel succedersi delle generazioni.
Per superare un'organizzazione sociale che produce funzioni di generi discriminatorie, è allora necessario cominciare a «riorganizzare la cura della prole, dove l'accudimento primario sia condiviso alla pari dagli uomini e dalle donne». Crescendo in dipendenza di entrambi i genitori, il maschio «non finirebbe per legarsi alla negazione della dipendenza e alla svalutazione della donna» diminuendo «il suo bisogno di difendere gelosamente la propria mascolinità e il controllo delle sfere sociali e culturali che trattano e definiscono la donna come un essere secondario e privo di potere».[66]
Il femminismo nero [modifica]
Il femminismo americano si era costituito fin dall'inizio come movimento di sole donne bianche che, pur denunciando anche le discriminazioni razziali esistenti negli Stati Uniti, non aveva fatto distinzioni tra uomini e donne nere e non aveva preso in considerazione la specifica oppressione esercitata dai neri contro le donne di colore.
Un gruppo di afro-americane diede vita a Boston, nell'aprile del 1977, al Combahee River Collective, un circolo femminista che prese il nome della località dove, durante la guerra di secessione, un reggimento di neri appartenente all'esercito nordista combatté vittoriosamente contro gli schiavisti della Confederazione sudista. La posizione programmatica del collettivo era fortemente radicale e d'ispirazione marxista: «crediamo che la politica sessuale sotto il patriarcato sia pervasiva nella vita delle donne nere quanto la politica di classe e razziale. È difficile separare la razza dall'oppressione di classe e razziale perché esse agiscono simultaneamente nella nostra vita».
Oltre a denunciare il razzismo e il maschilismo bianco, esse dovevano fare i conti con il sessismo di matrice nera e, rispetto alle femministe bianche, dovevano denunciare il ruolo marginale che il mondo del lavoro assegnava alle donne afro-americane che, quando potevano evitare la disoccupazione, si trovavano sottopagate e relegate a svolgere i lavori più umili. Convinte che «la liberazione di tutti i popoli oppressi richiede la distruzione del sistema politico-economico del capitalismo, dell'imperialismo e del patriarcato», affermavano che la rivoluzione socialista doveva essere anche «una rivoluzione femminista e anti-razzista» per garantire la loro effettiva liberazione.
Tra le esponenti di rilievo del femminismo nero statunitense vanno annoverate la scrittrice Michelle Wallace (n. 1952), autrice nel 1979 del libro Black Macho and The Myth of The Superwoman, Angela Davis (n. 1944), comunista, insegnante universitaria, il cui maggior contributo al femminismo è il libro Women, race and class del 1981, anno in cui viene pubblicato anche Ain't I a Woman? dell'attivista bell hooks, pseudonimo (in voluti caratteri minuscoli) di Gloria Jean Watkins (n. 1952), che esamina i temi dell'influsso storico del sessismo e del razzismo sulle donne nere, della svalutazione della femminilità nera, dei ruoli dei media nel propagandare il modello capitalistico e patriarcale, e della sottovalutazione, all'interno dello stesso movimento femminista americano, delle questioni razziali e classiste.
Il femminismo inglese [modifica]
La maggiore esponente del femminismo inglese è senz'altro Juliet Mitchell (n. 1940), socialista, psicanalista e docente di psicanalisi e di Gender Studies nell'Università di Cambridge. Già nel 1966 aveva affrontato, con il saggio The Longest Revolution, pubblicato nella «New Left Review» e rielaborato nel successivo Women's Estate, il problema della condizione di subordinazione sociale delle donne, individuandone le cause nella stessa struttura sociale capitalistica, nello stretto legame tra sessualità e procreazione, e nel ruolo di allevamento dei figli, assegnato esclusivamente a loro.
La via d'uscita, per le donne, è nella rivoluzione socialista, nel diritto al lavoro a pari condizioni con gli uomini, nella separazione tra sessualità e gravidanza, con l'utilizzo generalizzato e gratuito dei mezzi contraccezionali, nel porre fine ai pregiudizi sull'omosessualità, nella cura dei figli condivisa dai genitori, e nella creazione di un maggior numero di asili nido e di centri sociali.
In Psychoanalysis and Feminism, del 1974, la Mitchell offre una rivalutazione delle analisi freudiane sulla psicologia femminile. Freud non è un «maschilista», come credono molte femministe, e in Totem e tabù egli indicò che il patriarcato ha origini storiche e non «naturali», e pertanto esso può essere combattuto e superato. La lotta politica va condotta sia contro il sistema patriarcale che contro quello capitalistico, perché il rovesciamento di quest'ultimo non porta di conseguenza la fine del primo, e a combattere il patriarcato le donne si troveranno a lungo isolate: solo «quando il movimento femminista avrà una sua teoria e una sua prassi rivoluzionaria, anche gli uomini (pur con qualche difficoltà) potranno rinunciare ai loro privilegi patriarcali e diventare femministi».[67]
Il femminismo francese: il pensiero della differenza [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Filosofia della differenza.
Luce Irigaray [modifica]
Il 1º ottobre 1968 venne fondata a Parigi l'associazione femminista radicale Psy-et-po, ossia Psychanalise et politique. In Francia era allora molto vivo l'interesse per le controverse teorie di Jacques Lacan che cercava di rinnovare la psicanalisi freudiana attraverso i mezzi dello strutturalismo linguistico di Ferdinand de Saussure: «l'inconscio si struttura come un linguaggio» e il linguaggio comunica i valori e rappresenta il mondo nel quale ci troviamo a nascere. La dimensione che organizza e impone al bambino e alla bambina i valori dominanti è chiamato «ordine simbolico» perché si esprime con i simboli delle parole, e succede all'«ordine immaginario» nel quale i bambini si riconoscono per la prima volta nell'immagine rimandata dallo specchio, individuandosi come soggetti distinti.
Dalla Psy-et-po e dai seguaci di Lacan proviene Luce Irigaray (n. 1930), che nello Speculum. De l'autre femme (Speculum. Dell'altro in quanto donna), pubblicato nel 1974, rompe con la psicanalisi freudiana e con Lacan, perdendo il posto al dipartimento di psicanalisi nell'Università di Parigi a Vincennes.
Freud stesso definisce la femminilità un «enigma»,[68] per risolvere il quale egli parte dalla sessualità maschile. Dalla differenza dei due sessi, Freud preleva uno dei due termini - quello maschile - che viene assunto come origine la cui differenziazione porterà alla luce l'altro, che appare nelle forme di opposizione essere/divenire, avere/non avere, fallico/non fallico, pene/clitoride, logos/silenzio, desiderio della madre/desiderio d'essere madre: «tutte modalità d'interpretazione della funzione di donna rigorosamente postulate dal proseguimento d'una partita in cui la donna si trova sempre iscritta senza aver mai incominciato a giocare».[69]
Con questi presupposti Freud arriva a considerare la bambina, nella «fase fallica» dello sviluppo sessuale, «un ometto», ma un ometto «dal pene più piccolo. Un ometto svantaggiato. Un ometto la cui libido subirà una più forte repressione [...] più narcisista [...] più pudico, perché si vergogna del confronto svantaggioso. Più invidioso e geloso perché meno dotato [...] un ometto il cui unico desiderio sarebbe quello d'essere o di restare un uomo».[70]
Gli esempi di questa visione fallocentrica si possono moltiplicare: Freud limita il piacere masturbatorio della bambina alla sola clitoride, perché egli ignora le zone erogene che non hanno un corrispettivo maschile,[71] oppure chiama maschile la fase nella quale sia la bambina che il bambino amano la madre - «un modo per eludere la singolarità della relazione tra la bambina e sua madre, così come altrove [Freud] si fa cieco davanti l'originalità d'un desiderio tra donne»[72] - o ancora qualifica di maschile o neutra la libido. Una libido femminile è per lui «priva di qualsiasi giustificazione»,[73] perché diversamente rappresenterebbe «un fuori che minaccia, agli occhi del soggetto maschile della storia, le parole, i segni, il senso, la sintassi» della rappresentazione uomo-sessuale.[74]
Il fallocentrismo delle teorie freudiane si conferma nella presunta «invidia del pene» provata dalla bambina. In Freud la differenza sessuale si risolve in un più o un meno di un sesso, il pene, e la mancanza e l'invidia relativa assolvono la funzione di polo negativo in una dialettica fallocentrica e a rimedio contro l'angoscia maschile di non avere un pene: «se lei ne ha invidia, allora lui ce l'ha. Se lei ha invidia di quello che lui ha, deve trattarsi di cosa che vale. Forse il solo valore che meriti di essere invidiato. Il campione su cui si misura ogni valore».[75]
Insomma Freud, e con lui l'immaginario maschile costruito sull'ordine simbolico dominante, vede la donna come immagine invertita dell'uomo in uno specchio: «affinché l'io sia dotato di valore, occorre che uno specchio lo assicuri, lo ri-assicuri, della sua validità. La donna rappresenta il puntello nel meccanismo della specularità, lei che rinvia all'uomo la "sua" immagine [...] l'intervento di un'immagine altra, d'uno specchio altro, costituisce sempre il rischio d'una crisi mortale». Lo specchio altro è lo speculum, lo specchio concavo che riflette le immagini delle cavità del corpo che uno specchio piano non può rimandare, e che darebbe l'immagine di un'altra donna, quella reale, nella quale la differenza non è una mancanza o un nulla.[76]
Julia Kristeva [modifica]
La psicanalista e semiologa bulgara, naturalizzata francese, Julia Kristeva (n. 1941), senza essere propriamente una femminista, ha dato un contributo importante al dibattito sulla differenza sessuale con la sua teoria dell'ordine semiotico materno. L'ordine semiotico è l'insieme dei segni con la quale la madre si mette in rapporto con i figli fin dalla loro nascita - è dunque costituito dai gesti, dalle carezze, dal contatto diretto del corpo - e precede e viene sostituito dall'ordine simbolico paterno, teorizzato da Lacan e costituito dal linguaggio, che è portatore della dominante ideologia maschile.
Hélène Cixous [modifica]
Hélène Cixous (n. 1937), scrittrice e fondatrice del Centro di studi femminili dell'Università di Vincennes, ha teorizzato la pratica di una «scrittura femminile», così detta perché rifiuta la logica della «scrittura maschile» basata sull'opposizione di coppie concettuali del tipo uomo/donna, padre/madre, attivo/passivo, sole/luna, cultura/natura, giorno/notte, testa/cuore, forma/materia, ecc.
Naturalmente la scrittura maschile non è altro che l'espressione del pensiero maschile, unico e centrale nella storia delle filosofie e delle letterature, e dunque il risultato del «logofallocentrismo». Di fronte a questa situazione di fatto, si può solo improvvisare «una scrittura di donne che si rivolgono ad altre donne, che esaltano quello che è stato ignorato e disprezzato dal discorso maschile, che creano continuamente strutture sintattiche e linguistiche nuove, femminili, non assorbibili nelle codificazioni maschili».[77]
Il femminismo accademico: la questione dell'identità [modifica]
A partire dai primi anni Ottanta il movimento femminista, limitatamente alle sue forme organizzate, subisce un nuovo periodo di riflusso, per quanto alcune sue tematiche sembrano essersi ben radicate nella coscienza delle nuove generazioni e inserite nella pratica sociale e nella legislazione, soprattutto, dei paesi europei e del Nord America. Si diffonde il riconoscimento dell'interruzione volontaria di gravidanza, si puniscono le molestie sessuali, si pone attenzione all'uso di un linguaggio «politicamente corretto», e i movimenti omosessuali ottengono finalmente visibilità.
Un tema su cui le femministe, ma non solo, s'impegnano, è anche quello dello sfruttamento crescente del corpo femminile in spettacoli e in immagini, e della rappresentazione degradata della sessualità fornita da certe pubblicazioni. La femminista radicale americana Andrea Dworkin (1946-2005), che nel 1981 aveva pubblicato il libro Pornography. Men Possessing Women, nel 1983 iniziò insieme con l'avvocato Catharine MacKinnon (n. 1946), una campagna per ottenere la condanna legale delle pubblicazioni pornografiche in quanto rappresenterebbero una violazione dei diritti civili delle donne. Le città di Minneapolis e di Indianapolis emisero in tal senso due ordinanze che furono tuttavia dichiarate anticostituzionali. In compenso, la sua iniziativa fu parzialmente accolta nel 1992 dalla Corte Suprema del Canada, che valutò come certa pornografia rappresenti effettivamente una violazione della garanzia dell'eguaglianza dei sessi. La campagna anti-pornografia della Dworkin fu appoggiata da movimenti conservatori estranei al femminismo e fu criticata da non poche femministe, oltre che dalla scrittrice Erica Jong, che vi videro il rischio connesso all'esercizio di una generalizzata censura contro la libera espressione del pensiero.
Carol Gilligan [modifica]
Crescente è l'approfondimento, in ambito accademico, dei temi che erano emersi durante la «seconda ondata» femminista. Carol Gilligan (n. 1936), insegnante di psicologia nell'Università di Harvard, nel libro del 1982 In a Different Voice. Psychological Theory and Women's Development, (tradotto in italiano Con voce di donna. Etica e formazione della personalità), critica la teoria di Freud, ripresa da Lawrence Kohlberg, secondo la quale l'etica delle donne sarebbe inferiore a quella degli uomini. Analizzando le risposte a un test ideato da Kohlberg per valutare lo sviluppo morale di bambini dei due sessi,[78] la Gilligan, mettendo da parte improbabili questioni di superiorità o meno, rilevava piuttosto la differenza fra il soggetto morale maschile e quello femminile, il primo orientato all'individualismo astratto, il secondo alla relazione concreta.
Il dilemma proposto - un conflitto tra diritto alla vita e diritto alla proprietà privata - era risolto dal bambino per deduzione logica, astraendo dalla concreta situazione il problema morale: nella logica dell'equità egli poneva la soluzione della contesa. «A questo ordinamento gerarchico, con il suo mondo di rappresentazioni fatto di vincitori e vinti», si sostituisce, nell'impostazione che la bambina dà al dilemma, «un intreccio, una fitta trama di rapporti tenuta in vita da un processo di comunicazione», che ricomponga la lacerazione del rapporto all'origine del conflitto.[79]
Donna Haraway: il cyberfemminismo [modifica]
Donna Haraway (n. 1944), femminista socialista e insegnante nell'Università di Santa Cruz, è autrice di A Cyborg Manifesto. Science, Technology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century, pubblicato nel 1985 nella «Socialist Review». Il Manifesto della Haraway è la costruzione di un «mito politico», l'ipotesi di una società futura nella quale i valori del femminismo, del socialismo e del materialismo possano riconoscersi. Al centro dell'utopia è l'immagine del cyborg, «un organismo cibernetico, un ibrido di macchina e organismo, una creatura che appartiene tanto alla realtà sociale che alla finzione». Di fronte a questa nuova realtà, che potrà essere resa possibile dai crescenti progressi della tecnologia informatica, i concetti tradizionali di classe, razza, sesso, genere, corpo, identità, sono destinati a tramontare.
Il cyborg è una creatura che vive in un mondo post-genere e non ha niente a che vedere con la bisessualità, la simbiosi pre-edipica e l'alienazione del lavoro: natura e cultura sono rimodellate, le distinzioni tra naturale e artificiale, corpo e spirito, autosviluppo e creazione e altre ancora che permettevano di distinguere gli organismi dalle macchine, sono divenute molto vaghe. Il futuro mondo dei cyborg potrebbe essere costituito da realtà corporee e sociali nelle quali nessuno avrebbe timore di discendere da un essere animato e da una macchina, né di avere idee sempre frammentate, né opinioni sempre contraddittorie.
Nella realtà odierna - afferma la Haraway - chiamarsi femminista e voler affermare il proprio femminismo è divenuto difficile, perché nominarsi significa anche escludere e le identità sembrano essere contraddittorie e parziali. Lo stesso «essere donna» - oltre a costituire una categoria molto complessa, costruita in base a discorsi scientifici sul sesso e su pratiche sociali discutibili - non è sufficiente a creare un legame con le altre donne, come dimostrano le divisioni tra le femministe stesse. Di fronte alla crisi dell'identità politica della sinistra e del movimento femminista, un passo in avanti può essere costituito dalla rinuncia a ricercare una unione basata sull'identità in favore di una coalizione basata sull'affinità.[80]
Teresa de Lauretis: le tecnologie di genere [modifica]
L'italiana Teresa de Lauretis (n. 1938), da tempo insegnante in diverse Università degli Stati Uniti, in saggi sull'arte teatrale e cinematografica - Alice no. Femminismo, semiotica, cinema (1984), Tecnologie del genere. Saggi su teoria, film e narrativa (1987) - ha affrontato il problema del ruolo assegnato agli attori, mostrando come il suo continuo cambiamento introduca il concetto di parodia: non esistono identità fissate dalla natura e ogni identità assunta è ogni volta una demolizione e una parodia della precedente.
Nella discussione, in ambito femminista, sulla differenza sessuale, il concetto di genere è stato sottoposto a un approfondimento tale che dal suo primitivo significato di semplice distinzione di sesso - il genere maschile e femminile - si è arricchito di una polivalenza di rappresentazioni derivate dalla sessualità, dalla razza, dalla posizione sociale, dalla cultura, dalla psicologia. Un primo risultato di analisi femminista fu concepire il genere quale «marchio della donna, il segno della sua differenza: una differenza sessuale che sottendeva un insieme di tratti caratteriali derivanti dal sesso anatomico e dal destino biologico, e comportava la subordinazione all'uomo».[81]
Le tecnologie del genere sono, per la de Lauretis, forme culturali - quali il linguaggio, la filosofia, la religione, la letteratura, le arti visive e i media - che alimentano e costruiscono il genere insieme con le forme istituzionali del diritto, della scuola, della famiglia. Il genere, pertanto, non è una semplice derivazione del sesso biologico, ma è una rappresentazione discorsiva e ha una natura artificiale. Ma il genere appartiene alla realtà concreta del singolo individuo e diviene autorappresentazione e componente dell'identità individuale: «il soggetto si ingenera, si produce in quanto soggetto nell'assumere, nel fare proprie o nell'identificarsi con gli effetti di senso e le posizioni specificate dal sistema sessuale di una data società», tanto più quanto maggiormente egli è soggetto alle tecnologie del genere.[82]
Judith Butler e la queer theory [modifica]
Per Teresa de Lauretis, il genere, pur tenuto distinto dal sesso e dalla sessualità, è necessariamente interconnesso con la sessualità. Ma nell'ultimo scorcio del Novecento si affermano nuovi studi nei quali non solo il genere, ma anche sesso e sessualità sono intesi essere costruzioni discorsive e simboliche: diversamente dalla persona transessuale, che si identifica nel "sesso" opposto a quello assegnatogli alla nascita, il transgender è il soggetto che si identifica, che costruisce la propria identità al di là del proprio corpo e del proprio sesso, oltre la sessualità e il genere. Il transgender «non si riferisce a nulla se non alla propria natura di figura del discorso».[83]
Judith Butler (n. 1956), insegnante nell'Università di Berkeley, nel suo Gender Trouble (Il problema del genere, 1990) sostiene che non si possa parlare della «donna» in termini universali: si tratta infatti di una categoria complessa determinata dall'appartenenza alla classe, all’etnia, alla sessualità; lo stesso patriarcato non è una categoria universale, perché si è strutturato storicamente in forme e in luoghi diversi, esercitando diversamente la sua oppressione sulle donne.
La psicanalisi e lo strutturalismo antropologico hanno teorizzato nel tabù dell'incesto e nel complesso di Edipo la trasformazione del sesso in genere; per Claude Lévi-Strauss essi stanno alla base dello scambio delle donne e dell'istituzione matrimoniale; per la psicanalista inglese Joan Riviere la femminilità è una maschera che nasconde l'identificazione maschile e perciò anche il desiderio che una donna potrebbe avere per un'altra donna; per Freud, nel lutto e nella malinconia l'io si appropria dell'oggetto perduto rivestendosi dei suoi attributi.
Partendo da queste tre teorie, la Butler afferma che l'incesto è «una fantasia culturale» e la presenza del tabù genera il suo desiderio, mentre l'imitazione e la maschera sono l'essenza del genere e l'identificazione con un genere è una forma di malinconia nella quale il sesso dell'oggetto proibito viene interiorizzato in quanto proibito. Per assicurare la stabilità dell'eterosessualità, occorre che la nozione dell'omosessualità esista ma sia proibita. Il tabù dell'incesto è dunque una legge che genera, regolarizza e approva l'eterosessualità, mentre rigetta come sovversiva l'omosessualità, ma né l'una né l'altra sono prodotti naturali, bensì culturali, sono infatti il prodotto di una legge.
Butler vorrebbe costruire un femminismo politico in cui il genere non sia pensato come rappresentativo di una categoria naturale o che vi sia assente. Anche la dualità soggetto-oggetto, un concetto base nella pratica femminista che cerca di riconsegnare alle donne lo statuto di soggetto e non di oggetto, è una divisione artificiale. La nozione di soggetto è infatti formata mediante la ripetizione e l'«esercizio della significazione», e da Teresa de Lauretis la Butler riprende l'idea che la parodia e il travestimento siano il presupposto della costruzione dell'identità di genere. Una politica positiva del femminismo deve perciò emergere ridisegnando i giochi dell'identità e mostrando come ogni tentativo di «essenzializzare» il genere sia destinato alla sconfitta.
La Butler apriva così la strada alla queer theory, che ripensa l'identità fuori dal quadro normativo di una società che guarda alla sessuazione come costitutiva di un'economia binaria degli esseri umani, basata sull'idea della complementarietà nella differenza e realizzata nella coppia eterosessuale. Non esistendo identità naturali, non esistono nemmeno identità deviate e ogni soggetto è libero di assumere qualunque identità, rimanendo ciascuna fluida e provvisoria. La «devianza» del soggetto queer sta piuttosto nel suo porsi polemicamente contro la «normalità» istituzionalizzata dalla tradizione maschilista.
Rosi Braidotti [modifica]
Christine Battersby [modifica]
Il femminismo italiano [modifica]
Il moderno femminismo italiano nasce con la contestazione studentesca: a Trento si costituisce il circolo Lotta femminista e un collettivo di cinque persone pubblica nel 1972 un libro, La coscienza di sfruttata, che analizza la «questione femminile» da un punto di vista marxista: nella società capitalistica la donna è sfruttata due volte, sia come lavoratrice sia nel suo rapporto con l'uomo.
Nel 1969 si costituiscono il Fronte italiano di liberazione femminile (FILF) e il Movimento per la liberazione della donna (MLD), espressione del Partito radicale, che avanza richieste concrete: istituzione del divorzio, informazione sui metodi anticoncezionali, legalizzazione dell'aborto, creazione di asili nido.
Carla Lonzi [modifica]
Di questi collettivi fanno parte anche uomini. Il gruppo Rivolta Femminile, nato nel 1970 a Milano e a Roma, vuole invece essere esclusivamente femminile e accoglie tra le sue fila, tra le altre, Elvira Banotti, che nel 1971 scrive sul problema dell'aborto Sfida femminile, la nota pittrice Carla Accardi, che scrive Superiore e inferiore, e Carla Lonzi (1931-1982), che redige con Accardi e Banotti il Manifesto di Rivolta femminile e alla quale si devono i primi, più importanti testi femministi scritti in Italia, Sputiamo su Hegel, del 1970, e La donna clitoridea e la donna vaginale, del 1971.
Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, teorizzava l'inferiorità della donna, giustificata dalle superiori esigenze della realizzazione dello Spirito. Nella famiglia, fratello e sorella sono differenti ma eguali, e però dalla famiglia il fratello esce per realizzarsi come «individualità che si volge verso altro e passa nella coscienza dell'universalità». Il destino della sorella è invece di divenire moglie e madre, restando dunque nell'ambito della famiglia, vincolata al particolare ed esclusa dall'universalità della comunità sociale. Non a caso le donne, sosteneva ancora Hegel nelle Lezioni di filosofia del diritto, «non sono fatte per le attività che richiedono una capacità universale, come le scienze più avanzate, la filosofia e certe forme di produzione artistica», né sanno agire «secondo esigenze di universalità, ma secondo inclinazioni e opinioni arbitrarie».
Si capisce allora come Carla Lonzi invitasse nel Manifesto a «sputare» sul filosofo tedesco, uno di coloro che avevano «mantenuto il principio della donna come essere aggiuntivo per la riproduzione della umanità, legame con la divinità o soglia del mondo animale; sfera privata e pietas», giustificando «nella metafisica ciò che era ingiusto e atroce nella vita della donna».
Oggi la donna è definita giuridicamente eguale all'uomo, ma si tratta, secondo la Lonzi, di un tentativo ideologico per asservirla a più alti livelli, perché «la donna è l'altro rispetto all'uomo e l'uomo è l'altro rispetto alla donna» e liberarsi non vuole dire accettare la stessa vita dell'uomo, che «è invivibile», ma esprimere il suo senso dell'esistenza: «il mondo dell'eguaglianza è il mondo della sopraffazione legalizzata, dell'unidimensionale; il mondo della differenza è il mondo dove [...] la sopraffazione cede al rispetto della varietà e della molteplicità della vita. L'uguaglianza tra i sessi è la veste in cui si maschera oggi l'inferiorità della donna».[84]
Anche nel rapporto più diretto e intimo con la donna, quello sessuale, l'uomo ha imposto alla donna il proprio piacere: «il piacere vaginale non è per la donna il piacere più profondo e completo, ma è il piacere ufficiale della cultura sessuale patriarcale».[85] Come Anne Koedt, Carla Lonzi definisce «mito» l'orgasmo vaginale cui contrappone l'autentico piacere clitorideo e rileva come esistano due vere e proprie condizioni femminili, la «donna clitoridea» e la «donna vaginale». Quest'ultima ha accettato la sessualità che l'uomo le ha imposto, ma occorre liberarsi anche da questa primitiva oppressione patriarcale: «la donna clitoridea non ha da offrire all'uomo niente di essenziale, e non si aspetta niente di essenziale da lui. Non soffre della dualità, e non vuole diventare uno».[86]
Le femministe manifestano a Roma l'8 marzo del 1972 in occasione della Giornata Internazionale della Donna e vengono caricate dalla polizia: Alma Sabatini - colei che nel 1987 pubblicherà le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana – «finisce all'ospedale. Sembrò di essere tornati indietro di cento anni, quando le suffragette inglesi venivano percosse dai poliziotti perché chiedevano il voto».[87]
Nel 1974 gli italiani respinsero il referendum abrogativo della legge sul divorzio promosso da Gabrio Lombardi, professore della Pontificia Università Gregoriana, e appoggiato dalla Democrazia Cristiana e dal Movimento Sociale. Le femministe iniziarono a mobilitarsi per il riconoscimento del diritto all'aborto, che venne approvato dal Parlamento il 6 giugno 1978 e confermato nel 1981 respingendo il referendum abrogativo.
Negli anni Settanta e Ottanta si costituiscono altri gruppi femministi in diverse città, nascono iniziative editoriali - «L'Edizione delle donne» e «La Tartaruga» a Milano - e si pubblicano riviste esclusivamente dedicate alle tematiche femministe, come la «DWF» a Roma. Nel gennaio del 1983 esce nella rivista Sottosopra, espressione del gruppo milanese della Libreria delle Donne, l'articolo Più donne che uomini che, rielaborato e ampliato, produce nel 1987 il libro Non credere di avere dei diritti.
Il movimento femminile in questi anni ha indubbiamente ottenuto dei successi, sia nel campo sociale, sia in quello personale, attraverso «la pratica politica dei rapporti tra donne», ma manca ancora «il modo di tradurre in realtà sociale l'esperienza, il sapere e il valore di essere donne». Nei rapporti sociali le donne si trovano in difficoltà, «perché l'essere donna, con la sua esperienza e i suoi desideri, non ha luogo in questa società, modellata dal desiderio maschile e dall'essere corpo di uomo». Una donna si può affermare nella società a condizione di modellarsi sull'uomo, a costo di una mutilazione di sé, dell'isolamento dalle proprie simili, in definitiva, a costo del «disprezzo per il proprio sesso. Questo rinnegamento della parte perdente, dentro e fuori di sé, fa sì che tra le poche donne affermate socialmente molte siano in sostanza delle conservatrici o delle reazionarie».[88]
Per superare questa condizione di scacco e di inadeguatezza che la donna deve subire, occorre «sessualizzare i rapporti sociali», che vuol dire «toglierli dalla loro apparente neutralità e mostrare che nei modi socialmente correnti di rapportarsi ai propri simili una donna non si trovava integralmente né con il proprio piacere né con le proprie capacità».[89]
Un programma che punti alla parità dei diritti tra i due sessi rappresenta una politica subordinata e della subordinazione, e «non tocca la sostanza del problema, e cioè che in questa società così com'è le donne non trovano né forti incentivi ad inserirsi né vera possibilità di affermarsi al meglio di sé. Una donna ci sta, ammesso che voglia starci, a disagio».[89] Le politiche delle rivendicazioni sono forme politiche maschili, che portano all'omologazione della donna nell'universalità del modello maschile e negano la significazione della differenza sessuale.[90]
Dal disagio dell'esistenza sociale la donna può uscire contrastando la cancellazione delle proprie «emozioni, desideri, motivazioni, comportamenti, criteri di giudizio, che non siano quelli rispondenti alla mascolinità, quelli cioè che ancora prevalgono nella società governandola fin nelle sue più libere espressioni», dunque «sessualizzando i rapporti sociali», mettendo cioè in rilievo la differenza sessuale e dandole voce e visibilità. Le donne non sono tutte eguali, esistono disparità che occorre valorizzare affidando ciascuna «a una propria simile - alla sua voglia di vincere, alla sua estraneità - per il proprio interesse, e stabilire così un legame materiale che mette in comunicazione cose che erano tacitate o distorte nel confronto individuale con la società maschile».[89] Questo rapporto sociale di affidamento tra donne è contenuto e strumento della più generale politica di liberazione femminile.[91]
Luisa Muraro [modifica]
Luisa Muraro (n. 1940), esponente di spicco della Libreria delle Donne e membro della comunità di filosofe che si raccolgono a Verona sotto il nome di Diotima, ha pubblicato nel 1991 L'ordine simbolico della madre. Contro il dominante ordine simbolico paterno occorre costruire un diverso complesso culturale, concettuale e linguistico, l'ordine simbolico materno. Ogni costruzione implica un inizio: Platone situa l'inizio del sapere nel mito dell'uscita della caverna, Cartesio nella certezza di essere garantita dal pensiero, ma il primo sapere che ogni essere umano ha realmente sperimentato fin dai primi momenti della vita è «il saper amare la madre», e saper amare la madre «fa ordine simbolico».[92]
La nostra primitiva relazione con la madre, instaurata nell'immediatezza della venuta al mondo e fatta di contatti, di gesti, di parole, di reciproca comunicazione nella quale non si distingue il corpo dalla mente e la mente dalla parola, è il luogo dell'immanenza, della presenza intera dell'essere. Saper amare la madre, l'esperienza di relazione con la madre, dà così il senso dell'essere, e il senso autentico dell'essere si manifesta nella coincidenza di avere senso ed essere vero.[93] Saper amare la madre è dunque il principio della conoscenza, ma la rimozione culturale del nostro rapporto con la madre che si verifica con l'avvento della legge del patriarcato, la quale si sovrappone all'opera positiva della madre, ha l'effetto di scindere «la logica dall'essere ed è causa del nostro perdere e riperdere il senso dell'essere».[94]
Si sa che a volte i figli sono allevati da donne che non sono le loro madri biologiche, ma la loro relazione mantiene le medesime caratteristiche che intercorrono nella relazione tra la madre naturale e la sua creatura: dunque l'elemento naturale non è rilevante nella relazione. Muraro deduce da questo fatto «la predisposizione simbolica» della madre a farsi sostituire senza danno «nell'opera di creazione del mondo che ella compie insieme alla sua creatura», e l'esistenza di una struttura, quella del «continuum materno», che attraverso la genealogia delle madri riporta ai primordi della vita. In questo continuum materno la creatura di sesso femminile si situa al centro, mentre «quella di sesso maschile ne sta fuori»: la differenza sessuale è dunque presente fin dalle origini nella relazione con la madre.[95]
È da rilevare che Muraro rifiuta l'opposizione sesso/genere, equivalente in sostanza a un'opposizione natura/cultura, presente in parte nel pensiero femminista nord-americano, che ella ritiene sia di fatto «tributaria del progetto maschile di rifare e soppiantare l'opera della madre». Ridurre la differenza sessuale all'opposizione tra genere e sesso «veicola l'idea che la confezione del corpo ad opera della madre sia separabile dai suoi significati culturali. Cioè, che la madre non pensi. O che il suo pensare sia un aspetto scarsamente rilevante della sua opera».[96]
Adriana Cavarero [modifica]
Il femminismo cristiano [modifica]
La teologia femminista [modifica]
Le critiche al femminismo e l'antifemminismo [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Antifemminismo.
Note [modifica]
^ http://www.universitadelledonne.it/riv-femm.htm
^ a b Liliana Ellena, Spazi e frontiere della storia dei movimenti delle donne in AAVV, «Quaderno di storia contemporanea», n. 40, numero monografico Storie di genere,, 2006, Alessandria, Falsopiano. , ISBN 88 8012 345 9.
^ Vedere Ruba Salih, "Femminismo e Islamismo. Pratiche politiche e processi di identificazione in epoca post-coloniale" in AA VV, Altri femminismi. Corpi Culture Lavoro, Roma, Manifesto libri, 2006. , a cura di Teresa Bertilotti, Cristina Galasso, Alessandra Gissi, Francesca Lagorio, ISBN 88-7285-428-8.
^ M. Wollstonecraft, A Vindication of the Rights of Woman, 1992, p. 133.
^ "La narrativa di Mary Wollstonecraft, «Illuminazioni», n. 1, luglio-settembre 2007
^ a b Adriana Cavarero,Franco Restaino, Le filosofie femministe, Bruno Mondadori, 2002, ISBN 8861592643.
^ a b Valentina Piattelli, "Storia dell'emancipazione femminile in Italia".
^ Dolores Morondo Taramundi, "Il dilemma della differenza nella teoria femminista del diritto", Aras Edizioni 2004, pagine 128, ISBN 8888699244, ISBN-13: 9788888699240
^ M. Schneir, The Vintage Book of Historical Feminism, 1996, pp. 77-78.
^ J. S. Mill, The Subjection of Women, in AA. VV., Feminist Philosophies, 1995, pp. 263-264.
^ J. S. Mill, The Subjection of Women, cit., p. 266.
^ K. Marx, Lettere a Kugelmann, 1950, p. 89.
^ K. Marx, Il capitale, I, 2, 1952, p. 203.
^ F. Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, 1963, p. 76.
^ F. Engels, cit., pp. 80-81.
^ F. Engels, cit., p. 83.
^ F. Engels, cit., ivi.
^ F. Engels, cit., p. 84.
^ Cfr. gli episodi di Telemaco e Penelope, Odissea, I, 356, e XXI, 350.
^ Agamennone e Cassandra in Eschilo, Agamennone.
^ Cfr. Teucro, fratellastro di Aiace, in Iliade, VIII, 284.
^ F. Engels, cit., p. 106.
^ F. Engels, cit., p. 108.
^ F. Engels, cit., p. 101.
^ F. Engels, cit., p. 103.
^ F. Engels, cit., p. 109.
^ J. Déjacque, De l'être-humain mâle et femelle. Lettre à P. J. Proudhon, La Nouvelle-Orléans, 1857, p. 5.
^ P. Marshall,Demanding the Impossible: A History of Anarchism, 1992, p. 409.
^ A. Wexler, Emma Goldman: An Intimate Life, 1984, p. 94.
^ I particolari precisi dell'episodio non sono del tutto chiari. Per maggiori particolari vedi la voce Emily Davison
^ V. Woolf, Le tre ghinee, 1980, p. 58.
^ V. Woolf, Le tre ghinee, p. 57.
^ V. Woolf, Le tre ghinee, p. 141.
^ V. Woolf, Le tre ghinee, pp. 144-145.
^ S. de Beauvoir, Il secondo sesso, 1984, p. 27.
^ S. de Beauvoir, cit., p. 19.
^ S. de Beauvoir, cit., p. 20.
^ S. de Beauvoir, cit., p. 833.
^ La mistica della femminilità, cap. 5.
^ B. Friedan, La mistica della femminilità, 1964, p. 17.
^ (IT) Articolo sulla NOW da DWpress
^ Il nome Redstockings, «calze rosse», fa riferimento al circolo intellettuale femminile delle Bluestockings, «calze blu», sorto nel Settecento in Inghilterra.
^ Redstockings Manifesto, in AA. VV., The Vintage Book of Feminism, 1995, pp. 126-127.
^ Cfr. estratto on-line.
^ K. Millett, La politica del sesso, 1971, p. 432.
^ A. Cavarero, F. Restaino, Le filosofie femministe, 2002, p. 36.
^ S. Firestone, La dialettica fra i sessi. Autoritarismo maschile e società tardo-capitalistica, 1971, pp. 24-25.
^ Cfr. il testo on-line.
^ Sono citati dalla Koedt, tra gli altri, George Lombard Kelly, Sexual Feelings in Married Men and Women, 1951; Alfred C. Kinsey, Sexual Behavior in the Human Female, 1953; Marie Bonaparte, Female Sexuality, 1953; William H. Masters, Virginia E. Johnson, Human Sexual Response, 1966.
^ A. Koedt, The Myth of the Vaginal Orgasm, in AA. VV., The Vintage Book of Feminism, cit., pp. 335-337.
^ A. Koedt, The Myth of the Vaginal Orgasm, cit., pp. 340-342.
^ The Woman Identified Woman, in AA. VV., The Vintage Book of Feminism, cit., p. 163.
^ The Woman Identified Woman, in AA. VV., The Vintage Book of Feminism, cit., pp. 164-165.
^ The Woman Identified Woman, in AA. VV., The Vintage Book of Feminism, cit., p. 166.
^ A. Rich, Eterosessualità obbligata ed esistenza lesbica, in «Nuova DWF», 23-24, 1985, p. 6.
^ A. Rich, Eterosessualità obbligata ed esistenza lesbica, cit., p. 12.
^ A. Rich, Eterosessualità obbligata ed esistenza lesbica, cit., pp. 14-22.
^ A. Rich, Eterosessualità obbligata ed esistenza lesbica, cit., p. 25.
^ A. Rich, Eterosessualità obbligata ed esistenza lesbica, cit., p. 26.
^ A. Lorde, Uses of Erotic. The Erotic as Power, in «Out & Out Books Pamphlet», 3, 1979.
^ A. Rich, Eterosessualità obbligata ed esistenza lesbica, cit., p. 28.
^ M. Wittig, The straight mind in traduzione italiana.
^ L'articolo One is not Born a Woman è riprodotto anche in AA. VV., The Lesbian and Gay Studies Reader, a cura di H. Abelove, M. A. Barale e D. M. Helperin, 1993, pp. 103-109. Traduzione italiana on-line.
^ G. S. Rubin, Lo scambio delle donne. Una rilettura di Marx, Engels, Lévi-Strauss e Freud, in «Nuova DWF», I, 1976, pp. 23-65.
^ S. Brownmiller, Contro la nostra volontà. Uomini, donne e violenza sessuale, 1976, pp. 10-13.
^ N. Chodorow, La riproduzione della funzione materna. Psicanalisi e sociologia della funzione materna, 1991, passim.
^ J. Mitchell, Psicoanalisi e femminismo, 1976, p. 484.
^ La femminilità, in S. Freud, Introduzione alla psicanalisi, 1969, pp. 513-533.
^ L. Irigaray, Speculum. Dell'altro in quanto donna, 2010, p. 17.
^ L. Irigaray, Speculum, cit., pp. 21-22.
^ L. Irigaray, Speculum, cit., pp. 24-25.
^ L. Irigaray, Speculum, cit., p. 27.
^ S. Freud, La femminilità, cit., p. 530.
^ L. Irigaray, Speculum, cit., p. 38.
^ L. Irigaray, Speculum, cit., pp. 46-47.
^ L. Irigaray, Speculum, cit., p. 49.
^ A. Cavarero, F. Restaino, Le filosofie femministe, cit., p. 52.
^ Nel test si chiedeva se fosse lecito a un uomo rubare, in mancanza del denaro per acquistarlo, un farmaco che avrebbe salvato la vita della moglie.
^ C. Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, 1987, p. 41.
^ A Cyborg Manifesto, in D. Haraway, Simians, Cyborgs and Women. The Reinvention of Nature, 1991, pp. 149-155.
^ T. de Lauretis, Soggetti eccentrici, 1999, p. 97.
^ T. de Lauretis, op. cit., ivi.
^ T. de Lauretis, op. cit., p. 105.
^ C. Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, 1974, p. 21.
^ C. Lonzi, op. cit., p. 103.
^ C. Lonzi, op. cit., p. 118.
^ G. Parca, L’avventurosa storia del femminismo, 1981, c. ILIII.
^ Più donne che uomini, in Sottosopra, gennaio 1983.
^ a b c Più donne che uomini, cit.
^ AA. VV., Non credere di avere dei diritti, 1987, p. 19.
^ AA. VV., Non credere di avere dei diritti, cit., p. 19.
^ L. Muraro, L'ordine simbolico della madre, 1991, p. 14.
^ L. Muraro, op. cit., p. 26.
^ L. Muraro, op. cit., p. 27.
^ L. Muraro, op. cit., pp. 53-54.
^ L. Muraro, op. cit., p. 132.
Bibliografia [modifica]
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Julia Kristeva, Eretica dell’amore (1977), Torino, La Rosa Editrice 1979
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Gabriella Parca, L'avventurosa storia del femminismo, Milano, Mondadori 1981
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AA. VV., Lessico politico delle donne: teorie del femminismo, a cura di M. Fraire, Milano, Franco Angeli 2002 ISBN 978-88-464-3725-9
Adriana Cavarero, Franco Restaino, Le filosofie femministe, Milano, Bruno Mondadori 2002 ISBN 978-88-615-9264-3
Fiorenza Taricone, Teoria e prassi dell'associazionismo italiano nel XIX secolo, Cassino, Edizioni dell'Università 2004 ISBN 9788883170157
Anna Rita Calabrò, Laura Grasso, Dal movimento femminista al femminismo diffuso. Storie e percorsi a Milano dagli anni '60 agli anni '80, Milano, Franco Angeli 2004 ISBN 9788846453259
Barbara Sandrucci, Aufklarung al femminile. L'autocoscienza come pratica politica e formativa, Pisa, ETS 2005 ISBN 9788846711861
Maria Mantello, Sessuofobia. Chiesa cattolica. Caccia alle streghe. Il modello per il controllo e la repressione della donna, Roma, Procaccini Editore 2005.
Luca Corchia, I diritti delle donne, in Massimo Ampola, Luca Corchia, Dialogo su Jürgen Habermas. Le trasformazioni della modernità, Pisa, Edizioni ETS, 2007, pp. 143-152.
Narrativa [modifica]
Nawal al-Sa‘adawi, L'amore ai tempi del petrolio, Altriarabi, traduzione di Marika Macco, introduzione di Luisa Morgantini, Editrice il Sirente, Fagnano Alto, 2009. XVI-144 pp. ISBN 978-88-87847-16-1
Marie Cardinal, Le parole per dirlo, Bompiani, Milano, 2001. 304 pp. ISBN 88-452-4901-8
Voci correlate [modifica]
Biografie [modifica]Indice[nascondi]
1 Accezioni terminologiche ed origini del termine
2 Storia
2.1 Le origini del femminismo: la «prima ondata»
2.1.1 La rivoluzione industriale: la situazione femminile in Italia
2.2 Il femminismo liberale
2.3 Il femminismo socialista
2.3.1 Friedrich Engels: l'origine della famiglia
2.4 Il femminismo anarchico
2.5 Il Novecento: il movimento delle «suffragette»
2.6 Il periodo del riflusso
2.6.1 Virginia Woolf
2.6.2 Simone de Beauvoir
2.6.3 Betty Friedan
2.7 La «seconda ondata»: il femminismo radicale
2.7.1 Le Redstockings
2.7.2 Kate Millett
2.7.3 Shulamith Firestone
2.7.4 Anne Koedt
2.8 Il femminismo lesbico
2.8.1 Le Radicalesbians
2.8.2 Adrienne Rich
2.8.3 Monique Wittig
2.9 Sviluppi del femminismo statunitense
2.9.1 Gayle Rubin: il sistema sesso/genere
2.9.2 Susan Brownmiller
2.9.3 Dorothy Dinnerstein
2.9.4 Nancy Chodorow
2.9.5 Il femminismo nero
2.10 Il femminismo inglese
2.11 Il femminismo francese: il pensiero della differenza
2.11.1 Luce Irigaray
2.11.2 Julia Kristeva
2.11.3 Hélène Cixous
2.12 Il femminismo accademico: la questione dell'identità
2.12.1 Carol Gilligan
2.12.2 Donna Haraway: il cyberfemminismo
2.12.3 Teresa de Lauretis: le tecnologie di genere
2.12.4 Judith Butler e la queer theory
2.12.5 Rosi Braidotti
2.12.6 Christine Battersby
2.13 Il femminismo italiano
2.13.1 Carla Lonzi
2.13.2 Luisa Muraro
2.13.3 Adriana Cavarero
2.14 Il femminismo cristiano
2.14.1 La teologia femminista
3 Le critiche al femminismo e l'antifemminismo
4 Note
5 Bibliografia
5.1 Narrativa
6 Voci correlate
6.1 Biografie
6.2 Altro
7 Altri progetti
8 Collegamenti esterni
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Accezioni terminologiche ed origini del termine [modifica]
Tale termine può quindi riferirsi:
alla posizione di chi sostiene la parità politica, sociale ed economica tra i sessi, ritenendo che le donne siano state e siano tuttora, in varie misure, discriminate rispetto agli uomini e ad essi subordinate;
alla convinzione che il sesso biologico non dovrebbe essere un fattore pre-determinante che modella l'identità sociale o i diritti sociopolitici o economici della persona;
al movimento politico che ha rivendicato e rivendica pari diritti e dignità tra donne e uomini e che - in vari modi - si interessa alla comprensione delle dinamiche di oppressione di genere.
Movimento complesso ed eterogeneo, il femminismo si è sviluppato con caratteristiche proprie a seconda dei paesi e delle epoche. Molti fattori contribuiscono a definire e ridefinire il concetto di femminismo e le pratiche politiche ad esso connesse, come classe, etnia, orientamento sessuale, così che al suo interno coesistono posizioni e approcci teorici diversi, tanto che alcune studiose, teoriche e militanti femministe parlano di femminismi.
In particolare esistono teorie contrastanti riguardo l'origine della subordinazione maschile/femminile ed in merito al tipo di percorso che dovrebbe essere portato avanti per liberarsene: se lottare solo per le pari opportunità tra uomini e donne, se criticare radicalmente le nozioni di "identità sessuale" e "identità di genere", oppure - ancora - se eliminare alla radice i ruoli e quindi tale subordinazione.
Le origini del termine "femminismo" si possono rintracciare in due ambiti diversi:
all'interno della letteratura medica francese, in cui veniva usato per riferirsi ad un indebolimento del corpo maschile;
nel contesto delle mobilitazioni per il diritto di voto in Francia[2].
In questo secondo ambito fu introdotto nell'uso e nel senso corrente grazie a Hubertine Auclert che lo utilizzò nella sua rivista «La Citoyenne», pubblicata dal 13 febbraio 1881. Successivamente il termine apparirà prima in Gran Bretagna e poi negli Stati Uniti.
Con tale nome il movimento femminista è venuto alla ribalta internazionale negli anni sessanta del Novecento, con l'intento di modificare radicalmente la divisione sessuale dei ruoli maschili e femminili e quindi di rimettere in discussione, in tutti gli aspetti del vivere associato, una gerarchizzazione umana che riteneva gli individui di maggiore o minore valore sulla base dei rapporti di potere basati sul genere e sulle relative proiezioni sociali e politiche. Gli anni settanta hanno visto il termine contestato: alcune parti dei movimenti delle donne rifiutarono di definirsi femministe in relazione all'associazione del termine con l'emancipazionismo[2]. Recentemente molte attiviste non-occidentali preferiscono usare il termine "movimento delle donne" (haraka al-nissa'wiyya)" rifiutando il termine "movimento femminista" (al-haraka al-nassa'wiyya).[3].
Storia [modifica]
Le origini del femminismo: la «prima ondata» [modifica]
La Déclaration di Olimpe de Gouges
Un'antesignana del movimento per l'emancipazione femminile fu Olympe de Gouges (1748-1793) che, con la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina del 1791, dedicato a Maria Antonietta, pose i suoi contemporanei di fronte al ruolo negato nello spazio pubblico alle donne. La de Gouges scontò il suo moderatismo politico filo-monarchico e girondino (fu denunciata dalle donne repubblicane di Parigi) finendo sulla ghigliottina nel 1793.
In quegli stessi anni, nel 1792, l'inglese Mary Wollstonecraft (1759-1797) scriveva nella sua A Vindication of the Rights of Woman (Rivendicazione dei diritti della donna) che "è ora di effettuare una rivoluzione nei modi di vivere delle donne - è ora di restituirle la dignità perduta - e di far sì che esse, in quanto parte della specie umana, operino riformando se stesse per riformare il mondo".[4]
Nata in una famiglia povera, la Wollstonecraft aveva studiato da autodidatta e si era resa economicamente indipendente[5]. Comprese subito la grande importanza che la Rivoluzione francese poteva assumere per lo sviluppo dell'eguaglianza sociale e civile dei cittadini, difendendola nella sua A Vindication of the Rights of Men dagli attacchi del reazionario connazionale Edmund Burke e stabilendosi, alla fine del 1792, proprio in Francia. Qui convisse con lo scrittore e patriota statunitense Gilbert Imlay, dal quale ebbe una figlia, Fanny Imlay. Lasciata dal precedente compagno, ebbe una relazione con William Godwin e morì dando alla luce la futura scrittrice Mary Shelley. A causa della sua condotta di vita, per quanto possibile libera dai pregiudizi dell'epoca, lo scrittore Horace Walpole la definì «una iena in gonnella».[6]
Le rivendicazioni della Wollstonecraft potevano corrispondere ai principi della rivoluzione guidata dalla borghesia francese. Secondo la Wollstonecraft solo le donne della classe media potevano elevarsi dalla condizione di subordinazione in cui erano tenute da un'educazione improntata sui falsi valori maschili, secondo i quali la donna sarebbe stata «naturalmente» inferiore all'uomo. Un'eguale educazione impartita fin dall'infanzia, senza distinzione di sesso, avrebbe invece eliminato alla radice tale problematica.[6]
Le tematiche dell'emancipazione sorsero, quindi, proprio nell'Inghilterra della Gloriosa rivoluzione e del parlamentarismo, negli Stati Uniti che si erano emancipati dalla madre-patria e avevano formulato la prima dichiarazione dei diritti dell'uomo inserita nella stessa dichiarazione d'indipendenza, e nella Francia, che aveva ripreso quella dichiarazione nel momento di dar vita alla grande Rivoluzione contro l'Ancien Régime.
La rivoluzione industriale: la situazione femminile in Italia [modifica]
In tutto l'arco del XIX secolo si assisté ad un sempre più intenso spostamento di grandi masse di persone dalla campagna alle periferie delle città dove sorgevano nuove fabbriche. I vecchi laboratori artigianali, su cui spesso si era fondata la sussistenza di intere famiglie, vennero in parte abbandonati perché incapaci di sostenere la concorrenza della grande manifattura, dove lavoravano, accanto agli uomini, anche le donne e i bambini. Al tradizionale mercato degli oggetti si aggiunse, quindi, il così detto "mercato del lavoro", dove uomini e donne entrarono in concorrenza tra di loro, vendendo al ribasso l'unica merce che possedevano, l'energia delle loro braccia. Per molte donne il lavoro scarsamente retribuito della fabbrica si aggiunse così al consueto lavoro, non retribuito, della cura della casa e della famiglia.
Le donne delle benestanti famiglie borghesi non dovettero rapportarsi con questi nuovi panorami: spesso, difatti, non avevano necessità di impegnarsi personalmente in un'attività lavorativa poiché mantenute dai mariti, la cura della casa e spesso anche dei figli, invece, era riservata alla servitù sottoposta al loro comando: di qui l'appellativo di «regine della casa». In questo contesto l'arte del ricamo non rappresentava un'iniziativa propriamente economica, bensì una sorta di arte domestica, in cui le donne potevano mettere in mostra il proprio gusto, impreziosendo al più gli arredi casalinghi. Più o meno stesso discorso valeva per l'abilità culinaria, che gratificava il capofamiglia di ritorno dal lavoro, gravato da pensieri dai quali le consorti erano generalmente escluse. Le numerose gravidanze, spesso a rischio della vita, considerando la tecnologia medica dell'epoca, servivano a perpetuare la trasmissione del nome e dei beni di famiglia agli eredi maschi: la nascita di una femmina veniva tradizionalmente considerata una disgrazia.
Per le donne appartenenti alla classe media sarebbe stato deprecabile cercare un lavoro fuori dall'ambiente familiare, perché ciò avrebbe significato esporle al contatto di estranei, degradarle al livello delle «donne del popolo» e insinuare che il padre o il marito non erano in grado di mantenerle, gettando su di essi un disonorevole discredito. Un'attività intellettuale era resa difficile, oltre che dal generale scetticismo riguardo alle loro effettive capacità, dalla loro istruzione incompleta, perché esse non avevano diritto di accesso alle scuole superiori e perciò anche all'esercizio delle professioni liberali.[7] La loro dipendenza economica dall'uomo le escludeva per legge[7] dalla gestione del patrimonio familiare e dal diritto di paritaria eredità con gli altri beneficiari maschi. Infine, come a riassumere la loro condizione di subordinazione e di ininfluenza nella vita della nazione, erano escluse dal diritto di voto e di rappresentanza parlamentare.
Se dunque tutte le donne, indipendentemente dalla loro connotazione sociale, vivevano una condizione di discriminazione, l'appartenenza a classi sociali diverse produceva problemi ed esigenze differenti e perciò distinti programmi di rivendicazione. Le donne operaie, direttamente impegnate nel lavoro di fabbrica, fecero confluire la loro protesta all'interno delle rivendicazioni del movimento operaio, dal quale - quindi - non si distinsero; le donne della classe media, che invece non erano generalmente inserite nel mondo del lavoro ma del quale volevano far parte, produrranno un movimento d'opinione formato di sole donne. Nell'Ottocento nacquero pertanto due distinte correnti: il femminismo liberale, che ha nella conquista dei diritti civili il suo principale obbiettivo, e il femminismo socialista, che punta a rivendicazioni sindacali e vede nella rivoluzione e nella conseguente instaurazione di una società socialista la condizione necessaria per realizzare una reale, e non solo formale, liberazione delle donne.[8]
Il femminismo liberale [modifica]
Nel luglio del 1848, a Seneca Falls, presso New York, si tenne un'assemblea di circa trecento donne, nella quale Elizabeth Cady Stanton (1815-1902) formulò una dichiarazione dei diritti delle donne all'eguaglianza. Vi si affermava che uomini e donne sono eguali e «dotati dal loro Creatore di diritti inalienabili; che tra questi vi sono la vita, la libertà, il perseguimento della felicità». Il governo deve garantire al popolo tali diritti e, qualora non lo facesse, «è diritto di quelli che ne soffrono di rifiutargli obbedienza e di insistere per istituire un nuovo governo».
Se si giunge a forme di dispotismo, il governo va rovesciato: «tale è stata la tolleranza paziente delle donne sotto questo governo, e tale è ora la necessità che le costringe a richiedere la condizione di eguaglianza alla quale esse hanno diritto. La storia dell'umanità è una storia di ripetute offese e usurpazioni degli uomini nei confronti delle donne, allo scopo di istituire su di esse una tirannia assoluta».[9]
Stuart Mill e Harriet Taylor
Dalla collaborazione tra Harriet Taylor (1808-1858) e John Stuart Mill (1806-1873) derivarono due importanti saggi sulla questione femminile. Ne L'emancipazione delle donne (The Enfranchisement of Women), del 1851, la Taylor, premesso il diritto naturale di ogni essere umano che viva in società a esprimere liberamente le sue capacità, osserva che l'esercizio del potere politico conquistato dagli uomini ha provocato la condizione di sudditanza in cui le donne hanno vissuto e vivono nelle società che si sono succedute nella storia dell'umanità. L'emancipazione della donna sarà possibile quando essa potrà godere degli stessi diritti concessi all'uomo - all'istruzione, all'esercizio delle professioni, alla partecipazione amministrativa e politica - che però le sono ancora negati.
Alla diffusa obiezione che la sua natura biologica assegnerebbe in modo esclusivo alla donna la cura dei figli e della famiglia, impedendole obbiettivamente il pieno esercizio di quei diritti, la Taylor risponde che con la liberazione dagli impegni familiari - da assegnare alla cura di un apposito personale domestico femminile - la donna potrà conseguire la sua piena emancipazione. Una reale emancipazione non può allora essere ottenuta da tutte le donne, ma solo da quelle che potranno liberarsi dai più specifici obblighi familiari: le donne della classe media.
Ne L'asservimento delle donne (The Subjection of Women), pubblicato nel 1869, Stuart Mill individua la causa della mancanza di diritti civili della donne nella storica subordinazione della donna all'uomo, la quale è una forma di schiavitù espressione del più generale rapporto schiavile che è stato una delle forme di organizzazione sociale del passato. Le società antiche sono tramontate da secoli e la schiavitù è stata da poco abrogata anche in America, ma l'asservimento delle donne, oggi come ieri, persiste.
Questa forma persistente di schiavitù - afferma Stuart Mill - viene esercitata da tutti gli uomini su tutte le donne e si realizza innanzi tutto e in forma compiuta nel luogo privato della famiglia. Essa è resa possibile dalla maggior forza muscolare dell'uomo, ma si esercita anche con l'affetto: «Gli uomini non vogliono solamente l'obbedienza delle donne, vogliono anche i loro sentimenti. Tutti gli uomini, tranne i più brutali, vogliono avere nella donna che a loro è più legata non una schiava forzata, ma una schiava volontaria, non una pura e semplice schiava, ma una favorita».
L'idea che tale servitù sia necessaria e naturale è stata inculcata nelle menti delle donne fin dall'infanzia. Esse sono state educate a pensare di dover essere l'opposto dell'uomo: non devono esprimere «una libera volontà e un comportamento auto-controllato, ma una sottomissione e una subordinazione al controllo altrui. Tutte le morali dicono che è dovere delle donne, e tutti i sentimenti correnti affermano che è proprio della loro natura vivere per gli altri, compiere una totale abnegazione di sé e non avere altra vita che la vita affettiva».[10]
L'asservimento della donna all'uomo si dimostra una contraddizione pratica dell'affermazione teorica dell'eguaglianza dei diritti umani: «La subordinazione sociale delle donne si configura come un fatto unico nelle moderne istituzioni sociali; una rottura isolata di quella che è divenuta la loro legge fondamentale; l'unica reliquia di un vecchio mondo di pensiero e di pratica che è esploso in ogni altro aspetto».[11]
Il femminismo socialista [modifica]
«La Femme libre»
I temi dell'emancipazione femminile appaiono nella riflessione dei primi socialisti utopisti, come Robert Owen e Charles Fourier, il quale enunciò la tesi che il grado di emancipazione della donna misura il progresso generale della società, si manifestarono con forza in Francia con Flora Tristan e nelle donne che appoggiano la Rivoluzione del 1848: Désirée Gay, fondatrice con Marie-Reine Guindorf de «La Femme libre» (La donna libera), il primo giornale femminista della storia, Suzanne Voilquin, Pauline Roland, Jeanne Deroin. Esse uniscono le richieste di eguaglianza giuridica e di riforme civili - diritto di voto, introduzione del divorzio - alle rivendicazioni economiche e alle provvidenze sociali - aumenti salariali e diritto al lavoro. Richieste che, prima vanificate dal conservatorismo della Repubblica borghese e poi dalla reazione napoleonica, si ripresenteranno nella breve stagione della Comune di Parigi.
Anche Marx prese posizione sul problema della condizione femminile. Da Fourier riprese l'idea secondo la quale «il progresso sociale si può misurare con esattezza dalla posizione sociale del bel sesso»,[12] e vide nello sviluppo capitalistico il fattore di trasformazione degli stessi rapporti tra i sessi: «per quanto terribile e repellente appaia la dissoluzione della vecchia famiglia entro il sistema capitalistico, cionondimeno la grande industria crea il nuovo fondamento per una forma superiore della famiglia e del rapporto tra i due sessi, con la parte decisiva che essa assegna alle donne» nel processo produttivo fuori dalla sfera domestica. Marx giudicava «la composizione del personale operaio combinato con individui d'ambo i sessi e delle età più differenti», per quanto «spontanea e brutale, cioè capitalistica», fonte bensì «di corruzione e di schiavitù», ma che si sarebbe poi rovesciata «in fonte di sviluppo di qualità umane».[13]
Friedrich Engels: l'origine della famiglia [modifica]
« Il rovesciamento del matriarcato segnò la sconfitta sul piano storico universale del sesso femminile. L'uomo prese nelle mani anche le redini della casa, la donna fu avvilita, asservita, resa schiava delle sue voglie e semplice strumento per produrre figli »
(F. Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, p. 84)
Il contributo più organico fornito dal marxismo al dibattito sull'emancipazione della donna fu il libro di Friedrich Engels (1820-1895) L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, pubblicato nel 1884, che tiene conto delle ricerche di Bachofen (1815-1887) sul matriarcato e di Lewis Henry Morgan (1818-1881) sulle società antiche. Quest'ultimo aveva tracciato nella sua Ancient Society, del 1877, una sistemazione dell'evoluzione del genere umano, da lui distinto in stato selvaggio, o del periodo paleolitico, della barbarie, o del neolitico, e della civiltà, ossia le antiche società che conoscono la scrittura, sono divise in classi e sono rette da una forma statale nella quale si esercitano i poteri politici, militari, amministrativi e religiosi.
Secondo Engels, dalla generale promiscuità sessuale che caratterizza le prime aggregazioni tribali si passa all'esclusione dei rapporti sessuali tra genitori e figli e successivamente a quella tra fratelli e sorelle della medesima tribù. Nel primo paleolitico, caratterizzato da un'economia basata sulla raccolta e sulla caccia, non esiste ancora la «famiglia» modernamente intesa, né subordinazione all'uomo della donna, che viene anzi onorata quale fonte di vita e di fecondità: «l'amministrazione comunistica nella quale le donne, per la maggior parte, se non tutte, appartengono a una medesima gens, mentre gli uomini provengono da diverse gentes, è il fondamento oggettivo del predominio delle donne, generalmente diffuso all'epoca delle origini».[14]
Un passo successivo fu, secondo Bachofen ed Engels, il matrimonio di coppia, cioè «la relazione, temporanea o durevole, di una donna con un solo uomo [...] la forma di famiglia caratteristica per la barbarie, come il matrimonio di gruppo lo è per lo stato selvaggio, e la monogamia per la civiltà».[15] Quando nuove forze motrici sociali entrarono in azione, si compì il passo ulteriore verso il matrimonio monogamico.
Il progressivo passaggio dalla caccia e dalla raccolta all'allevamento del bestiame, poi alla lavorazione dei metalli, alla tessitura, all'agricoltura, alle guerre per il controllo di territori più estesi e infine al possesso dei prigionieri in qualità di schiavi produsse il mutamento delle condizioni precedenti: l'accrescersi delle ricchezze diede all'uomo, che nella divisione del lavoro all'interno della famiglia aveva il compito di procurare gli alimenti ed era perciò proprietario dei mezzi di lavoro necessari, una posizione più importante della donna nella famiglia di coppia. Secondo il diritto matriarcale, tuttavia, «il patrimonio doveva rimanere nella gens [...] ai consangunei per parte di madre. I figli dell'estinto però non appartenevano alla sua gens, ma a quella della loro madre [...] essi ereditavano dalla madre [...] ma non potevano ereditare dal padre poiché essi non appartenevano alla sua gens, e il suo patrimonio doveva rimanere in questa gens. Alla morte del possessore di armenti, i suoi armenti sarebbero quindi passati, anzitutto, ai suoi fratelli e sorelle, e ai figli delle sue sorelle [...] i figli suoi però erano diseredati».[16]
L'uomo allora abrogò il diritto matriarcale per favorire i propri figli: «bastò semplicemente decidere che nel futuro i discendenti dei membri di sesso maschile rimanessero nella gens e ne fossero però esclusi quelli dei membri di sesso femminile [...] fu introdotta la discendenza in linea maschile e il diritto ereditario patriarcale».[17] Fu una rivoluzione epocale: «il rovesciamento del matriarcato segnò la sconfitta sul piano storico universale del sesso femminile. L'uomo prese nelle mani anche le redini della casa, la donna fu avvilita, asservita, resa schiava delle sue voglie e semplice strumento per produrre figli».[18]
Rapido è il passaggio dalla famiglia di coppia alla famiglia monogamica, nella quale il vincolo non è più dissolubile ad arbitrio - l'uomo può però ripudiare la moglie se gli è infedele o incapace di generargli figli - ed è fondata sul dominio maschile che pretende figli certi perché dovranno ereditare il suo patrimonio. La forma classica di tale famiglia si presenta in Grecia, dove anche il figlio adulto può comandare la madre,[19] il marito si porta a letto le schiave che convivono con lui sotto gli occhi della moglie,[20] e i maschi generati da tali unioni hanno diritto al nome e all'eredità.[21] Naturalmente, il matrimonio è realmente monogamico soltanto per la donna. Accanto al commercio sessuale con la schiava, che è una forma di prostituzione coatta, appare nella società antica l'aperta prostituzione della donna libera: così, mentre la donna è reclusa nella casa patriarcale, la sessualità dell'uomo si esprime sia dentro la famiglia allargata alle schiave, sia fuori di essa.
La moderna famiglia è naturalmente diversa da quella antica: trasformando tutte le cose in merci, la produzione capitalistica «dissolse tutti gli antichi rapporti tradizionali e mise al posto del costume ereditario e del diritto storico la compravendita e il "libero" contratto».[22] Anche il matrimonio divenne un contratto e, pur rimanendo un matrimonio di classe, essendo il matrimonio borghese fondato sul calcolo e sulla convenienza, «all'interno della classe venne concesso agli interessati un certo grado di libertà di scelta».[23]
La grande industria ha poi aperto alla donna operaia la via della produzione sociale, ma se essa vi si inserisce, non è più in grado di assolvere i doveri familiari, e viceversa, come rilevavano anche i fautori liberali dell'emancipazione. Per Engels, «l'emancipazione della donna ha come prima condizione preliminare la reintroduzione dell'intero sesso femminile nella pubblica industria, e ciò richiede a sua volta l'eliminazione della famiglia monogamica in quanto unità economica della società».[24]
La monogamia sorse storicamente quando grandi ricchezze si concentrarono nelle stesse mani: essa scomparirà quando le ricchezze saranno socializzate: «col passaggio dei mezzi di produzione in proprietà comune, la famiglia singola cessa di essere l'unità economica della società. L'amministrazione domestica privata si trasforma in un'industria sociale. La cura e l'educazione dei fanciulli diventa un fatto di pubblico interesse».[25] Le unioni saranno fondate unicamente sull'amore sessuale individuale «quando vi sarà una generazione di uomini i quali, durante la loro vita, non si saranno mai trovati nella circostanza di comperarsi la concessione di una donna con il denaro o mediante altra forza sociale, e una generazione di donne che non si saranno mai trovate nella circostanza né di concedersi a un uomo per qualsiasi motivo che non sia vero amore, né di rifiutare di concedersi all'uomo che amano».[26]
Il femminismo anarchico [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Anarco-femminismo.
Il movimento anarchico non si differenzia sostanzialmente da quello socialista riguardo al tema dell'emancipazione femminile, sostenendo che solo un profondo rivolgimento sociale avrebbe potuto realmente liberare le donne dall'oppressione patriarcale. Per un anarchico è il principio di autorità la fonte di ogni mancanza di libertà ed è pertanto inutile ed equivoco chiedere allo Stato riconoscimenti che per sua natura non può dare.
Non già che tutti gli anarchici e i socialisti appoggiassero, in linea di principio, l'eguaglianza tra uomo e donna: Proudhon (1809-1865) sosteneva l'inferiorità naturale della donna e affermava che la donna avrebbe dovuto occuparsi unicamente della casa e della famiglia. A questo proposito ebbe una polemica con Jeanne-Marie Poinsard, alias Jenny d'Héricourt (1809-1875) comunista rivoluzionaria, che nel 1856 lo aveva attaccato nell'articolo Il signor Proudhon e la questione delle donne.
La d'Héricourt fu difesa dall'anarchico francese, emigrato negli Stati Uniti, Joseph Déjacque (1821-1864). Nel suo pamphlet De l'être humain mâle et femelle (Sull'essere umano maschio e femmina), pubblicato nel 1857 in forma di lettera indirizzata a Proudhon, lo chiamò «anarchico del giusto mezzo, liberale e non libertario, volete il libero scambio per il cotone e le candele, e preconizzate dei sistemi che proteggano l'uomo contro la donna nella circolazione delle passioni umane; gridate contro gli alti baroni del capitale e volete riedificare l'alta baronia del maschio sulla femmina vassalla».[27]
Il movimento femminile anarchico mosse i suoi primi passi con Voltairine de Cleyre (1866-1912) e si sviluppò a partire dalla fine del secolo con Emma Goldman (1869-1940) e Lucy Parsons (1853-1942), producendo durante la guerra civile spagnola l'organizzazione delle Mujeres Libres.
Anche a Emma Goldman non interessarono le iniziative delle donne borghesi a favore del diritto di voto, ma vide nello Stato il braccio armato della società patriarcale e divisa in classi.[28] Nel 1897 scriveva: «Io chiedo l'indipendenza della donna, il suo diritto di mantenere se stessa, di vivere per se stessa, di amare chi e quanti vuole. Chiedo libertà per entrambi i sessi, libertà di azione, libertà nell'amore e nella maternità».[29]
Infermiera di professione, era fautrice dell'educazione delle donne in materia di controllo delle nascite, alternativa positiva all'aborto praticato spesso e clandestinamente come tragica conseguenza di infelici condizioni sociali. Sostenne l'amore libero, criticò l'istituzione matrimoniale e il fanatismo religioso. Vide nell'uscita dal capitalismo la soluzione per l'emancipazione, non solo femminile, ma di tutta l'umanità.
Il Novecento: il movimento delle «suffragette» [modifica]
Per approfondire, vedi la voce suffragette .
La morte di Emily Davison nel derby di Epsom
In Inghilterra, nel 1897 Millicent Fawcett (1847-1929) fondò la National Union of Women's Suffrage per ottenere il diritto di voto alle donne: a questo scopo l'organizzazione svolse opera di proselitismo per convincere gli uomini, i soli che legalmente potessero concedere tale diritto. Al fallimento della National Union seguì nel 1903 la creazione della Women's Social and Political Union da parte di Emmeline Pankhurst (1858-1928) e delle figlie Christabel (1880-1958) e Sylvia (1882-1960), decise a utilizzare mezzi più energici e spettacolari.
Nel 1905, le «suffragette» Christabel e Annie Kenney (1879-1953) furono arrestate e incarcerate per aver gridato slogan in favore del diritto di voto durante una riunione del Partito liberale. Seguirono altre manifestazioni e arresti: in carcere, le manifestanti attuarono lo sciopero della fame, e il governo fu costretto a emanare nel 1913 il The Prisoners Act che prevedeva il rilascio della scioperante quando le sue condizioni di salute si fossero fatte critiche, fatta salva la sua successiva incarcerazione. Ancora nel 1913 la suffragetta Emily Davison (1872-1913) rimase uccisa nel tentativo di fermare il cavallo del re Giorgio V, durante lo svolgimento del tradizionale derby di galoppo a Epsom.[30]
Durante la Prima guerra mondiale, il movimento si divise in due: la WSPU di Emmeline e Christabel Pankhurst appoggiò la guerra, al contrario della socialista Women's Suffrage Federation di Sylvia Pankhurst. Nel 1918, il Parlamento britannico votò la Representation of the People Act che accordava il diritto di voto alle donne benestanti con più di 30 anni. Nel 1928 tutte le donne inglesi ottennero il diritto di voto. Il primo paese ad accordare alle donne il diritto di voto fu la Nuova Zelanda, nel 1893, grazie alle iniziative di Kate Sheppard (1847-1934). La Russia lo concesse nel 1918, gli Stati Uniti nel 1919, la Spagna e il Portogallo nel 1931, la Francia nel 1944, l'Italia nel 1946, la Grecia nel 1952 e la Svizzera soltanto nel 1971.
Il periodo del riflusso [modifica]
Virginia Woolf [modifica]
L'emergenza della Grande guerra frenò il movimento femminile e l'immediato dopoguerra vide il conseguimento, in pochi ma importanti paesi, degli obiettivi per i quali le due maggiori correnti si erano battute: il diritto di voto nei paesi anglosassoni e la Rivoluzione socialista in Russia, oltre al diritto all'istruzione superiore e all'esercizio delle professioni liberali in diversi paesi. Per quasi cinquant'anni l'opinione pubblica mondiale non parlerà di femminismo, ma in questo periodo di riflusso alcune scrittrici presentarono riflessioni e formularono tesi di grande importanza che saranno riprese e sviluppate quando apparirà la «seconda ondata» femminista.
Virginia Woolf (1882-1941) scrisse il saggio Three Guineas (Le tre ghinee) nel 1938, quando ormai si annunciava in Europa un nuovo e più tremendo conflitto. La scrittice immagina che un'associazione pacifista maschile le chieda un contributo per finanziare iniziative che possano scongiurare le minacce di guerra: la Woolf possiede tre ghinee, e decide di ripartirle in tre diverse opere di beneficenza, che raggiungano tuttavia il medesimo risultato di prevenire la guerra.
Una ghinea andrà a uno di quei pochi e poveri colleges femminili che stavano allora sorgendo in Inghilterra, a condizione che vi si insegnino «la medicina, la matematica, la musica, la pittura, la letteratura. È l'arte dei rapporti umani; l'arte di comprendere la vita e la mente degli altri, insieme alle arti minori che le completano: l'arte di conversare, di vestire, di cucinare».[31] Sono le arti che favoriscono la pace perché mettono insieme gli esseri umani, che s'insegnano con poca spesa e che anche i poveri possono esercitare. Nel college non dovranno essere insegnate quelle altre arti che dividono, che opprimono e che producono le guerre, «l'arte di governare, di uccidere, di accumulare terre e capitale».[32]
La seconda ghinea andrà a un'associazione che favorisce l'ingresso delle donne alle libere professioni, purché non siano professioni gestite o influenzate direttamente da uomini. Se tutte le professioni potessero essere esercitate dalle donne, esse ne sarebbero trasformate grazie al loro particolare, diverso, modo di essere, e di qui potrebbe venire un aiuto importante a scongiurare la guerra.[33]
La terza ghinea andrà senz'altro all'associazione pacifista maschile. Sarebbe però opportuno, afferma la Woolf, che esistesse anche un'associazione femminile pacifista: la si potrebbe chiamare la «Società delle Estranee». Sarà formata da «figlie di uomini colti» e dovrà essere molto diversa dalle analoghe associazioni: «non avrà alcuna sede, alcun comitato, alcuna segreteria; non convocherà riunioni, non organizzerà convegni». Non vi si terranno cerimonie e non si presteranno giuramenti, e il primo dovere delle aderenti sarà quello di non combattere mai con le armi e di rifiutarsi, in caso di guerra, di fabbricare armi e di prestarsi a fare le infermiere, come accadde nella guerra precedente.
Vi è poi un altro dovere, il più importante, difficile e in sintonia con il nome che l'associazione si è data: si tratta «non di incitare i fratelli a combattere, e neppure di cercare di dissuaderli, bensì di mantenere un atteggiamento di totale indifferenza». L'indifferenza nasce dai fatti, ed è «un fatto che la donna non è in grado di capire l'istinto che spinge il fratello a combattere, la gloria, l'interesse, la virile soddisfazione che il combattimento gli offre». L'istinto del combattimento è una caratteristica sessuale che lei non può condividere - forse è il corrispondente maschile dell'istinto materno - e che perciò non può nemmeno giudicare. Questa è la ragione dell'atteggiamento di indifferenza che occorre tenere di fronte a «un istinto completamente estraneo a lei, tanto estraneo quanto sono riusciti a renderlo secoli di tradizione e di educazione. Questa è una distinzione fondamentale e istintiva su cui può poggiare l'indifferenza».[34]
Non vi è, nella Woolf, la preoccupazione di rimarcare la necessità dell'eguaglianza tra i sessi, ma vi è la sottolineatura di una differenza che le appare positiva, perché deve comportare il rifiuto di una cultura non condivisibile, né accettabile, ma invasiva, perché è la cultura dominante: la differenza uomo-donna deve generare nella donna l'indifferenza per i valori politici e morali della cultura maschile. Un tema, questo, che sarà al centro della riflessione del femminismo di «seconda ondata».
Simone de Beauvoir [modifica]
« Donna non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l'aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell'uomo: è l'insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna »
(S. de Beauvoir, Il secondo sesso, 1984, p. 325)
Il voluminoso saggio Le deuxième sexe (Il secondo sesso) di Simone de Beauvoir (1908-1986) apparve nel 1949. La Beauvoir, legata allo scrittore e filosofo Jean-Paul Sartre (1905-1980), non era, per sua stessa dichiarazione, propriamente una femminista, anche se darà poi il suo sostegno al movimento femminile, ma era un'esistenzialista che, da questa prospettiva, indagava sulle cause della condizione di inferiorità in cui si trova la donna e sulle sue possibili vie di uscita.
Ogni essere umano compie durante la sua vita innumerevoli scelte: per esempio, sceglie questo o quel corso di studi, questo o quel lavoro, sceglie di relazionarsi con questa o quella persona, prende insomma questa o quella decisione, anche la più insignificante. Certamente esiste il condizionamento dato dell'ambiente e dalle circostanze particolari in cui si trova a vivere, ma in ultima istanza egli è sempre libero di scegliere, anzi è «costretto a scegliere» e perciò è «costretto a essere libero». In questa libertà, egli può operare due scelte fondamentali: quella di vivere nel mondo quale esso è, ed è la scelta che Sartre chiama dell'«immanenza», del vivere nell'«in sé», limitando la propria libertà con la subordinazione alle regole e ai valori del mondo, e vi è la scelta contraria del vivere nel «per sé», la scelta della «trascendenza», nella quale si realizza la propria libertà operando per trasformare il mondo nel quale si vive, avendo scelto di modificarne le dinamiche, le regole, i valori.
Partendo da questi presupposti la Beauvoir nota come «ogni soggetto si pone concretamente come trascendenza attraverso una serie di finalità; esso non attua la propria libertà che in un perpetuo passaggio ad altre libertà; la sola giustificazione dell'esistenza presente è la sua espansione verso un avvenire indefinitamente aperto. Ogni volta che la trascendenza ripiomba nell'immanenza v'è uno scadere dell'esistenza nell'in sé, della libertà nella contingenza; tale caduta è una colpa morale se è accompagnata dal consenso del soggetto, ma se gli è imposta, prende l'aspetto di una privazione e di un'oppressione; in ambedue i casi è un male assoluto».
È proprio questa la posizione che la donna assume nel mondo: «Ogni individuo che vuol dare un significato alla propria esistenza, la sente come un bisogno infinito di trascendersi. Ora, la situazione della donna si presenta in questa singolarissima prospettiva: pur essendo, come ogni individuo umano, una libertà autonoma, ella si scopre e si sceglie in un mondo in cui gli uomini le impongono di assumere la parte dell'Altro [...] pretendono di irrigidirla in una funzione di oggetto e di votarla all'immanenza, perché la sua trascendenza deve essere perpetuamente trascesa da un'altra coscienza essenziale e sovrana».[35]
Ciascun essere umano, nella sua propria individualità, è necessariamente «altro» (minuscolo) rispetto a ogni (altro) individuo, ma in questa ovvia considerazione di alterità non vi è alcuna connotazione di valore, né indicazione di una condizione di subordinazione: l'«Altro» (maiuscolo), per la Beauvoir è invece l'essere connotato come irriducibilmente inferiore che, in quanto tale, va tenuto distinto e individuato con chiarezza in modo da essere collocato in un piano inferiore e separato. In questo contesto l'«Altro» è la donna, è l'appartenente a un sesso diverso da quello che ha connotato e connota di sé il mondo, è perciò «il secondo sesso», essendo naturalmente quello maschile il primo.
È difficile comprendere come e quando sia nata questa sudditanza, che non può in nessun modo essere paragonata alle oppressioni sociali, o razziali o religiose che nella storia hanno generato e generano conflitti aperti e sanguinosi. L'opposizione dei sessi, secondo la Beauvoir, deve essersi originata da una scelta esistenziale in un contesto storico determinato, a partire da un'unione originale: «la coppia è un'unità fondamentale le cui metà sono connesse indissolubilmente l'una all'altra. Nessuna frattura della società in sessi è possibile. Ecco ciò che essenzialmente definisce la donna: essa è l'Altro nel seno di una totalità, i cui due termini sono indispensabili l'uno all'altro».[36]
Ciò spiega perché «quando l'uomo considera la donna come l'Altro, trova in lei una complicità profonda. Così la donna non rivendica se stessa in quanto soggetto perché non ne ha i mezzi concreti, perché esperimenta il necessario legame con l'uomo senza porne la reciprocità, e perché spesso si compiace nella parte dell'Altro».[37] Questa sorta di consenso della donna a essere Altro è stato espresso dalla Beauvoir nella celebre definizione «Donna non si nasce, lo si diventa», ma la donna potrà liberarsi dalla sua dipendenza in una società dove sia bandito ogni tipo di sfruttamento. Allora avverrà la sua trasformazione da Altro in altro per l'uomo; riconoscendosi reciprocamente soggetti liberi e uguali, uomo e donna manterranno «i miracoli che genera la divisione degli esseri umani in due categorie distinte: il desiderio, il possesso, l'amore, il sogno, l'avventura; e le parole che ci commuovono - dare, conquistarsi, unirsi - conserveranno il loro senso [...] e la coppia umana troverà la sua vera forma».[38]
Betty Friedan [modifica]
Il dopoguerra vide molte donne, che nei paesi belligeranti erano state impiegate al posto degli uomini inviati al fronte, ritornare alle loro consuete mansioni casalinghe. Negli Stati Uniti, in particolare, l'accelerazione al progresso tecnico impressa dalla stessa guerra permise alle imprese già impegnate nello sforzo bellico di riconvertire la produzione in beni di consumo ad alto contenuto tecnologico, resi accessibili a un largo pubblico grazie alle agevolazioni creditizie.
Nasceva la cosiddetta società dei consumi, che presto si sarebbe espansa all'Europa: le case degli americani si riempirono di elettrodomestici – televisioni, forni elettrici, frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie, aspirapolvere, lucidatrici – che, insieme con l'uso dell'automobile che permetteva di sbrigare più velocemente le commissioni e con i grandi supermercati dove si poteva trovare qualunque cosa rendendo più semplice e rapida la spesa, sembravano rendere lievi e perfino divertenti i già faticosi e noiosi lavori domestici. Il sogno della famiglia della middle class divenne la casa unifamiliare con annesso giardino a prato, che si affaccia nel viale silenzioso di un quartiere residenziale, lontano dalle pericolose periferie dei centri urbani. Contemporaneamente, la pubblica opinione vantava alle ragazze le soddisfazioni del matrimonio e della vita familiare, e la convenienza di rinunciare agli studi e al lavoro: solo allevare figli e prendersi cura del marito avrebbe realizzato le autentiche aspirazioni di una donna.
Nel 1957 Betty Friedan (1921-2006) organizzò dei sondaggi presso molte donne di mezza età, laureate o d'istruzione superiore, che si erano dedicate esclusivamente a una vita di casalinghe, intervistandole circa la loro istruzione, le loro esperienze e le eventuali soddisfazioni ricavate dalla loro vita attuale. Scrisse articoli su quello che chiamò "il problema senza nome", che poi raccolse e rielaborò nel libro The Feminine Mystique (La mistica della femminilità),[39] pubblicato nel 1963.
Il suo libro-inchiesta ebbe grande successo e smentì l'immagine stereotipata fornita dagli «esperti» di pubblicità, di sociologia e di psicologia nelle riviste specializzate: esisteva in realtà un «problema senza nome condiviso da innumerevoli donne americane», del quale i creatori della «mistica della femminilità» - la donna tutta casa, figli e marito - non avevano mai parlato. Il problema consisteva nel disagio della loro condizione, del quale non riuscivano a trovare una causa, ma ne esprimevano i sintomi: «Talvolta c'era chi diceva: "Ogni tanto mi sento vuota ... incompleta". Oppure: "Mi pare di non esistere". Talvolta questa sensazione veniva annullata con un tranquillante. Talvolta la donna pensava che tutto dipendeva dal marito o dai figli, o che quel che le occorreva era un nuovo arredamento, o un alloggio migliore o un amante o un altro bambino. A volte andava dal medico accusando sintomi che a malapena riusciva a descrivere: "Un senso di stanchezza ... mi arrabbio tanto con i bambini da spaventarmi ... mi vien da piangere senza motivo"».[40]
Denunciato il ruolo coatto di sposa e di madre della donna americana, la Friedan ritiene che essa debba procurarsi un lavoro e cercare di coniugare gli impegni professionali con quelli domestici. È la soluzione tradizionale già suggerita dal femminismo liberale del secolo precedente. Nel 1966 la stessa Friedan, insieme ad Aileen Hernandez e a Pauli Murray, fondò la NOW, National Organization for Women,[41] un'organizzazione che presentò proposte legislative allo scopo di ottenere l'effettiva eguaglianza tra i due sessi.
La «seconda ondata»: il femminismo radicale [modifica]
Intanto negli Stati Uniti si diffondeva la protesta contro la discriminazione razziale, contro la politica neo-colonialista nei confronti dei paesi del Terzo mondo e contro la partecipazione alla guerra vietnamita: cresceva il numero dei renitenti alla leva in un Paese ove esisteva ancora la coscrizione obbligatoria. In prima fila si ponevano intellettuali e studenti della New Left: tra di loro, gruppi di giovani donne cominciarono a pensare in modo nuovo il problema del ruolo delle donne in una società che formalmente riconosceva l'eguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, ma di fatto sembrava essere ancora dominata dagli uomini.
Si tratta di femministe provenienti dalle file della classe media, alle quali le analisi della tradizione liberale e socialista non sembrano più sufficienti: se nelle democrazie occidentali le donne hanno ormai ottenuto parità giuridica ed eguali retribuzioni nell'ambiente di lavoro, ma se nella società e nella famiglia comandano ancora gli uomini, vuol dire che i motivi del dominio maschile vanno individuati alla radice, e cioè nella differenza sessuale.
Le Redstockings [modifica]
Il nuovo femminismo radicale, rappresentato ai suoi esordi dal gruppo delle Redstockings,[42] il 7 luglio 1969 lanciò il suo manifesto a New York: «Le donne sono una classe oppressa. La nostra oppressione è totale e riguarda ogni aspetto della nostra vita. Siamo sfruttate come oggetti sessuali e di riproduzione, come personale domestico e come manodopera a basso costo. Siamo considerate esseri inferiori, il cui unico scopo è quello di migliorare la vita degli uomini. La nostra umanità è negata. Il nostro comportamento ci viene prescritto e imposto con la minaccia della violenza fisica [...] Noi identifichiamo gli agenti della nostra oppressione negli uomini. La supremazia maschile è la più antica, la più basilare forma di dominio. Tutte le altre forme di sfruttamento e di oppressione (razzismo, capitalismo, imperialismo ecc.) sono estensioni della supremazia maschile: gli uomini dominano le donne, pochi uomini dominano il resto. Tutte le strutture di potere nel corso della storia sono stati a prevalenza maschile e maschilista. Gli uomini hanno controllato tutte le istituzioni politiche, economiche e culturali e hanno sostenuto questo controllo con la forza fisica. Hanno usato il loro potere per mantenere le donne in una posizione di inferiorità. Tutti gli uomini ricevono benefici economici, sessuali e psicologici dalla supremazia maschile. Tutti gli uomini hanno oppresso le donne».[43]
Kate Millett [modifica]
L'anno successivo uscì il libro Sexual politics (La politica del sesso),[44] di Kate Millett (n. 1934), una delle fondatrici del gruppo delle Redstockings, la quale elabora il tema secondo il quale il sessismo - la politica basata sul dominio del sesso maschile su quello femminile - è alla base del vigente sistema patriarcale.
Analizzando anche testi degli scrittori contemporanei David Lawrence, Norman Mailer, Henry Miller e Jean Genet, la Millett rileva come i primi tre vedano nella donna «una fastidiosa forza minoritaria da conculcare e mirano a un ordinamento sociale nel quale la femmina sarebbe perfettamente dominata», mentre l'omosessuale Genet «ha invece integrato la donna in una visione di drastica sollevazione sociale, dove la sua antica subordinazione può dar luogo a una forza esplosiva. E, effettivamente, in Les paravents, sono le donne a rappresentare la rivoluzione».[45]
Per la Millett, che ha un'estrazione marxista, precedente al dominio di classe è il dominio dell'uomo sulla donna che si esprime nella politica sessista delle società patriarcali. La donna è considerata un oggetto sessuale da usare per il proprio piacere, ma lo stesso atto sessuale, prima ancora di essere un atto di piacere e di procreazione, è un atto politico con il quale si manifesta e si riafferma la supremazia del maschio «in tutti i momenti della storia e in tutte le forme istituzionali [...] e con tutti i mezzi (dalle "lusinghe" del "mito" della donna alle "minacce" di violenza sessuale)».[46]
Shulamith Firestone [modifica]
Anche The Dialectic of Sex (La dialettica dei sessi) di Shulamith Firestone (n. 1945), pubblicato nel 1970, cerca le cause del predominio maschile sulle donne e le trova nella condizione che la natura ha assegnato alla donna di trovarsi per mesi in gravidanza, a dover partorire e allevare per anni i propri figli. In molti anni della sua vita la donna si trova pertanto, all'interno della famiglia, in una condizione di obbiettiva debolezza e bisognosa dell'aiuto dell'uomo, che da questa situazione ha tratto i motivi per imporre il suo dominio.
Come è necessaria una rivoluzione socialista per eliminare le distinzioni di classe, così è necessaria una rivoluzione femminista perché le donne si riapproprino del controllo del loro corpo e della fertilità: «l'obiettivo finale della rivoluzione femminista deve essere, a differenza di quella del primo movimento femminista, non solo l'eliminazione del privilegio maschile, ma della stessa distinzione dei sessi: le differenze genitali tra gli esseri umani non avranno più alcuna importanza culturale».
Si potrebbe così tornare alla libera espressione di una pansessualità - quella che Freud chiamava perversa polimorfa - che sostituisca l'attuale unico binomio etero-omosessuale e «la riproduzione della specie da parte di un sesso a beneficio di entrambi sarebbe sostituita dalla riproduzione artificiale». Grazie alla socializzazione dell'allevamento dei figli cesserebbe la dipendenza del bambino dalla madre e dalla madre dal bambino, e si spezzerebbe la tirannia della famiglia biologica, così come la cibernetica libererà uomini e donne dalle fatiche del lavoro.[47]
Anne Koedt [modifica]
Anne Koedt (n. 1941), altra militante delle Redstockings come la Millett e la Firestone, aveva già scritto nel 1968 per le Notes from the First Year di quest'ultima un articolo che ripubblicò rielaborato nel 1970, The Myth of the Vaginal Orgasm (Il mito dell'orgasmo vaginale),[48] un testo molto «scandaloso» all'epoca, nel quale attaccò il fondamento della teoria freudiana sulla sessualità femminile, ossia l'idea che una giovane divenga realmente donna sessualmente adulta quando abbandoni l'orgasmo clitorideo, ottenuto con la pratica della masturbazione, in favore dell'orgasmo vaginale, che sarebbe provocato dalla penetrazione maschile. Freud sosteneva che la frigidità femminile - l'incapacità di raggiungere l'orgasmo vaginale - era una forma di nevrosi, riconducibile a una fissazione alla fase puberale.
In realtà «la vagina non è un'area altamente sensibile e non è congegnata per raggiungere l'orgasmo. È la clitoride il centro della sensibilità sessuale e l'equivalente femminile del pene». E come il pene è l'unica area sessualmente sensibile dell'uomo, nella donna «c'è una sola area di acme sessuale, anche se ci sono molte aree di sollecitazione sessuale: quell'area è la clitoride» che nel rapporto sessuale convenzionale non viene sufficientemente stimolata e la donna sembra «frigida». Che le cose stiano effettivamente in questo modo era del resto già stato dimostrato da decenni da studi d'istologia e di sessuologia, passati inosservati, per la loro stessa natura, all'opinione pubblica.[49]
Della cosiddetta frigidità femminile è in realtà responsabile l'uomo, che ha l'errata idea che la penetrazione vaginale - niente altro che una masturbazione maschile ottenuta con lo sfregamento del pene nelle pareti vaginali - sia il canonico e corretto rapporto sessuale in grado di appagare entrambi i partners. Ne deriva altresì che attraverso il mito freudiano «le donne sono state definite sessualmente nei termini che piacciono agli uomini [...] siamo state nutrite col mito della donna liberata e del suo orgasmo vaginale - un orgasmo che di fatto non esiste».[50]
Il mito freudiano è del resto funzionale a una società organizzata in vista dello sfruttamento degli interessi maschili e gli uomini «temono di diventare sessualmente superflui se la clitoride fosse sostituita alla vagina come centro del piacere femminile». A loro volta le donne potrebbero liberare la loro sessualità: «lo stabilimento dell'orgasmo clitorideo come fatto minaccerebbe l'istituzione eterosessuale. Esso indicherebbe infatti che il piacere sessuale si può ottenere sia da un uomo che da un'altra donna, facendo così dell'eterosessualità non un assoluto ma un'opzione».[51]
Il femminismo lesbico [modifica]
Per approfondire, vedi le voci Movimento lesbico e Separatismo femminista.
Le Radicalesbians [modifica]
Simbolo del lesbismo
« Il femminismo è la teoria, il lesbismo la pratica »
(Attribuito a Ti-Grace Atkinson, in A. Koedt, Lesbianism and Feminism)
Le conclusioni del saggio della Koedt diedero una forte spinta all'organizzazione di un movimento lesbico, dal momento che inizialmente le lesbiche si erano sentite discriminate dal movimento femminista. Nel 1970 il gruppo delle Radicalesbians poté pubblicare sulle Notes from the Third Year il suo manifesto, The Woman Identified Woman.
«Che cosa è una lesbica? Una lesbica è la rabbia di tutte le donne condensata al punto di esplosione» - è l'esordio del manifesto. Innanzi tutto «il lesbismo, come l'omosessualità maschile, è una categoria di comportamento possibile solo in una società sessista caratterizzata da rigidi ruoli sessuali e dominata dalla supremazia maschile. Tali ruoli sessuali disumanizzano le donne definendoci una sottocategoria rispetto alla dominante casta degli uomini». Le lesbiche sono considerate una sorta di uomini mancati, alienati dal proprio corpo e dalle proprie emozioni e «l'omosessualità è il risultato di un particolare modo di creare ruoli o modelli di comportamento sulla base del sesso, e in quanto tale è una categoria inautentica, non in consonanza con la "realtà". In una società in cui gli uomini non opprimessero le donne, e l'espressione sessuale potesse seguire i sentimenti, le categorie di omosessualità ed eterosessualità scomparirebbero».[52]
«Lesbica» è anche un'etichetta che «l'uomo getta contro qualsiasi donna che osi essere suo pari sfidando le sue prerogative, tra le quali è compresa quella di considerare le donne un mezzo di scambio tra gli uomini». Ecco perché questa etichetta è oggi affibbiata alle femministe come ieri era assegnata a quelle donne che seppero costruirsi una vita indipendente dalla tutela dell'uomo.
«Lesbica» è una delle categorie sessuali con le quali gli uomini hanno diviso l'umanità: «mentre tutte le donne sono disumanizzate come oggetti sessuali, quando accettano di essere oggetti degli uomini esse ottengono la compensazione di essere identificate con la forza, l'ego e lo status dell'uomo. La disumanizzazione si rivela dal fatto che quando una donna eterosessuale conosce una lesbica, subito comincia a riguardarla come un suo potenziale oggetto sessuale, attribuendo alla lesbica un ruolo maschile surrogato: questo comportamento rivela il suo condizionamento eterosessuale a fare di sé stessa un oggetto quando il sesso è potenzialmente coinvolto in una relazione». Si nega così alla lesbica la sua piena umanità e si dimostra quanto forte sia il condizionamento culturale maschile in seno alle stesse donne.[53]
Aver interiorizzato le definizioni che la cultura maschile dà delle donne, le esclude dalla possibilità di elaborare i termini della loro vita: «l'uomo ci attribuisce una sola cosa: lo status che ci rende schiave legittimandoci agli occhi della società in cui viviamo. Questo, nell'attuale gergo culturale, si chiama "femminilità" o "essere una vera donna". Noi siamo autentiche, legittimate, reali nella misura in cui siamo proprietà di un uomo del quale portiamo il nome. Essere una donna che non appartiene a nessun uomo significa essere invisibile, patetica, inautentica, irreale. L'uomo conferma la sua immagine di noi - ciò che dobbiamo essere per essere accettate da lui - ma non il nostro vero io; lui conferma la nostra femminilità, come la chiama, in relazione a lui, ma noi non possiamo affermare la nostra personalità, il nostro autentico noi stesse. Finché saremo subordinate alla cultura maschile per questa definizione, per questa approvazione, noi non potremo essere libere».[54]
Adrienne Rich [modifica]
La scrittrice Adrienne Rich (n. 1929) nel 1976 aveva già dato un contributo alle discussioni del movimento femminista con Of Woman born (Nato di donna), in cui aveva difeso la funzione della maternità, considerandola una risorsa e una ricchezza della donna, purché sottratta alla logica patriarcale. Con Compulsory Heterosexuality and Lesbian Existence (Eterosessualità obbligata ed esistenza lesbica), del 1980, la Rich interviene per rivendicare la piena legittimità del femminismo lesbico all'interno del movimento femminista, orientato in senso eterosessuale pur se violentemente polemico verso la cultura patriarcale: «La ricerca teorica femminista non può più limitarsi ad esprimere tolleranza per il "lesbismo" in quanto "stile di vita alternativo" o fare riferimenti meramente rituali alle lesbiche. È ormai tempo di elaborare una critica femminista dell'orientamento eterosessuale imposto alle donne».[55]
La Rich contesta che la sessualità femminile sia eterosessuale per una sorta di inclinazione di natura «mistico-biologica» - la necessità della riproduzione della specie - una preferenza o una scelta che spinge le donne verso gli uomini «nonostante i potenti impulsi e le complementarità emotive che spingono le donne verso le donne». Per la Rich «l'eterosessualità, come la maternità, deve essere considerata ed analizzata in quanto istituzione politica».[56]
L'eterosessualità è stata e viene imposta alle donne con i più diversi mezzi: lo stupro, le percosse, l'incesto, l'educazione - la spinta sessuale maschile equivarrebbe a un diritto - l'idealizzazione dell'amore eterosessuale nell'arte, nella letteratura, nei media, nella pubblicità - l'ideologia dell'amore eterosessuale inculcata alla donna fin da piccola attraverso le fiabe, la televisione, il cinema, la pubblicità, le canzonette e la coreografia dei riti nuziali è un mezzo potente di educazione all'eterosessualità - i matrimoni con spose bambine e quelli obbligati, la prostituzione, gli harem, le teorie psicoanalitiche sulla frigidità e l'orgasmo vaginale, le immagini pornografiche di donne che provano piacere dalla violenza sessuale e dall'umiliazione.[57]
Ma fra i tanti sistemi di imposizione vi è naturalmente anche «l'occultamento della possibilità di una scelta lesbica, un continente sommerso che affiora di tanto in tanto per essere poi subito risommerso. Qualsiasi studio o elaborazione teorica femminista che contribuisca a mantenere l'occultamento e la marginalità lesbica opera contro la liberazione e il rafforzamento delle donne come gruppo».[58]
La scrittrice introduce i concetti di esistenza lesbica e di continuum lesbico: «esistenza lesbica sta ad indicare sia il riconoscimento della presenza storica delle lesbiche che la nostra costante elaborazione del significato di tale esistenza. Per continuum lesbico intendo una serie di esperienze - sia nell'ambito della vita di ogni singola donna che attraverso la storia - in cui si manifesta l'interiorizzazione di una soggettività femminile e non solo il fatto che una donna abbia avuto o consciamente desiderato rapporti sessuali con un'altra donna. Se allarghiamo il concetto fino a includervi molte altre espressioni di intensità affettiva primaria fra donne, quali il condividere una ricca vita interiore, l'alleanza contro la tirannia maschile, lo scambio reciproco di appoggio pratico e politico [...] allora cominceremo a recuperare brandelli di storia e di psicologia delle donne che ci erano finora esclusi come conseguenza delle definizioni limitative e in gran parte cliniche di "lesbismo"».[59]
La Rich si rifiuta di assimilare all'omosessualità maschile l'esperienza lesbica, che è, come la maternità, un'esperienza profondamente femminile con uno specifico erotismo, che non può essere ristretto a nessuna singola parte del corpo, o al solo corpo, come un'energia non solo diffusa, ma onnipresente come scrive Audre Lorde,[60] «quando si condivide la gioia, sia fisica che emotiva o psichica» e quando le donne condividono insieme il loro lavoro.[61]
Monique Wittig [modifica]
La femminista lesbica francese Monique Wittig (1935-2003) denuncia in The straight mind, del 1980, l'uso del linguaggio come arma politica, per dare una «lettura scientifica della realtà sociale nella quale gli esseri umani sono dati come invarianti, intoccati dalla storia e immuni dai conflitti di classe, con una psiche identica per ciascuno di essi perché geneticamente programmata». Un esempio è fornito dalla psicanalisi, che pretende di interpretare il linguaggio simbolico dell'inconscio secondo modelli che in realtà essa stessa ha precostituito manipolando i discorsi dei malati. Nella psicanalisi di Jacques Lacan, così come nello strutturalismo antropologico di Lévi-Strauss, l'inconscio e il pensiero primitivo appaiono invariabilmente eterosessuali, ma si tratta di «un'operazione che è stata loro necessaria per eterosessualizzare sistematicamente quella dimensione personale che è emersa tra gli individui dominati nel campo storico, soprattutto tra le donne».
Le cosiddette scienze che presuppongono l'eterosessualità come fondamento di ogni società pretendono di presentare i loro concetti in modo neutro e apolitico, ma sono funzionali al mantenimento dell'oppressione, sono l'ideologia del gruppo dominante. La caratteristica di questa ideologia è di universalizzare tutti i concetti - come quelli di "donna", di "uomo", di "sesso", di "differenza" - come se fossero leggi generali vere per tutte le società, per tutte le epoche e per tutti gli individui, perché fondate sulla "natura", e perciò invarianti, quando in realtà sono solo espressioni di una cultura particolare sviluppatasi storicamente.[62]
In One is not Born a Woman (Donna non si nasce) del 1981 - titolo che fa riferimento alla nota frase di Simone de Beauvoir - Monique Wittig sostiene che gli uomini e le donne costituiscono due classi separate, una divisione che ha unicamente origine politica: «non solo non esiste nessun gruppo naturale "donne" (noi lesbiche ne siamo una prova vivente, fisica), ma come individui noi rimettiamo in questione la "donna", che per noi non è che un mito», un mito costruito sul principio dell'eterosessualità e sulla riproduzione. Ammettere l'esistenza di una divisione "naturale" tra donne e uomini significa naturalizzare la storia e i fenomeni sociali, giustificando così l'oppressione come fatto necessario, e rendendo impossibile ogni cambiamento.
Essendo "donna" e "uomo" due categorie politiche, non sono di conseguenza eterne. Occorre perciò sopprimere gli uomini in quanto classe attraverso una lotta di classe politica: «quando la classe degli uomini sarà scomparsa, anche le donne in quanto classe scompariranno a loro volta, perché non ci sono schiavi senza padroni». Una nuova definizione della persona e del soggetto per tutta l'umanità può essere trovata solo al di fuori delle categorie di sesso, nel rifiuto delle scienze che le utilizzano come loro fondamenti.
Il lesbismo è per la Wittig «la sola forma sociale nella quale possiamo vivere libere» come "lesbica" è il solo concetto al di là delle categorie di sesso, perché il soggetto designato non è una donna, né economicamente, né politicamente, né ideologicamente, perché «ciò che costituisce una donna è la relazione sociale specifica con un uomo», una relazione di servitù dalla quale le lesbiche si sono emancipate. La distruzione della classe delle donne passa attraverso «la distruzione dell'eterosessualità come sistema sociale basato sull'oppressione e l'appropriazione delle donne da parte degli uomini, che produce il corpo delle dottrine della differenza tra i sessi per giustificare questa oppressione».[63]
Sviluppi del femminismo statunitense [modifica]
Gayle Rubin: il sistema sesso/genere [modifica]
Nel 1974 fu pubblicato il saggio di Gayle Rubin (n. 1949) The Traffic in Women. Notes on the "Political Economy" of Sex (Lo scambio delle donne. Note sulla "economia politica" del sesso). La Rubin parte dalla classica analisi di Engels, che ritiene però di dover integrare con le ricerche freudiane in psicanalisi e quelle antropologiche di Lévi-Strauss. Per quanto le conclusioni di questi ultimi siano contestabili, il materiale da loro fornito è un utile strumento di comprensione della realtà sociale, con i suoi meccanismi di oppressione delle donne e dell'omosessualità.
Freud e Lévi-Strauss, infatti, «forniscono gli strumenti concettuali per individuare quella parte della vita sociale che è il locus dell'oppressione della donna, delle minoranze sessuali e di certi aspetti della personalità dell'individuo. Io chiamo questa parte della vita sociale "sex/gender system" [...] Un "sex/gender system" è, a una prima definizione, la tendenza dei dispositivi tramite i quali una società trasforma l'istinto sessuale biologico in prodotto dell'attività umana e attraverso cui i bisogni sessuali, così trasformati, sono soddisfatti».
Mentre gli individui si distinguono biologicamente secondo il sesso, ossia secondo le due categorie di maschi e femmine, il genere è «l'insieme dei processi di adattamento, modalità di comportamento e di rapporti, con i quali ogni società trasforma la differenza sessuale biologica in prodotti dell'attività umana». Si tratta del risultato di un processo storico che ha per conseguenza l'attribuzione, all'interno della società, di determinati ruoli in base al sesso di appartenenza. Attraverso l'educazione impartita fin dall'infanzia ci si aspetta che ogni individuo si identifichi con il ruolo assegnatogli – riconosca cioè la sua identità sessuata nel ruolo – e onori le aspettative relative assumendo i comportamenti corrispondenti.
Ne Les structures élémentaires de la parenté (Le strutture elementari della parentela) Lévi-Strauss aveva analizzato il matrimonio nelle società primitive. Egli ritiene che «l'essenza dei sistemi di parentela consista nello scambio delle donne tra uomini», costruendo così implicitamente una teoria dell'oppressione sessuale: «Scambio delle donne è una formula rapida per esprimere che i rapporti sociali di un sistema di parentela specificano che gli uomini hanno certi diritti sulle loro parenti donne, e che le donne non hanno gli stessi diritti, né su se stesse né sui loro parenti uomini. In questo senso, il concetto di scambio delle donne rappresenta una percezione profonda di un sistema nel quale le donne non hanno pieni diritti su se stesse».
La Rubin va oltre le analisi di Lévi-Strauss, spiegando il senso dei sistemi di parentela. Questi si basano sul matrimonio e trasformano i maschi in uomini e le femmine in donne, cioè in un genere. Inoltre, «il tabù dell'incesto presuppone l'esistenza di un tabù, precedente e meno esplicito, sull'omosessualità. Una proibizione gravante su certe unioni eterosessuali suppone un tabù sulle unioni non eterosessuali. Il genere non è solo l'identificazione con un sesso, è anche l'obbligo di indirizzare il desiderio sessuale verso il sesso opposto. La divisione sessuale del lavoro è compresa in entrambi gli aspetti del genere: essa li crea uomo e donna e li crea eterosessuali. Il rifiuto della componente omosessuale della sessualità umana e, come suo corollario, l'oppressione degli omosessuali, è quindi un prodotto dello stesso sistema che, con le sue regole e i suoi rapporti, opprimono le donne».
Dalla psicanalisi la Rubin accetta il concetto di complesso di Edipo: la sua esistenza e i suoi effetti negativi sono dovuti proprio al sistema sex/gender, in quanto i bambini si trovano, crescendo e venendo investiti del ruolo, a dover negare l'amore per la madre, la figura primaria della loro infanzia. Se invece sia l'uomo che la donna si prendessero cura paritariamente dei loro figli, «il primo oggetto d'amore potrebbe essere bisessuale. Se l'eterosessualità non fosse obbligatoria, questo primo amore non dovrebbe essere represso [...] e l'intero dramma edipico si potrebbe ridurre a una reliquia».
Il movimento femminista, che si pone il problema del superamento delle contraddizioni di un sistema sociale che produce l'oppressione sessista, deve pertanto mirare all'eliminazione del ruoli sessuali imposti. Il sogno della Rubin è quello di «una società androgina senza genere [...] nella quale l'anatomia di una persona sia irrilevante per stabilire cosa si deve fare e con chi si deve fare l'amore».[64]
Susan Brownmiller [modifica]
La ricerca delle origini dell'oppressione femminile nella storia umana portò Susan Brownmiller (n. 1935) a teorizzare nel suo Against Our Will. Men, Women and Rape (Contro la nostra volontà. Uomini, donne e violenza sessuale) del 1975, che sia stato lo stupro o anche soltanto la minaccia della violenza sessuale il mezzo con il quale gli uomini primitivi ottennero quella subordinazione delle donne che, pur in forma mutate, si è perpetuata nelle società moderne.
Già il socialdemocratico tedesco August Bebel (1840-1913), ne La donna e il socialismo (1879), prima ancora di Engels rintracciò nella necessità di avere maggiore quantità di forza-lavoro l'origine del ratto delle donne e della schiavitù dei nemici fatti prigionieri: «Le donne diventarono lavoratrici e oggetti di piacere per i conquistatori, i loro uomini diventarono schiavi». Ma, anche se questa analisi è probabilmente vera in sé, secondo la Brownmiller lo stupro, quale mezzo di intimidazione e di asservimento, ha cronologicamente preceduto il ratto e la schiavitù: «in termini di anatomia umana, la possibilità di un coito forzato incontrovertibilmente esiste. Questo solo fattore può essere bastato per determinare un'ideologia maschile dello stupro. Quando gli uomini scoprirono che potevano violentare, si misero a farlo».
Se le prime violenze sessuali poterono essere episodiche, presto l'uomo comprese che esse potevano rappresentare «la fondamentale arma offensiva dell'uomo contro la donna, il principale agente del volere di lui e della paura di lei [...] il definitivo banco di prova della sua forza superiore [...] Si tratta, né più né meno, che di un consapevole processo d'intimidazione mediante il quale tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura».[65]
Dorothy Dinnerstein [modifica]
The Mermaid and the Minotaur. Sexual Arrangements and Human Malaise (La sirenetta e il minotauro. Modalità sessuale e malessere umano) pubblicato nel 1976 dalla psicanalista Dorothy Dinnerstein (1923-1992) rappresenta nelle due figure mitologiche della sirenetta e del minotauro i caratteri rispettivamente femminili e maschili generati dall'allevamento dei figli nelle famiglie delle moderne società occidentali.
Nel rapporto, prevalente se non unico, che i bambini stabiliscono con la propria madre a motivo dell'assenza o dell'insufficiente presenza del padre, si stabiliscono due distinte relazioni di genere: il bambino finirà per sottrarsi alla tutela opprimente della madre assumendo da adulto la figura del minotauro, l'essere che domina e possiede le donne, in modo da ribaltare il suo ruolo infantile di essere dominato da una donna. La bambina, per sottrarsi all'analoga tutela materna, assumerà invece la figura della sirenetta, che seduce l'uomo in modo essere dominata da questi, che si sostituisce così alla madre nel ruolo di dominante.
Come la Rubin, anche la Dinnerstein ritiene che la presenza a pari titolo del padre a fianco della madre - quello che ella chiama dual parenting - possa condurre a una trasformazione dei ruoli di genere che si stabiliscono all'interno della famiglia.
Nancy Chodorow [modifica]
La psicanalista Nancy Chodorow (n. 1944), autrice nel 1978 de The Reproduction of Mothering. Psychoanalysis and the Sociology of Gender (La riproduzione della funzione materna. Psicanalisi e sociologia di genere) considera le differenze di genere formazioni di compromesso del complesso edipico. Tutti i bambini, per i quali la madre rappresenta il primo oggetto sessuale, formano il loro Io in reazione alla figura dominante della madre. Il maschio forma il suo senso di indipendenza in modo più immediato emulando il padre nel suo interesse possessivo verso la madre/moglie.
Per la bambina le cose vanno diversamente, poiché nella successiva fase edipica tenta di fare del padre l'oggetto del suo amore, ma viene ostacolata dal legame intenso con la madre. Tuttavia, da questo legame primario nasce e si mantiene la vocazione della bambina alla maternità, così che la riproduzione della funzione materna della donna costituisce la base per il perpetuarsi della sua collocazione nella sfera domestica: «che le donne facciano le madri è un aspetto fondamentale dell'organizzazione del sistema sesso/genere: sta alla base della divisione del lavoro e accanto all'ideologia circa le capacità e la natura della donna, genera anche una psicologia e un'ideologia della dominanza maschile». Nella divisione del lavoro l'agire dell'uomo si colloca infatti nel luogo allargato della società, mentre l'agire della donna si restringe nell'ambito della famiglia, e i loro distinti ruoli si riproducono nel succedersi delle generazioni.
Per superare un'organizzazione sociale che produce funzioni di generi discriminatorie, è allora necessario cominciare a «riorganizzare la cura della prole, dove l'accudimento primario sia condiviso alla pari dagli uomini e dalle donne». Crescendo in dipendenza di entrambi i genitori, il maschio «non finirebbe per legarsi alla negazione della dipendenza e alla svalutazione della donna» diminuendo «il suo bisogno di difendere gelosamente la propria mascolinità e il controllo delle sfere sociali e culturali che trattano e definiscono la donna come un essere secondario e privo di potere».[66]
Il femminismo nero [modifica]
Il femminismo americano si era costituito fin dall'inizio come movimento di sole donne bianche che, pur denunciando anche le discriminazioni razziali esistenti negli Stati Uniti, non aveva fatto distinzioni tra uomini e donne nere e non aveva preso in considerazione la specifica oppressione esercitata dai neri contro le donne di colore.
Un gruppo di afro-americane diede vita a Boston, nell'aprile del 1977, al Combahee River Collective, un circolo femminista che prese il nome della località dove, durante la guerra di secessione, un reggimento di neri appartenente all'esercito nordista combatté vittoriosamente contro gli schiavisti della Confederazione sudista. La posizione programmatica del collettivo era fortemente radicale e d'ispirazione marxista: «crediamo che la politica sessuale sotto il patriarcato sia pervasiva nella vita delle donne nere quanto la politica di classe e razziale. È difficile separare la razza dall'oppressione di classe e razziale perché esse agiscono simultaneamente nella nostra vita».
Oltre a denunciare il razzismo e il maschilismo bianco, esse dovevano fare i conti con il sessismo di matrice nera e, rispetto alle femministe bianche, dovevano denunciare il ruolo marginale che il mondo del lavoro assegnava alle donne afro-americane che, quando potevano evitare la disoccupazione, si trovavano sottopagate e relegate a svolgere i lavori più umili. Convinte che «la liberazione di tutti i popoli oppressi richiede la distruzione del sistema politico-economico del capitalismo, dell'imperialismo e del patriarcato», affermavano che la rivoluzione socialista doveva essere anche «una rivoluzione femminista e anti-razzista» per garantire la loro effettiva liberazione.
Tra le esponenti di rilievo del femminismo nero statunitense vanno annoverate la scrittrice Michelle Wallace (n. 1952), autrice nel 1979 del libro Black Macho and The Myth of The Superwoman, Angela Davis (n. 1944), comunista, insegnante universitaria, il cui maggior contributo al femminismo è il libro Women, race and class del 1981, anno in cui viene pubblicato anche Ain't I a Woman? dell'attivista bell hooks, pseudonimo (in voluti caratteri minuscoli) di Gloria Jean Watkins (n. 1952), che esamina i temi dell'influsso storico del sessismo e del razzismo sulle donne nere, della svalutazione della femminilità nera, dei ruoli dei media nel propagandare il modello capitalistico e patriarcale, e della sottovalutazione, all'interno dello stesso movimento femminista americano, delle questioni razziali e classiste.
Il femminismo inglese [modifica]
La maggiore esponente del femminismo inglese è senz'altro Juliet Mitchell (n. 1940), socialista, psicanalista e docente di psicanalisi e di Gender Studies nell'Università di Cambridge. Già nel 1966 aveva affrontato, con il saggio The Longest Revolution, pubblicato nella «New Left Review» e rielaborato nel successivo Women's Estate, il problema della condizione di subordinazione sociale delle donne, individuandone le cause nella stessa struttura sociale capitalistica, nello stretto legame tra sessualità e procreazione, e nel ruolo di allevamento dei figli, assegnato esclusivamente a loro.
La via d'uscita, per le donne, è nella rivoluzione socialista, nel diritto al lavoro a pari condizioni con gli uomini, nella separazione tra sessualità e gravidanza, con l'utilizzo generalizzato e gratuito dei mezzi contraccezionali, nel porre fine ai pregiudizi sull'omosessualità, nella cura dei figli condivisa dai genitori, e nella creazione di un maggior numero di asili nido e di centri sociali.
In Psychoanalysis and Feminism, del 1974, la Mitchell offre una rivalutazione delle analisi freudiane sulla psicologia femminile. Freud non è un «maschilista», come credono molte femministe, e in Totem e tabù egli indicò che il patriarcato ha origini storiche e non «naturali», e pertanto esso può essere combattuto e superato. La lotta politica va condotta sia contro il sistema patriarcale che contro quello capitalistico, perché il rovesciamento di quest'ultimo non porta di conseguenza la fine del primo, e a combattere il patriarcato le donne si troveranno a lungo isolate: solo «quando il movimento femminista avrà una sua teoria e una sua prassi rivoluzionaria, anche gli uomini (pur con qualche difficoltà) potranno rinunciare ai loro privilegi patriarcali e diventare femministi».[67]
Il femminismo francese: il pensiero della differenza [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Filosofia della differenza.
Luce Irigaray [modifica]
Il 1º ottobre 1968 venne fondata a Parigi l'associazione femminista radicale Psy-et-po, ossia Psychanalise et politique. In Francia era allora molto vivo l'interesse per le controverse teorie di Jacques Lacan che cercava di rinnovare la psicanalisi freudiana attraverso i mezzi dello strutturalismo linguistico di Ferdinand de Saussure: «l'inconscio si struttura come un linguaggio» e il linguaggio comunica i valori e rappresenta il mondo nel quale ci troviamo a nascere. La dimensione che organizza e impone al bambino e alla bambina i valori dominanti è chiamato «ordine simbolico» perché si esprime con i simboli delle parole, e succede all'«ordine immaginario» nel quale i bambini si riconoscono per la prima volta nell'immagine rimandata dallo specchio, individuandosi come soggetti distinti.
Dalla Psy-et-po e dai seguaci di Lacan proviene Luce Irigaray (n. 1930), che nello Speculum. De l'autre femme (Speculum. Dell'altro in quanto donna), pubblicato nel 1974, rompe con la psicanalisi freudiana e con Lacan, perdendo il posto al dipartimento di psicanalisi nell'Università di Parigi a Vincennes.
Freud stesso definisce la femminilità un «enigma»,[68] per risolvere il quale egli parte dalla sessualità maschile. Dalla differenza dei due sessi, Freud preleva uno dei due termini - quello maschile - che viene assunto come origine la cui differenziazione porterà alla luce l'altro, che appare nelle forme di opposizione essere/divenire, avere/non avere, fallico/non fallico, pene/clitoride, logos/silenzio, desiderio della madre/desiderio d'essere madre: «tutte modalità d'interpretazione della funzione di donna rigorosamente postulate dal proseguimento d'una partita in cui la donna si trova sempre iscritta senza aver mai incominciato a giocare».[69]
Con questi presupposti Freud arriva a considerare la bambina, nella «fase fallica» dello sviluppo sessuale, «un ometto», ma un ometto «dal pene più piccolo. Un ometto svantaggiato. Un ometto la cui libido subirà una più forte repressione [...] più narcisista [...] più pudico, perché si vergogna del confronto svantaggioso. Più invidioso e geloso perché meno dotato [...] un ometto il cui unico desiderio sarebbe quello d'essere o di restare un uomo».[70]
Gli esempi di questa visione fallocentrica si possono moltiplicare: Freud limita il piacere masturbatorio della bambina alla sola clitoride, perché egli ignora le zone erogene che non hanno un corrispettivo maschile,[71] oppure chiama maschile la fase nella quale sia la bambina che il bambino amano la madre - «un modo per eludere la singolarità della relazione tra la bambina e sua madre, così come altrove [Freud] si fa cieco davanti l'originalità d'un desiderio tra donne»[72] - o ancora qualifica di maschile o neutra la libido. Una libido femminile è per lui «priva di qualsiasi giustificazione»,[73] perché diversamente rappresenterebbe «un fuori che minaccia, agli occhi del soggetto maschile della storia, le parole, i segni, il senso, la sintassi» della rappresentazione uomo-sessuale.[74]
Il fallocentrismo delle teorie freudiane si conferma nella presunta «invidia del pene» provata dalla bambina. In Freud la differenza sessuale si risolve in un più o un meno di un sesso, il pene, e la mancanza e l'invidia relativa assolvono la funzione di polo negativo in una dialettica fallocentrica e a rimedio contro l'angoscia maschile di non avere un pene: «se lei ne ha invidia, allora lui ce l'ha. Se lei ha invidia di quello che lui ha, deve trattarsi di cosa che vale. Forse il solo valore che meriti di essere invidiato. Il campione su cui si misura ogni valore».[75]
Insomma Freud, e con lui l'immaginario maschile costruito sull'ordine simbolico dominante, vede la donna come immagine invertita dell'uomo in uno specchio: «affinché l'io sia dotato di valore, occorre che uno specchio lo assicuri, lo ri-assicuri, della sua validità. La donna rappresenta il puntello nel meccanismo della specularità, lei che rinvia all'uomo la "sua" immagine [...] l'intervento di un'immagine altra, d'uno specchio altro, costituisce sempre il rischio d'una crisi mortale». Lo specchio altro è lo speculum, lo specchio concavo che riflette le immagini delle cavità del corpo che uno specchio piano non può rimandare, e che darebbe l'immagine di un'altra donna, quella reale, nella quale la differenza non è una mancanza o un nulla.[76]
Julia Kristeva [modifica]
La psicanalista e semiologa bulgara, naturalizzata francese, Julia Kristeva (n. 1941), senza essere propriamente una femminista, ha dato un contributo importante al dibattito sulla differenza sessuale con la sua teoria dell'ordine semiotico materno. L'ordine semiotico è l'insieme dei segni con la quale la madre si mette in rapporto con i figli fin dalla loro nascita - è dunque costituito dai gesti, dalle carezze, dal contatto diretto del corpo - e precede e viene sostituito dall'ordine simbolico paterno, teorizzato da Lacan e costituito dal linguaggio, che è portatore della dominante ideologia maschile.
Hélène Cixous [modifica]
Hélène Cixous (n. 1937), scrittrice e fondatrice del Centro di studi femminili dell'Università di Vincennes, ha teorizzato la pratica di una «scrittura femminile», così detta perché rifiuta la logica della «scrittura maschile» basata sull'opposizione di coppie concettuali del tipo uomo/donna, padre/madre, attivo/passivo, sole/luna, cultura/natura, giorno/notte, testa/cuore, forma/materia, ecc.
Naturalmente la scrittura maschile non è altro che l'espressione del pensiero maschile, unico e centrale nella storia delle filosofie e delle letterature, e dunque il risultato del «logofallocentrismo». Di fronte a questa situazione di fatto, si può solo improvvisare «una scrittura di donne che si rivolgono ad altre donne, che esaltano quello che è stato ignorato e disprezzato dal discorso maschile, che creano continuamente strutture sintattiche e linguistiche nuove, femminili, non assorbibili nelle codificazioni maschili».[77]
Il femminismo accademico: la questione dell'identità [modifica]
A partire dai primi anni Ottanta il movimento femminista, limitatamente alle sue forme organizzate, subisce un nuovo periodo di riflusso, per quanto alcune sue tematiche sembrano essersi ben radicate nella coscienza delle nuove generazioni e inserite nella pratica sociale e nella legislazione, soprattutto, dei paesi europei e del Nord America. Si diffonde il riconoscimento dell'interruzione volontaria di gravidanza, si puniscono le molestie sessuali, si pone attenzione all'uso di un linguaggio «politicamente corretto», e i movimenti omosessuali ottengono finalmente visibilità.
Un tema su cui le femministe, ma non solo, s'impegnano, è anche quello dello sfruttamento crescente del corpo femminile in spettacoli e in immagini, e della rappresentazione degradata della sessualità fornita da certe pubblicazioni. La femminista radicale americana Andrea Dworkin (1946-2005), che nel 1981 aveva pubblicato il libro Pornography. Men Possessing Women, nel 1983 iniziò insieme con l'avvocato Catharine MacKinnon (n. 1946), una campagna per ottenere la condanna legale delle pubblicazioni pornografiche in quanto rappresenterebbero una violazione dei diritti civili delle donne. Le città di Minneapolis e di Indianapolis emisero in tal senso due ordinanze che furono tuttavia dichiarate anticostituzionali. In compenso, la sua iniziativa fu parzialmente accolta nel 1992 dalla Corte Suprema del Canada, che valutò come certa pornografia rappresenti effettivamente una violazione della garanzia dell'eguaglianza dei sessi. La campagna anti-pornografia della Dworkin fu appoggiata da movimenti conservatori estranei al femminismo e fu criticata da non poche femministe, oltre che dalla scrittrice Erica Jong, che vi videro il rischio connesso all'esercizio di una generalizzata censura contro la libera espressione del pensiero.
Carol Gilligan [modifica]
Crescente è l'approfondimento, in ambito accademico, dei temi che erano emersi durante la «seconda ondata» femminista. Carol Gilligan (n. 1936), insegnante di psicologia nell'Università di Harvard, nel libro del 1982 In a Different Voice. Psychological Theory and Women's Development, (tradotto in italiano Con voce di donna. Etica e formazione della personalità), critica la teoria di Freud, ripresa da Lawrence Kohlberg, secondo la quale l'etica delle donne sarebbe inferiore a quella degli uomini. Analizzando le risposte a un test ideato da Kohlberg per valutare lo sviluppo morale di bambini dei due sessi,[78] la Gilligan, mettendo da parte improbabili questioni di superiorità o meno, rilevava piuttosto la differenza fra il soggetto morale maschile e quello femminile, il primo orientato all'individualismo astratto, il secondo alla relazione concreta.
Il dilemma proposto - un conflitto tra diritto alla vita e diritto alla proprietà privata - era risolto dal bambino per deduzione logica, astraendo dalla concreta situazione il problema morale: nella logica dell'equità egli poneva la soluzione della contesa. «A questo ordinamento gerarchico, con il suo mondo di rappresentazioni fatto di vincitori e vinti», si sostituisce, nell'impostazione che la bambina dà al dilemma, «un intreccio, una fitta trama di rapporti tenuta in vita da un processo di comunicazione», che ricomponga la lacerazione del rapporto all'origine del conflitto.[79]
Donna Haraway: il cyberfemminismo [modifica]
Donna Haraway (n. 1944), femminista socialista e insegnante nell'Università di Santa Cruz, è autrice di A Cyborg Manifesto. Science, Technology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century, pubblicato nel 1985 nella «Socialist Review». Il Manifesto della Haraway è la costruzione di un «mito politico», l'ipotesi di una società futura nella quale i valori del femminismo, del socialismo e del materialismo possano riconoscersi. Al centro dell'utopia è l'immagine del cyborg, «un organismo cibernetico, un ibrido di macchina e organismo, una creatura che appartiene tanto alla realtà sociale che alla finzione». Di fronte a questa nuova realtà, che potrà essere resa possibile dai crescenti progressi della tecnologia informatica, i concetti tradizionali di classe, razza, sesso, genere, corpo, identità, sono destinati a tramontare.
Il cyborg è una creatura che vive in un mondo post-genere e non ha niente a che vedere con la bisessualità, la simbiosi pre-edipica e l'alienazione del lavoro: natura e cultura sono rimodellate, le distinzioni tra naturale e artificiale, corpo e spirito, autosviluppo e creazione e altre ancora che permettevano di distinguere gli organismi dalle macchine, sono divenute molto vaghe. Il futuro mondo dei cyborg potrebbe essere costituito da realtà corporee e sociali nelle quali nessuno avrebbe timore di discendere da un essere animato e da una macchina, né di avere idee sempre frammentate, né opinioni sempre contraddittorie.
Nella realtà odierna - afferma la Haraway - chiamarsi femminista e voler affermare il proprio femminismo è divenuto difficile, perché nominarsi significa anche escludere e le identità sembrano essere contraddittorie e parziali. Lo stesso «essere donna» - oltre a costituire una categoria molto complessa, costruita in base a discorsi scientifici sul sesso e su pratiche sociali discutibili - non è sufficiente a creare un legame con le altre donne, come dimostrano le divisioni tra le femministe stesse. Di fronte alla crisi dell'identità politica della sinistra e del movimento femminista, un passo in avanti può essere costituito dalla rinuncia a ricercare una unione basata sull'identità in favore di una coalizione basata sull'affinità.[80]
Teresa de Lauretis: le tecnologie di genere [modifica]
L'italiana Teresa de Lauretis (n. 1938), da tempo insegnante in diverse Università degli Stati Uniti, in saggi sull'arte teatrale e cinematografica - Alice no. Femminismo, semiotica, cinema (1984), Tecnologie del genere. Saggi su teoria, film e narrativa (1987) - ha affrontato il problema del ruolo assegnato agli attori, mostrando come il suo continuo cambiamento introduca il concetto di parodia: non esistono identità fissate dalla natura e ogni identità assunta è ogni volta una demolizione e una parodia della precedente.
Nella discussione, in ambito femminista, sulla differenza sessuale, il concetto di genere è stato sottoposto a un approfondimento tale che dal suo primitivo significato di semplice distinzione di sesso - il genere maschile e femminile - si è arricchito di una polivalenza di rappresentazioni derivate dalla sessualità, dalla razza, dalla posizione sociale, dalla cultura, dalla psicologia. Un primo risultato di analisi femminista fu concepire il genere quale «marchio della donna, il segno della sua differenza: una differenza sessuale che sottendeva un insieme di tratti caratteriali derivanti dal sesso anatomico e dal destino biologico, e comportava la subordinazione all'uomo».[81]
Le tecnologie del genere sono, per la de Lauretis, forme culturali - quali il linguaggio, la filosofia, la religione, la letteratura, le arti visive e i media - che alimentano e costruiscono il genere insieme con le forme istituzionali del diritto, della scuola, della famiglia. Il genere, pertanto, non è una semplice derivazione del sesso biologico, ma è una rappresentazione discorsiva e ha una natura artificiale. Ma il genere appartiene alla realtà concreta del singolo individuo e diviene autorappresentazione e componente dell'identità individuale: «il soggetto si ingenera, si produce in quanto soggetto nell'assumere, nel fare proprie o nell'identificarsi con gli effetti di senso e le posizioni specificate dal sistema sessuale di una data società», tanto più quanto maggiormente egli è soggetto alle tecnologie del genere.[82]
Judith Butler e la queer theory [modifica]
Per Teresa de Lauretis, il genere, pur tenuto distinto dal sesso e dalla sessualità, è necessariamente interconnesso con la sessualità. Ma nell'ultimo scorcio del Novecento si affermano nuovi studi nei quali non solo il genere, ma anche sesso e sessualità sono intesi essere costruzioni discorsive e simboliche: diversamente dalla persona transessuale, che si identifica nel "sesso" opposto a quello assegnatogli alla nascita, il transgender è il soggetto che si identifica, che costruisce la propria identità al di là del proprio corpo e del proprio sesso, oltre la sessualità e il genere. Il transgender «non si riferisce a nulla se non alla propria natura di figura del discorso».[83]
Judith Butler (n. 1956), insegnante nell'Università di Berkeley, nel suo Gender Trouble (Il problema del genere, 1990) sostiene che non si possa parlare della «donna» in termini universali: si tratta infatti di una categoria complessa determinata dall'appartenenza alla classe, all’etnia, alla sessualità; lo stesso patriarcato non è una categoria universale, perché si è strutturato storicamente in forme e in luoghi diversi, esercitando diversamente la sua oppressione sulle donne.
La psicanalisi e lo strutturalismo antropologico hanno teorizzato nel tabù dell'incesto e nel complesso di Edipo la trasformazione del sesso in genere; per Claude Lévi-Strauss essi stanno alla base dello scambio delle donne e dell'istituzione matrimoniale; per la psicanalista inglese Joan Riviere la femminilità è una maschera che nasconde l'identificazione maschile e perciò anche il desiderio che una donna potrebbe avere per un'altra donna; per Freud, nel lutto e nella malinconia l'io si appropria dell'oggetto perduto rivestendosi dei suoi attributi.
Partendo da queste tre teorie, la Butler afferma che l'incesto è «una fantasia culturale» e la presenza del tabù genera il suo desiderio, mentre l'imitazione e la maschera sono l'essenza del genere e l'identificazione con un genere è una forma di malinconia nella quale il sesso dell'oggetto proibito viene interiorizzato in quanto proibito. Per assicurare la stabilità dell'eterosessualità, occorre che la nozione dell'omosessualità esista ma sia proibita. Il tabù dell'incesto è dunque una legge che genera, regolarizza e approva l'eterosessualità, mentre rigetta come sovversiva l'omosessualità, ma né l'una né l'altra sono prodotti naturali, bensì culturali, sono infatti il prodotto di una legge.
Butler vorrebbe costruire un femminismo politico in cui il genere non sia pensato come rappresentativo di una categoria naturale o che vi sia assente. Anche la dualità soggetto-oggetto, un concetto base nella pratica femminista che cerca di riconsegnare alle donne lo statuto di soggetto e non di oggetto, è una divisione artificiale. La nozione di soggetto è infatti formata mediante la ripetizione e l'«esercizio della significazione», e da Teresa de Lauretis la Butler riprende l'idea che la parodia e il travestimento siano il presupposto della costruzione dell'identità di genere. Una politica positiva del femminismo deve perciò emergere ridisegnando i giochi dell'identità e mostrando come ogni tentativo di «essenzializzare» il genere sia destinato alla sconfitta.
La Butler apriva così la strada alla queer theory, che ripensa l'identità fuori dal quadro normativo di una società che guarda alla sessuazione come costitutiva di un'economia binaria degli esseri umani, basata sull'idea della complementarietà nella differenza e realizzata nella coppia eterosessuale. Non esistendo identità naturali, non esistono nemmeno identità deviate e ogni soggetto è libero di assumere qualunque identità, rimanendo ciascuna fluida e provvisoria. La «devianza» del soggetto queer sta piuttosto nel suo porsi polemicamente contro la «normalità» istituzionalizzata dalla tradizione maschilista.
Rosi Braidotti [modifica]
Christine Battersby [modifica]
Il femminismo italiano [modifica]
Il moderno femminismo italiano nasce con la contestazione studentesca: a Trento si costituisce il circolo Lotta femminista e un collettivo di cinque persone pubblica nel 1972 un libro, La coscienza di sfruttata, che analizza la «questione femminile» da un punto di vista marxista: nella società capitalistica la donna è sfruttata due volte, sia come lavoratrice sia nel suo rapporto con l'uomo.
Nel 1969 si costituiscono il Fronte italiano di liberazione femminile (FILF) e il Movimento per la liberazione della donna (MLD), espressione del Partito radicale, che avanza richieste concrete: istituzione del divorzio, informazione sui metodi anticoncezionali, legalizzazione dell'aborto, creazione di asili nido.
Carla Lonzi [modifica]
Di questi collettivi fanno parte anche uomini. Il gruppo Rivolta Femminile, nato nel 1970 a Milano e a Roma, vuole invece essere esclusivamente femminile e accoglie tra le sue fila, tra le altre, Elvira Banotti, che nel 1971 scrive sul problema dell'aborto Sfida femminile, la nota pittrice Carla Accardi, che scrive Superiore e inferiore, e Carla Lonzi (1931-1982), che redige con Accardi e Banotti il Manifesto di Rivolta femminile e alla quale si devono i primi, più importanti testi femministi scritti in Italia, Sputiamo su Hegel, del 1970, e La donna clitoridea e la donna vaginale, del 1971.
Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, teorizzava l'inferiorità della donna, giustificata dalle superiori esigenze della realizzazione dello Spirito. Nella famiglia, fratello e sorella sono differenti ma eguali, e però dalla famiglia il fratello esce per realizzarsi come «individualità che si volge verso altro e passa nella coscienza dell'universalità». Il destino della sorella è invece di divenire moglie e madre, restando dunque nell'ambito della famiglia, vincolata al particolare ed esclusa dall'universalità della comunità sociale. Non a caso le donne, sosteneva ancora Hegel nelle Lezioni di filosofia del diritto, «non sono fatte per le attività che richiedono una capacità universale, come le scienze più avanzate, la filosofia e certe forme di produzione artistica», né sanno agire «secondo esigenze di universalità, ma secondo inclinazioni e opinioni arbitrarie».
Si capisce allora come Carla Lonzi invitasse nel Manifesto a «sputare» sul filosofo tedesco, uno di coloro che avevano «mantenuto il principio della donna come essere aggiuntivo per la riproduzione della umanità, legame con la divinità o soglia del mondo animale; sfera privata e pietas», giustificando «nella metafisica ciò che era ingiusto e atroce nella vita della donna».
Oggi la donna è definita giuridicamente eguale all'uomo, ma si tratta, secondo la Lonzi, di un tentativo ideologico per asservirla a più alti livelli, perché «la donna è l'altro rispetto all'uomo e l'uomo è l'altro rispetto alla donna» e liberarsi non vuole dire accettare la stessa vita dell'uomo, che «è invivibile», ma esprimere il suo senso dell'esistenza: «il mondo dell'eguaglianza è il mondo della sopraffazione legalizzata, dell'unidimensionale; il mondo della differenza è il mondo dove [...] la sopraffazione cede al rispetto della varietà e della molteplicità della vita. L'uguaglianza tra i sessi è la veste in cui si maschera oggi l'inferiorità della donna».[84]
Anche nel rapporto più diretto e intimo con la donna, quello sessuale, l'uomo ha imposto alla donna il proprio piacere: «il piacere vaginale non è per la donna il piacere più profondo e completo, ma è il piacere ufficiale della cultura sessuale patriarcale».[85] Come Anne Koedt, Carla Lonzi definisce «mito» l'orgasmo vaginale cui contrappone l'autentico piacere clitorideo e rileva come esistano due vere e proprie condizioni femminili, la «donna clitoridea» e la «donna vaginale». Quest'ultima ha accettato la sessualità che l'uomo le ha imposto, ma occorre liberarsi anche da questa primitiva oppressione patriarcale: «la donna clitoridea non ha da offrire all'uomo niente di essenziale, e non si aspetta niente di essenziale da lui. Non soffre della dualità, e non vuole diventare uno».[86]
Le femministe manifestano a Roma l'8 marzo del 1972 in occasione della Giornata Internazionale della Donna e vengono caricate dalla polizia: Alma Sabatini - colei che nel 1987 pubblicherà le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana – «finisce all'ospedale. Sembrò di essere tornati indietro di cento anni, quando le suffragette inglesi venivano percosse dai poliziotti perché chiedevano il voto».[87]
Nel 1974 gli italiani respinsero il referendum abrogativo della legge sul divorzio promosso da Gabrio Lombardi, professore della Pontificia Università Gregoriana, e appoggiato dalla Democrazia Cristiana e dal Movimento Sociale. Le femministe iniziarono a mobilitarsi per il riconoscimento del diritto all'aborto, che venne approvato dal Parlamento il 6 giugno 1978 e confermato nel 1981 respingendo il referendum abrogativo.
Negli anni Settanta e Ottanta si costituiscono altri gruppi femministi in diverse città, nascono iniziative editoriali - «L'Edizione delle donne» e «La Tartaruga» a Milano - e si pubblicano riviste esclusivamente dedicate alle tematiche femministe, come la «DWF» a Roma. Nel gennaio del 1983 esce nella rivista Sottosopra, espressione del gruppo milanese della Libreria delle Donne, l'articolo Più donne che uomini che, rielaborato e ampliato, produce nel 1987 il libro Non credere di avere dei diritti.
Il movimento femminile in questi anni ha indubbiamente ottenuto dei successi, sia nel campo sociale, sia in quello personale, attraverso «la pratica politica dei rapporti tra donne», ma manca ancora «il modo di tradurre in realtà sociale l'esperienza, il sapere e il valore di essere donne». Nei rapporti sociali le donne si trovano in difficoltà, «perché l'essere donna, con la sua esperienza e i suoi desideri, non ha luogo in questa società, modellata dal desiderio maschile e dall'essere corpo di uomo». Una donna si può affermare nella società a condizione di modellarsi sull'uomo, a costo di una mutilazione di sé, dell'isolamento dalle proprie simili, in definitiva, a costo del «disprezzo per il proprio sesso. Questo rinnegamento della parte perdente, dentro e fuori di sé, fa sì che tra le poche donne affermate socialmente molte siano in sostanza delle conservatrici o delle reazionarie».[88]
Per superare questa condizione di scacco e di inadeguatezza che la donna deve subire, occorre «sessualizzare i rapporti sociali», che vuol dire «toglierli dalla loro apparente neutralità e mostrare che nei modi socialmente correnti di rapportarsi ai propri simili una donna non si trovava integralmente né con il proprio piacere né con le proprie capacità».[89]
Un programma che punti alla parità dei diritti tra i due sessi rappresenta una politica subordinata e della subordinazione, e «non tocca la sostanza del problema, e cioè che in questa società così com'è le donne non trovano né forti incentivi ad inserirsi né vera possibilità di affermarsi al meglio di sé. Una donna ci sta, ammesso che voglia starci, a disagio».[89] Le politiche delle rivendicazioni sono forme politiche maschili, che portano all'omologazione della donna nell'universalità del modello maschile e negano la significazione della differenza sessuale.[90]
Dal disagio dell'esistenza sociale la donna può uscire contrastando la cancellazione delle proprie «emozioni, desideri, motivazioni, comportamenti, criteri di giudizio, che non siano quelli rispondenti alla mascolinità, quelli cioè che ancora prevalgono nella società governandola fin nelle sue più libere espressioni», dunque «sessualizzando i rapporti sociali», mettendo cioè in rilievo la differenza sessuale e dandole voce e visibilità. Le donne non sono tutte eguali, esistono disparità che occorre valorizzare affidando ciascuna «a una propria simile - alla sua voglia di vincere, alla sua estraneità - per il proprio interesse, e stabilire così un legame materiale che mette in comunicazione cose che erano tacitate o distorte nel confronto individuale con la società maschile».[89] Questo rapporto sociale di affidamento tra donne è contenuto e strumento della più generale politica di liberazione femminile.[91]
Luisa Muraro [modifica]
Luisa Muraro (n. 1940), esponente di spicco della Libreria delle Donne e membro della comunità di filosofe che si raccolgono a Verona sotto il nome di Diotima, ha pubblicato nel 1991 L'ordine simbolico della madre. Contro il dominante ordine simbolico paterno occorre costruire un diverso complesso culturale, concettuale e linguistico, l'ordine simbolico materno. Ogni costruzione implica un inizio: Platone situa l'inizio del sapere nel mito dell'uscita della caverna, Cartesio nella certezza di essere garantita dal pensiero, ma il primo sapere che ogni essere umano ha realmente sperimentato fin dai primi momenti della vita è «il saper amare la madre», e saper amare la madre «fa ordine simbolico».[92]
La nostra primitiva relazione con la madre, instaurata nell'immediatezza della venuta al mondo e fatta di contatti, di gesti, di parole, di reciproca comunicazione nella quale non si distingue il corpo dalla mente e la mente dalla parola, è il luogo dell'immanenza, della presenza intera dell'essere. Saper amare la madre, l'esperienza di relazione con la madre, dà così il senso dell'essere, e il senso autentico dell'essere si manifesta nella coincidenza di avere senso ed essere vero.[93] Saper amare la madre è dunque il principio della conoscenza, ma la rimozione culturale del nostro rapporto con la madre che si verifica con l'avvento della legge del patriarcato, la quale si sovrappone all'opera positiva della madre, ha l'effetto di scindere «la logica dall'essere ed è causa del nostro perdere e riperdere il senso dell'essere».[94]
Si sa che a volte i figli sono allevati da donne che non sono le loro madri biologiche, ma la loro relazione mantiene le medesime caratteristiche che intercorrono nella relazione tra la madre naturale e la sua creatura: dunque l'elemento naturale non è rilevante nella relazione. Muraro deduce da questo fatto «la predisposizione simbolica» della madre a farsi sostituire senza danno «nell'opera di creazione del mondo che ella compie insieme alla sua creatura», e l'esistenza di una struttura, quella del «continuum materno», che attraverso la genealogia delle madri riporta ai primordi della vita. In questo continuum materno la creatura di sesso femminile si situa al centro, mentre «quella di sesso maschile ne sta fuori»: la differenza sessuale è dunque presente fin dalle origini nella relazione con la madre.[95]
È da rilevare che Muraro rifiuta l'opposizione sesso/genere, equivalente in sostanza a un'opposizione natura/cultura, presente in parte nel pensiero femminista nord-americano, che ella ritiene sia di fatto «tributaria del progetto maschile di rifare e soppiantare l'opera della madre». Ridurre la differenza sessuale all'opposizione tra genere e sesso «veicola l'idea che la confezione del corpo ad opera della madre sia separabile dai suoi significati culturali. Cioè, che la madre non pensi. O che il suo pensare sia un aspetto scarsamente rilevante della sua opera».[96]
Adriana Cavarero [modifica]
Il femminismo cristiano [modifica]
La teologia femminista [modifica]
Le critiche al femminismo e l'antifemminismo [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Antifemminismo.
Note [modifica]
^ http://www.universitadelledonne.it/riv-femm.htm
^ a b Liliana Ellena, Spazi e frontiere della storia dei movimenti delle donne in AAVV, «Quaderno di storia contemporanea», n. 40, numero monografico Storie di genere,, 2006, Alessandria, Falsopiano. , ISBN 88 8012 345 9.
^ Vedere Ruba Salih, "Femminismo e Islamismo. Pratiche politiche e processi di identificazione in epoca post-coloniale" in AA VV, Altri femminismi. Corpi Culture Lavoro, Roma, Manifesto libri, 2006. , a cura di Teresa Bertilotti, Cristina Galasso, Alessandra Gissi, Francesca Lagorio, ISBN 88-7285-428-8.
^ M. Wollstonecraft, A Vindication of the Rights of Woman, 1992, p. 133.
^ "La narrativa di Mary Wollstonecraft, «Illuminazioni», n. 1, luglio-settembre 2007
^ a b Adriana Cavarero,Franco Restaino, Le filosofie femministe, Bruno Mondadori, 2002, ISBN 8861592643.
^ a b Valentina Piattelli, "Storia dell'emancipazione femminile in Italia".
^ Dolores Morondo Taramundi, "Il dilemma della differenza nella teoria femminista del diritto", Aras Edizioni 2004, pagine 128, ISBN 8888699244, ISBN-13: 9788888699240
^ M. Schneir, The Vintage Book of Historical Feminism, 1996, pp. 77-78.
^ J. S. Mill, The Subjection of Women, in AA. VV., Feminist Philosophies, 1995, pp. 263-264.
^ J. S. Mill, The Subjection of Women, cit., p. 266.
^ K. Marx, Lettere a Kugelmann, 1950, p. 89.
^ K. Marx, Il capitale, I, 2, 1952, p. 203.
^ F. Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, 1963, p. 76.
^ F. Engels, cit., pp. 80-81.
^ F. Engels, cit., p. 83.
^ F. Engels, cit., ivi.
^ F. Engels, cit., p. 84.
^ Cfr. gli episodi di Telemaco e Penelope, Odissea, I, 356, e XXI, 350.
^ Agamennone e Cassandra in Eschilo, Agamennone.
^ Cfr. Teucro, fratellastro di Aiace, in Iliade, VIII, 284.
^ F. Engels, cit., p. 106.
^ F. Engels, cit., p. 108.
^ F. Engels, cit., p. 101.
^ F. Engels, cit., p. 103.
^ F. Engels, cit., p. 109.
^ J. Déjacque, De l'être-humain mâle et femelle. Lettre à P. J. Proudhon, La Nouvelle-Orléans, 1857, p. 5.
^ P. Marshall,Demanding the Impossible: A History of Anarchism, 1992, p. 409.
^ A. Wexler, Emma Goldman: An Intimate Life, 1984, p. 94.
^ I particolari precisi dell'episodio non sono del tutto chiari. Per maggiori particolari vedi la voce Emily Davison
^ V. Woolf, Le tre ghinee, 1980, p. 58.
^ V. Woolf, Le tre ghinee, p. 57.
^ V. Woolf, Le tre ghinee, p. 141.
^ V. Woolf, Le tre ghinee, pp. 144-145.
^ S. de Beauvoir, Il secondo sesso, 1984, p. 27.
^ S. de Beauvoir, cit., p. 19.
^ S. de Beauvoir, cit., p. 20.
^ S. de Beauvoir, cit., p. 833.
^ La mistica della femminilità, cap. 5.
^ B. Friedan, La mistica della femminilità, 1964, p. 17.
^ (IT) Articolo sulla NOW da DWpress
^ Il nome Redstockings, «calze rosse», fa riferimento al circolo intellettuale femminile delle Bluestockings, «calze blu», sorto nel Settecento in Inghilterra.
^ Redstockings Manifesto, in AA. VV., The Vintage Book of Feminism, 1995, pp. 126-127.
^ Cfr. estratto on-line.
^ K. Millett, La politica del sesso, 1971, p. 432.
^ A. Cavarero, F. Restaino, Le filosofie femministe, 2002, p. 36.
^ S. Firestone, La dialettica fra i sessi. Autoritarismo maschile e società tardo-capitalistica, 1971, pp. 24-25.
^ Cfr. il testo on-line.
^ Sono citati dalla Koedt, tra gli altri, George Lombard Kelly, Sexual Feelings in Married Men and Women, 1951; Alfred C. Kinsey, Sexual Behavior in the Human Female, 1953; Marie Bonaparte, Female Sexuality, 1953; William H. Masters, Virginia E. Johnson, Human Sexual Response, 1966.
^ A. Koedt, The Myth of the Vaginal Orgasm, in AA. VV., The Vintage Book of Feminism, cit., pp. 335-337.
^ A. Koedt, The Myth of the Vaginal Orgasm, cit., pp. 340-342.
^ The Woman Identified Woman, in AA. VV., The Vintage Book of Feminism, cit., p. 163.
^ The Woman Identified Woman, in AA. VV., The Vintage Book of Feminism, cit., pp. 164-165.
^ The Woman Identified Woman, in AA. VV., The Vintage Book of Feminism, cit., p. 166.
^ A. Rich, Eterosessualità obbligata ed esistenza lesbica, in «Nuova DWF», 23-24, 1985, p. 6.
^ A. Rich, Eterosessualità obbligata ed esistenza lesbica, cit., p. 12.
^ A. Rich, Eterosessualità obbligata ed esistenza lesbica, cit., pp. 14-22.
^ A. Rich, Eterosessualità obbligata ed esistenza lesbica, cit., p. 25.
^ A. Rich, Eterosessualità obbligata ed esistenza lesbica, cit., p. 26.
^ A. Lorde, Uses of Erotic. The Erotic as Power, in «Out & Out Books Pamphlet», 3, 1979.
^ A. Rich, Eterosessualità obbligata ed esistenza lesbica, cit., p. 28.
^ M. Wittig, The straight mind in traduzione italiana.
^ L'articolo One is not Born a Woman è riprodotto anche in AA. VV., The Lesbian and Gay Studies Reader, a cura di H. Abelove, M. A. Barale e D. M. Helperin, 1993, pp. 103-109. Traduzione italiana on-line.
^ G. S. Rubin, Lo scambio delle donne. Una rilettura di Marx, Engels, Lévi-Strauss e Freud, in «Nuova DWF», I, 1976, pp. 23-65.
^ S. Brownmiller, Contro la nostra volontà. Uomini, donne e violenza sessuale, 1976, pp. 10-13.
^ N. Chodorow, La riproduzione della funzione materna. Psicanalisi e sociologia della funzione materna, 1991, passim.
^ J. Mitchell, Psicoanalisi e femminismo, 1976, p. 484.
^ La femminilità, in S. Freud, Introduzione alla psicanalisi, 1969, pp. 513-533.
^ L. Irigaray, Speculum. Dell'altro in quanto donna, 2010, p. 17.
^ L. Irigaray, Speculum, cit., pp. 21-22.
^ L. Irigaray, Speculum, cit., pp. 24-25.
^ L. Irigaray, Speculum, cit., p. 27.
^ S. Freud, La femminilità, cit., p. 530.
^ L. Irigaray, Speculum, cit., p. 38.
^ L. Irigaray, Speculum, cit., pp. 46-47.
^ L. Irigaray, Speculum, cit., p. 49.
^ A. Cavarero, F. Restaino, Le filosofie femministe, cit., p. 52.
^ Nel test si chiedeva se fosse lecito a un uomo rubare, in mancanza del denaro per acquistarlo, un farmaco che avrebbe salvato la vita della moglie.
^ C. Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, 1987, p. 41.
^ A Cyborg Manifesto, in D. Haraway, Simians, Cyborgs and Women. The Reinvention of Nature, 1991, pp. 149-155.
^ T. de Lauretis, Soggetti eccentrici, 1999, p. 97.
^ T. de Lauretis, op. cit., ivi.
^ T. de Lauretis, op. cit., p. 105.
^ C. Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, 1974, p. 21.
^ C. Lonzi, op. cit., p. 103.
^ C. Lonzi, op. cit., p. 118.
^ G. Parca, L’avventurosa storia del femminismo, 1981, c. ILIII.
^ Più donne che uomini, in Sottosopra, gennaio 1983.
^ a b c Più donne che uomini, cit.
^ AA. VV., Non credere di avere dei diritti, 1987, p. 19.
^ AA. VV., Non credere di avere dei diritti, cit., p. 19.
^ L. Muraro, L'ordine simbolico della madre, 1991, p. 14.
^ L. Muraro, op. cit., p. 26.
^ L. Muraro, op. cit., p. 27.
^ L. Muraro, op. cit., pp. 53-54.
^ L. Muraro, op. cit., p. 132.
Bibliografia [modifica]
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Fiorenza Taricone, Teoria e prassi dell'associazionismo italiano nel XIX secolo, Cassino, Edizioni dell'Università 2004 ISBN 9788883170157
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Luca Corchia, I diritti delle donne, in Massimo Ampola, Luca Corchia, Dialogo su Jürgen Habermas. Le trasformazioni della modernità, Pisa, Edizioni ETS, 2007, pp. 143-152.
Narrativa [modifica]
Nawal al-Sa‘adawi, L'amore ai tempi del petrolio, Altriarabi, traduzione di Marika Macco, introduzione di Luisa Morgantini, Editrice il Sirente, Fagnano Alto, 2009. XVI-144 pp. ISBN 978-88-87847-16-1
Marie Cardinal, Le parole per dirlo, Bompiani, Milano, 2001. 304 pp. ISBN 88-452-4901-8
Voci correlate [modifica]
Olympe de Gouges
Mary Wollstonecraft
Harriet Taylor
John Stuart Mill
Elizabeth Cady Stanton
Aleksandra Kollontaj
Virginia Woolf
Simone de Beauvoir
Luce Irigaray
Anne Koedt
Andrea Dworkin
Hoda Sha'rawi
Teresa de Lauretis
Angela Davis
Mary Wortley Montagu
Christine Delphy
Betty Friedan
Shulamith Firestone
Rosa Genoni
Carla Lonzi
Diotima di Mantinea
Kate Millett
Bertha Pappenheim
Zaynab al-Ghazali
Luisa Muraro
Nawal al-Sa‘dawi
Taraneh Javanbakht
Nojoud Ali
Susan Brownmiller
Juliet Mitchell
Gayle Rubin
Nancy Chodorow
Carol Gilligan
Sampat Pal Devi
Tamar Pitch
Altro [modifica]
Antifemminismo
Femminismo arabo
Femminismo islamico
Femminismo liberale
Femminismo socialista
Femminismo radicale
Ecofemminismo
Etica della cura
Femminismo di prima ondata
Femminismo di seconda ondata
Femminismo etnico
Femminismo lesbico
Utopia lesbica
Gender studies
Anarco-femminismo
Androcrazia
Autocoscienza femminista
Critica cinematografica femminista
Equity feminism
Giornata Internazionale della Donna
Pari Opportunità
Riot Grrrl
Ruolo di genere
Separatismo femminista
Le solitarie
Suffragette
Teoria queer
Bioetica
Divorzio
Aborto
Stregoneria e caccia alle streghe
Altri progetti [modifica]
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Collegamenti esterni [modifica]
Femminismo su Open Directory Project (Segnala su DMoz un collegamento pertinente all'argomento "Femminismo")
(EN) Redstockings Manifesto
(EN) S. Firestone, The Dialectic of Sex, cap. I
(EN) A. Koedt, The Myth of the Vaginal Orgasm
(EN) A. Koedt, Lesbianism and Feminism
(EN) Radicalesbians Manifesto: The Woman Identified Woman
A. Rich, Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica
M. Wittig, Donna non si nasce
(EN) Costituzione del Combahee River Collective
(EN) J. Mitchell, Women. The Longest Revolution
(EN) J. Mitchell, Women's Estate
(EN) D. Haraway, A Cyborg Manifesto
(IT) L. Borghi, Gender
C. Accardi, E. Banotti, C. Lonzi, Manifesto di Rivolta femminile
Carla Lonzi su Filosofico.net
STORIA DEL FEMMINISMO IN ITALIA
testo tratto dal sito web http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=469 dove è possibile vedere l'intera puntata dedicata alla Battaglia del movimento femminista italiano.
La lunga battaglia delle donne, dal dopoguerra al boom economico, per ottenere gli stessi diritti e le stesse opportunità degli uomini, a partire dal diritto di voto, all'istruzione, al lavoro, dipinge una storia a più colori, fatta di speranze e delusioni.Negli anni Settanta, al centro della riflessione dei movimenti femministi c'è la diversità del pensiero femminile, un'identità da difendere e la lotta è su tanti fronti: la politica, il sindacato, le associazioni ma anche la dimensione personale della sessualità, del divorzio, dell'aborto.. Le parole diventano slogan: "Donna è bello", "Donne non si nasce ma si diventa", nel sogno di allargare i confini della politica e di cambiare la società.
Approfondisci...
… “Se la sua funzione di femmina non basta a definire la donna, se ci rifiutiamo anche di spiegarla con ‘l’eterno femminino’ … dobbiamo ben porci la domanda: che cos’è una donna?” (da Il secondo sesso di S. De Beauvoir). La questione femminile, che già ha una lunga storia, si manifesta negli anni Settanta come una rivelazione. Questo mondo è tutto declinato al maschile e per le donne sembra non esserci posto, non esserci ruolo. Lo aveva già detto, una delle prime, Simone de Beauvoir, insieme a Jean-Paul Sartre la più importante protagonista dell’esistenzialismo francese. Nel suo lungo saggio, Il secondo sesso, datato 1949, la scrittrice metterà al centro della sua riflessione la condizione della donna nella società, e il libro passerà alla storia come la pietra miliare della storia del femminismo. I testi di storia del XIX secolo, influenzati dal positivismo, vedevano la storia come un continuo progresso, come un’evoluzione che non poteva non andare verso il meglio; una catena ininterrotta di eventi che avrebbero condotto la società verso il benessere, le conquiste sociali e civili, l’equità, la giustizia. Ma la storia ben presto dimostrò che le cose non andavano esattamente in questo modo, si capì che essa non equivaleva necessariamente al progresso. Meglio considerarla, allora, una sequela di fatti degni di memoria; ma i fatti non sono sempre chiari, la storia spesso si complica e fatica a essere letta.Siamo negli anni Settanta del ventesimo secolo e le femministe scendono in piazza per la prima volta separatamente dagli uomini. E’ l’8 marzo del 1972, la giornata internazionale della donna, e la manifestazione si svolge nella celebre Campo De’ Fiori di Roma, la piazza che ha visto il filosofo Giordano Bruno bruciato vivo per eresia dalla Chiesa dell’Inquisizione. Le donne sono quasi ventimila e appartengono a tutti gli strati sociali, a tutte le generazioni; sono accomunate dal desiderio di cambiamento, dall’esigenza di essere se stesse. Vogliono contare, non vogliono essere solo mogli e madri, vogliono addirittura la proprietà del proprio corpo, considerano il matrimonio “prostituzione legalizzata”. Ai lati della piazza vi è una massiccia presenza della polizia, che ben presto carica duramente le manifestanti e riesce a sgombrare la piazza. L’anno successivo il movimento femminista tace: ma ciò che voleva dire l’aveva detto e quella manifestazione sancirà una tappa fondamentale della storia del femminismo. Intanto, il 2 giugno del 1976, la repubblica compie trent’anni; se i tempi duri del dopoguerra sono lontani, sono invece alle porte quelli che allora e dopo saranno definiti gli anni di piombo. Ma dovrà passare ancora qualche anno. Intanto, gli italiani godono del posto di lavoro garantito, di una diffusa libertà, del benessere economico. Gli ultimi anni Settanta sono quelli catterizzati dall’esplosione del fenomeno del terrorismo nero e rosso, che insanguina tutta l’Italia,gli anni di piombo, appunto. Qual è il ruolo delle donne in quel periodo storico? Quale il loro rapporto con la politica? Spiega il sociologo Franco Ferrarotti: “ Negli anni di piombo diventa più importante la possibilità di sognare e non bastano più pane e lavoro, ci vogliono pane e rose… Proprio negli stadi più avanzati della società emergono bisogni spirituali profondi, bisogni dell’immaginario, bisogni di vivere pienamente”. Il desiderio di una società diversa, di un cambiamento radicale dei modi di vita attraversa i primi anni Settanta. Alle donne non basta più essere uguali agli uomini. Esse affermano in modo lapidario: “La psicoanalisi ci ha tradite, la Chiesa ci ha chiamato sesso, la civiltà ci ha definito inferiori, il marxismo ci ha vendute alla rivoluzione ipotetica”. Si formano i primi collettivi femministi, basati su quell’autocoscienza che veniva già praticata da tempo negli Stati Uniti e che in Italia durò circa un decennio (dai primi anni Settanta fino al 1980), in cui le donne mettevano in comune le loro esperienze private, la loro rabbia, il desiderio di essere se stesse “in quanto donne”. Gli incontri avvenivano nelle ore serali, sembravano quasi clandestini e gli uomini non venivano ammessi. E’ il periodo della “separazione” dagli uomini, un fenomeno di forte impatto simbolico e di cui si sarebbe a lungo discusso. In questi collettivi si parla molto del corpo, dell’aborto, della violenza fisica e psicologica che spesso le donne subiscono o hanno storicamente subito. Spiega ancora Ferrarotti: “ Il movimento femminista vuol far capire che il potere non può più essere gestito solo da una parte dell’umanità: chi non accetta questa parità oggi non ha diritto di cittadinanza. Le donne rifiutano tutto, i partiti, la Chiesa, la storia precedente.” Perché, affermano, alla storia non hanno partecipato. Ma chi sono, allora, queste donne ignorate dalla storia?Facciamo un passo indietro. La seconda guerra mondiale è finita, le elezioni del 2 giugno 1946 chiamano gli italiani a scegliere tra la monarchia e la repubblica e sanciscono per l’Italia stremata l’inizio di un nuovo emozionante periodo storico, ricco di fermenti e di speranze. Le donne italiane votano per la prima volta il 2 giugno; è giunto il momento della scelta individuale, un momento di forte affermazione dei loro diritti. Se, in generale, l’emancipazione femminile si rivelerà un lungo processo ricco di battute d’arresto, tuttavia i leader politici dei più importanti partiti italiani, Palmiro Togliatti e Alcide de Gasperi, a capo rispettivamente del PCI e della DC capiscono l’importanza della presenza femminile nella società. Presenza che aveva segnato anche la Resistenza italiana del 1943 contro i nazi-fascisti: le donne avevano impugnato i fucili senza esitare, avevano curato i soldati, e sostituito nelle fabbriche i mariti che erano al fronte.Qualche cosa, comunque sta cambiando: dei 365 deputati che scrivono la Costituzione 21 sono donne. E l’articolo 3 della nuova Costituzione contiene importanti affermazioni: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Ma il dopoguerra in Italia non è segnato solo dalla conquista di una nuova libertà politica o dall’euforia della Liberazione. Come spiega lo storico Giordano Bruno Guerri: “Il dopoguerra fu un periodo di grossissima difficoltà politica perché dopo venti anni che la politica non c’era più o meglio che era guidata dall’alto, si cominciò a discutere di destra, sinistra, centro; l’Italia aveva problemi economici enormi, c’era disoccupazione, molta violenza, i contadini del Sud erano stanchi della miseria”.Ormai, il cammino delle donne è segnato: vogliono decidere da sole il proprio destino e non vogliono essere più solo mogli e madri. Molti sono i segnali di cambiamento che nei tardi anni Quaranta e negli anni Cinquanta il cinema intuisce e fa propri. Continua lo storico Giordano Bruno Guerri: “ E’ l’Italia che ha paura della modernità, gli americani avevano portato anche abitudini più libere… E le italiane diventarono incredibilmente libere”. Gli strati più retrivi della popolazione si mobilitano insieme alla Chiesa, ai partiti, alle famiglie. Che la donna debba essere prima di tutto moglie e madre lo afferma papa Pio XII, il papa che indica nella Sacra Famiglia un modello di santità per la famiglia italiana. E non è frutto del caso che in quel periodo la cantante Maria Callas sia venuta in Italia grazie all’incontro con Giovanni Zenatello (direttore artistico dell’Arena di Verona) e avesse cantato Casta Diva, il “cantabile” della protagonista della Norma di Bellini, il cui messaggio era che “tanti grilli per la testa” fanno male alle fanciulle. Le donne devono essere mogli e madri, vergini e pure; lo affermano anche e soprattutto gli uomini, di ogni ceto sociale. Si arriva addirittura a sostenere che la donna è biologicamente “inferiore”. Sostiene Gianni Bellomo, ginecologo: “ L’organismo della donna è molto più sensibile, molto più fragile- La donna è effettivamente più vulnerabile”. Nel 1954 nasce la Rai Radiotelevisione italiana, e cambia le abitudini e il modo di pensare delle famiglie italiane. La Televisione applica un rigido codice di censura: impedisce che si trasmetta la canzone Meravigliose labbra di Miranda Martini ma trasmette le melodiche canzoni di Mina. Gli anni Cinquanta sono gli anni del miracolo economico che tuttavia coinvolge solo una parte, privilegiata, della popolazione. Le “altre donne” lavorano doppiamente, a casa e nelle fabbriche, nei campi, a volte negli uffici. Le donne del Sud, in particolare, sono braccianti, mondine: la loro giornata di lavoro dura dalle 13 alle 15 ore al giorno. Il loro lavoro, massacrante, non serve solo a mantenere la loro numerosa famiglia ma finisce spesso per procurare aborti e assicurare così un primitivo e cruento controllo delle nascite. Ma nessuno sembra accorgersi del “secondo sesso”. Spiega Ferrarotti:” Il doppio ruolo è particolarmente pesante nei paesi “familistici”, nella cultura mediterranea dove i servizi sociali pubblici sono deboli e invece la famiglia è forte” Al fine di tutelare la donna che lavora e lottare per l’emancipazione femminile nascono nel dopoguerra alcune associazioni fra cui l’UDI, l’ Unione Donne Italiane, fondata a Roma nel 1944 ma costituitasi il 1 ottobre del 1945 su impulso del Partito comunista italiano. Queste donne rivendicano pace e lavoro, raccolgono scatole di latte per gli orfani della guerra in Corea, sono solidali con le operaie licenziate. Negli anni del rapporto Kruscev, che denuncia i crimini dello stalinismo, l’UDI chiede pensioni per le casalinghe, e trasporti per le lavoratrici- Chiede anche asili- nido perché rivendica una concezione nuova della maternità: è bene che i bambini imparino a crescere insieme e che non abbiano come unico punto di riferimento la loro famiglia. Negli anni Cinquanta e Sessanta le ragazze acquistano una nuova consapevolezza: il loro obiettivo è quello di vivere in modo diverso, più libero e autonomo, rispetto alle loro madri e alle loro nonne: “A quaranta anni le nostre madri erano considerate vecchie, per noi la vita sarà diversa”. Il motto delle ragazze degli anni Sessanta è quello di “fare tutto”, anche il capostazione o il pilota, mestieri solitamente appannaggio degli uomini. Questa nuova ambizione delle donne non viene ancora né capita, né condivisa dagli uomini. Spiega la regista Lina Wertmuller: “Non vi era negli usi l’idea della donna-regista; essa destava stupore. La regia era appannaggio degli uomini”. Ed è proprio per la regia della Wertmuller che nel 1964 la Rai manda in onda Il giornalino di Gianburrasca la cui protagonista è Rita Pavone, una ragazza carica di energia, di grazia e di simpatia. E’ il 20 febbraio 1958: per stare al passo con l’Europa e su sollecitazione dell’ONU passa in Parlamento, con 385 sì e 115 no, la legge della senatrice Angela Merlin, la legge che fa chiudere le case di tolleranza, dove le “signorine” erano sostanzialmente segregate, in regime di semilibertà, con vitto e alloggio garantito ma nessuna possibilità di decidere della loro esistenza e dei loro salari. Ciò che con questa legge in realtà veniva deciso era l’abolizione della regolamentazione della prostituzione in Italia. Ma nella legge Merlin era contenuta un’altra importante novità: la formazione del primo corpo di polizia femminile. Furono necessari nove anni perché la sua proposta di legge percorresse l’intero iter legislativo. La legge Merlin rappresentò un enorme passo in avanti sul terreno dell’emancipazione femminile anche se non eliminò il fenomeno della prostituzione. Nel 1965 un nuovo clamoroso caso di cronaca nera agita l’Italia. Sembra un miracolo: Francesca Viola, di 17 anni, viene rapita e violentata da un suo “corteggiatore”, Filippo Melodia. Quest’ultimo le propone, secondo la tradizione, un matrimonio riparatore ma Francesca rifiuta e trascina in tribunale Melodia che verrà condannato a 11 anni di prigionia. Un altro fondamentale passo in avanti è stato fatto; le donne cominciano a parlare, a denunciare, ad abbandonare pudori e vergogne, smettono di subire in silenzio la violenza. Nel 1968 i giovani, in quasi tutto il mondo occidentale, contesteranno la società in cui sono nati. E le donne? Esse ormai sanno che cosa vogliono: vogliono e vorranno soprattutto “essere donne”.
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… “Se la sua funzione di femmina non basta a definire la donna, se ci rifiutiamo anche di spiegarla con ‘l’eterno femminino’ … dobbiamo ben porci la domanda: che cos’è una donna?” (da Il secondo sesso di S. De Beauvoir). La questione femminile, che già ha una lunga storia, si manifesta negli anni Settanta come una rivelazione. Questo mondo è tutto declinato al maschile e per le donne sembra non esserci posto, non esserci ruolo. Lo aveva già detto, una delle prime, Simone de Beauvoir, insieme a Jean-Paul Sartre la più importante protagonista dell’esistenzialismo francese. Nel suo lungo saggio, Il secondo sesso, datato 1949, la scrittrice metterà al centro della sua riflessione la condizione della donna nella società, e il libro passerà alla storia come la pietra miliare della storia del femminismo. I testi di storia del XIX secolo, influenzati dal positivismo, vedevano la storia come un continuo progresso, come un’evoluzione che non poteva non andare verso il meglio; una catena ininterrotta di eventi che avrebbero condotto la società verso il benessere, le conquiste sociali e civili, l’equità, la giustizia. Ma la storia ben presto dimostrò che le cose non andavano esattamente in questo modo, si capì che essa non equivaleva necessariamente al progresso. Meglio considerarla, allora, una sequela di fatti degni di memoria; ma i fatti non sono sempre chiari, la storia spesso si complica e fatica a essere letta.Siamo negli anni Settanta del ventesimo secolo e le femministe scendono in piazza per la prima volta separatamente dagli uomini. E’ l’8 marzo del 1972, la giornata internazionale della donna, e la manifestazione si svolge nella celebre Campo De’ Fiori di Roma, la piazza che ha visto il filosofo Giordano Bruno bruciato vivo per eresia dalla Chiesa dell’Inquisizione. Le donne sono quasi ventimila e appartengono a tutti gli strati sociali, a tutte le generazioni; sono accomunate dal desiderio di cambiamento, dall’esigenza di essere se stesse. Vogliono contare, non vogliono essere solo mogli e madri, vogliono addirittura la proprietà del proprio corpo, considerano il matrimonio “prostituzione legalizzata”. Ai lati della piazza vi è una massiccia presenza della polizia, che ben presto carica duramente le manifestanti e riesce a sgombrare la piazza. L’anno successivo il movimento femminista tace: ma ciò che voleva dire l’aveva detto e quella manifestazione sancirà una tappa fondamentale della storia del femminismo. Intanto, il 2 giugno del 1976, la repubblica compie trent’anni; se i tempi duri del dopoguerra sono lontani, sono invece alle porte quelli che allora e dopo saranno definiti gli anni di piombo. Ma dovrà passare ancora qualche anno. Intanto, gli italiani godono del posto di lavoro garantito, di una diffusa libertà, del benessere economico. Gli ultimi anni Settanta sono quelli catterizzati dall’esplosione del fenomeno del terrorismo nero e rosso, che insanguina tutta l’Italia,gli anni di piombo, appunto. Qual è il ruolo delle donne in quel periodo storico? Quale il loro rapporto con la politica? Spiega il sociologo Franco Ferrarotti: “ Negli anni di piombo diventa più importante la possibilità di sognare e non bastano più pane e lavoro, ci vogliono pane e rose… Proprio negli stadi più avanzati della società emergono bisogni spirituali profondi, bisogni dell’immaginario, bisogni di vivere pienamente”. Il desiderio di una società diversa, di un cambiamento radicale dei modi di vita attraversa i primi anni Settanta. Alle donne non basta più essere uguali agli uomini. Esse affermano in modo lapidario: “La psicoanalisi ci ha tradite, la Chiesa ci ha chiamato sesso, la civiltà ci ha definito inferiori, il marxismo ci ha vendute alla rivoluzione ipotetica”. Si formano i primi collettivi femministi, basati su quell’autocoscienza che veniva già praticata da tempo negli Stati Uniti e che in Italia durò circa un decennio (dai primi anni Settanta fino al 1980), in cui le donne mettevano in comune le loro esperienze private, la loro rabbia, il desiderio di essere se stesse “in quanto donne”. Gli incontri avvenivano nelle ore serali, sembravano quasi clandestini e gli uomini non venivano ammessi. E’ il periodo della “separazione” dagli uomini, un fenomeno di forte impatto simbolico e di cui si sarebbe a lungo discusso. In questi collettivi si parla molto del corpo, dell’aborto, della violenza fisica e psicologica che spesso le donne subiscono o hanno storicamente subito. Spiega ancora Ferrarotti: “ Il movimento femminista vuol far capire che il potere non può più essere gestito solo da una parte dell’umanità: chi non accetta questa parità oggi non ha diritto di cittadinanza. Le donne rifiutano tutto, i partiti, la Chiesa, la storia precedente.” Perché, affermano, alla storia non hanno partecipato. Ma chi sono, allora, queste donne ignorate dalla storia?Facciamo un passo indietro. La seconda guerra mondiale è finita, le elezioni del 2 giugno 1946 chiamano gli italiani a scegliere tra la monarchia e la repubblica e sanciscono per l’Italia stremata l’inizio di un nuovo emozionante periodo storico, ricco di fermenti e di speranze. Le donne italiane votano per la prima volta il 2 giugno; è giunto il momento della scelta individuale, un momento di forte affermazione dei loro diritti. Se, in generale, l’emancipazione femminile si rivelerà un lungo processo ricco di battute d’arresto, tuttavia i leader politici dei più importanti partiti italiani, Palmiro Togliatti e Alcide de Gasperi, a capo rispettivamente del PCI e della DC capiscono l’importanza della presenza femminile nella società. Presenza che aveva segnato anche la Resistenza italiana del 1943 contro i nazi-fascisti: le donne avevano impugnato i fucili senza esitare, avevano curato i soldati, e sostituito nelle fabbriche i mariti che erano al fronte.Qualche cosa, comunque sta cambiando: dei 365 deputati che scrivono la Costituzione 21 sono donne. E l’articolo 3 della nuova Costituzione contiene importanti affermazioni: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Ma il dopoguerra in Italia non è segnato solo dalla conquista di una nuova libertà politica o dall’euforia della Liberazione. Come spiega lo storico Giordano Bruno Guerri: “Il dopoguerra fu un periodo di grossissima difficoltà politica perché dopo venti anni che la politica non c’era più o meglio che era guidata dall’alto, si cominciò a discutere di destra, sinistra, centro; l’Italia aveva problemi economici enormi, c’era disoccupazione, molta violenza, i contadini del Sud erano stanchi della miseria”.Ormai, il cammino delle donne è segnato: vogliono decidere da sole il proprio destino e non vogliono essere più solo mogli e madri. Molti sono i segnali di cambiamento che nei tardi anni Quaranta e negli anni Cinquanta il cinema intuisce e fa propri. Continua lo storico Giordano Bruno Guerri: “ E’ l’Italia che ha paura della modernità, gli americani avevano portato anche abitudini più libere… E le italiane diventarono incredibilmente libere”. Gli strati più retrivi della popolazione si mobilitano insieme alla Chiesa, ai partiti, alle famiglie. Che la donna debba essere prima di tutto moglie e madre lo afferma papa Pio XII, il papa che indica nella Sacra Famiglia un modello di santità per la famiglia italiana. E non è frutto del caso che in quel periodo la cantante Maria Callas sia venuta in Italia grazie all’incontro con Giovanni Zenatello (direttore artistico dell’Arena di Verona) e avesse cantato Casta Diva, il “cantabile” della protagonista della Norma di Bellini, il cui messaggio era che “tanti grilli per la testa” fanno male alle fanciulle. Le donne devono essere mogli e madri, vergini e pure; lo affermano anche e soprattutto gli uomini, di ogni ceto sociale. Si arriva addirittura a sostenere che la donna è biologicamente “inferiore”. Sostiene Gianni Bellomo, ginecologo: “ L’organismo della donna è molto più sensibile, molto più fragile- La donna è effettivamente più vulnerabile”. Nel 1954 nasce la Rai Radiotelevisione italiana, e cambia le abitudini e il modo di pensare delle famiglie italiane. La Televisione applica un rigido codice di censura: impedisce che si trasmetta la canzone Meravigliose labbra di Miranda Martini ma trasmette le melodiche canzoni di Mina. Gli anni Cinquanta sono gli anni del miracolo economico che tuttavia coinvolge solo una parte, privilegiata, della popolazione. Le “altre donne” lavorano doppiamente, a casa e nelle fabbriche, nei campi, a volte negli uffici. Le donne del Sud, in particolare, sono braccianti, mondine: la loro giornata di lavoro dura dalle 13 alle 15 ore al giorno. Il loro lavoro, massacrante, non serve solo a mantenere la loro numerosa famiglia ma finisce spesso per procurare aborti e assicurare così un primitivo e cruento controllo delle nascite. Ma nessuno sembra accorgersi del “secondo sesso”. Spiega Ferrarotti:” Il doppio ruolo è particolarmente pesante nei paesi “familistici”, nella cultura mediterranea dove i servizi sociali pubblici sono deboli e invece la famiglia è forte” Al fine di tutelare la donna che lavora e lottare per l’emancipazione femminile nascono nel dopoguerra alcune associazioni fra cui l’UDI, l’ Unione Donne Italiane, fondata a Roma nel 1944 ma costituitasi il 1 ottobre del 1945 su impulso del Partito comunista italiano. Queste donne rivendicano pace e lavoro, raccolgono scatole di latte per gli orfani della guerra in Corea, sono solidali con le operaie licenziate. Negli anni del rapporto Kruscev, che denuncia i crimini dello stalinismo, l’UDI chiede pensioni per le casalinghe, e trasporti per le lavoratrici- Chiede anche asili- nido perché rivendica una concezione nuova della maternità: è bene che i bambini imparino a crescere insieme e che non abbiano come unico punto di riferimento la loro famiglia. Negli anni Cinquanta e Sessanta le ragazze acquistano una nuova consapevolezza: il loro obiettivo è quello di vivere in modo diverso, più libero e autonomo, rispetto alle loro madri e alle loro nonne: “A quaranta anni le nostre madri erano considerate vecchie, per noi la vita sarà diversa”. Il motto delle ragazze degli anni Sessanta è quello di “fare tutto”, anche il capostazione o il pilota, mestieri solitamente appannaggio degli uomini. Questa nuova ambizione delle donne non viene ancora né capita, né condivisa dagli uomini. Spiega la regista Lina Wertmuller: “Non vi era negli usi l’idea della donna-regista; essa destava stupore. La regia era appannaggio degli uomini”. Ed è proprio per la regia della Wertmuller che nel 1964 la Rai manda in onda Il giornalino di Gianburrasca la cui protagonista è Rita Pavone, una ragazza carica di energia, di grazia e di simpatia. E’ il 20 febbraio 1958: per stare al passo con l’Europa e su sollecitazione dell’ONU passa in Parlamento, con 385 sì e 115 no, la legge della senatrice Angela Merlin, la legge che fa chiudere le case di tolleranza, dove le “signorine” erano sostanzialmente segregate, in regime di semilibertà, con vitto e alloggio garantito ma nessuna possibilità di decidere della loro esistenza e dei loro salari. Ciò che con questa legge in realtà veniva deciso era l’abolizione della regolamentazione della prostituzione in Italia. Ma nella legge Merlin era contenuta un’altra importante novità: la formazione del primo corpo di polizia femminile. Furono necessari nove anni perché la sua proposta di legge percorresse l’intero iter legislativo. La legge Merlin rappresentò un enorme passo in avanti sul terreno dell’emancipazione femminile anche se non eliminò il fenomeno della prostituzione. Nel 1965 un nuovo clamoroso caso di cronaca nera agita l’Italia. Sembra un miracolo: Francesca Viola, di 17 anni, viene rapita e violentata da un suo “corteggiatore”, Filippo Melodia. Quest’ultimo le propone, secondo la tradizione, un matrimonio riparatore ma Francesca rifiuta e trascina in tribunale Melodia che verrà condannato a 11 anni di prigionia. Un altro fondamentale passo in avanti è stato fatto; le donne cominciano a parlare, a denunciare, ad abbandonare pudori e vergogne, smettono di subire in silenzio la violenza. Nel 1968 i giovani, in quasi tutto il mondo occidentale, contesteranno la società in cui sono nati. E le donne? Esse ormai sanno che cosa vogliono: vogliono e vorranno soprattutto “essere donne”.
Per capire la storia, bisogna sprofondare nel passato, nella memoria, anche quando nel passato non riusciamo a intravedere il futuro, anche quando i fatti non sembrano intessuti da una stessa mano e non sembrano andare verso un’unica direzione.Siamo nel 1990: esce il film Thelma e Louise , la storia di due donne con cui identificarsi è facile perché, nella sostanza, esse rappresentano tutte le donne. Le protagoniste sono due ragazze della provincia americana, due amiche che decidono di partire per qualche giorno e lasciarsi alle spalle i mariti possessivi e una vita che non le soddisfa. Per la prima volta Thelma e Louise rifiutano ciò che quotidianamente vivono, per la prima volta decidono, almeno per un periodo, di non accontentarsi di ciò che hanno. Ma subito la loro vacanza si trasforma in un dramma: Louise uccide un uomo che tenta di abusare di Thelma. Le due donne si danno alla fuga convinte che nessuno le avrebbe aiutate, che sarebbero anzi state incolpate, proprio come in colpa sono, agli occhi della società, tutte le donne che subiscono violenze. La loro, allora, oltre a essere una fuga reale, diventa una fuga simbolica, la fuga da una società maschile e maschilista, addirittura da un mondo che non comprendono e da cui non si sentono comprese. Ma la storia di queste due donne faceva da cornice e forse costituiva il compimento di una storia cominciata due decenni prima.
Negli anni Settanta le donne, nelle società a capitalismo avanzato, hanno, dopo lunghe lotte, conquistato il diritto allo studio e il diritto al lavoro. Ma, attraverso il movimento femminista, attraverso la pratica dell’autocoscienza, al centro della loro riflessione sta la diversità del pensiero femminile, un modo diverso delle donne di considerare il proprio corpo, la propria sessualità, i rapporti familiari, quelli con le loro madri. La loro lotta è su tanti fronti: la politica, tradizionalmente intesa, il sindacato, le associazioni. Le loro parole d’ordine risuonano ormai come slogan in tutte le piazze in cui sono presenti: “Donna è bello, donna non si nasce, si diventa”.Le donne ormai sembrano aver fatto propria una sottile inquietudine, un’impalpabile angoscia: non si sentono comprese e capite a sufficienza, vivono ancora situazioni familiari tradizionali che riproducono quelle vissute con il padre e la madre, non riescono a vivere pienamente la propria sessualità, forse neppure a comprenderla. Racconta Lea Melandri, storica: “Non è un caso che le donne si riuniscano nelle case, potrebbe apparire come una regressione, un passo indietro nel loro percorso di emancipazione ma in realtà esse toccano temi che sono sempre stati considerati marginali, temi non politici”.Ma allora che cosa vuole esattamente questo nuovo movimento delle donne, quello che ai mariti e alla Chiesa aveva dimostrato negli anni Sessanta che le donne sapevano essere qualcosa di più che mogli e madri? L’Italia degli anni Sessanta offriva opportunità agli uomini ma anche alle donne, faceva sognare un futuro da fantascienza, un illimitato benessere. Ma a guardare più in profondità, e facendo un passo indietro, a cominciare dal secondo dopoguerra, l’Unione Donne Italiane (legata al PCI) aveva capito che bisognava aiutare le donne a riorganizzarsi, insegnar loro la quotidiana attività casalinga, la cura dei figli; e ancora, procurare pensioni alle casalinghe, assicurare alle donne il diritto allo studio e al lavoro. Negli anni Sessanta e Settanta, però, le donne hanno conquistato tutto questo: e allora? Spiega Maria Luisa Boccia, filosofa: “ Io sono “nata emancipata” l’emancipazione femminile era ormai naturale, era una conquista storica ormai acquisita… A questo punto che significato aveva essere donna? Essere donna sembrava non contare nulla oppure contare in una dimensione privata, ristretta fra le mura domestiche, una dimensione, peraltro, tutt’altro che semplice. …Se le donne sono uguali agli uomini, che cosa significa, allora, essere donna”?L’immagine della donna, negli anni che precedettero la contestazione del 1968, variava in modo considerevole fra Nord e Sud della penisola, fra strati sociali agiati e ceti disagiati. Fu Pier Paolo Pasolini, intellettuale, regista, poeta a intercettare, attraverso una serie di interviste, il “senso comune” di allora, in particolare nell’Italia meridionale. Chiede Pasolini a un passante: “ Che cos’è l’onore sessuale?”Ecco la risposta: “Secondo me la donna è evangelica, angelicata, proprio come la intendeva Dante”. Anche dal punto di vista del diritto familiare, il divario fra i due sessi rimaneva enorme se è vero che un uomo poteva chiedere l’annullamento del matrimonio in caso di sterilità della moglie mentre di un marito impotente si diceva che “non ne aveva colpa”. Spiega il sociologo Franco Ferrarotti: “Fino a tempi recenti il diritto familiare prevedeva che il marito fosse capo unico della casa e, se lo riteneva giusto, poteva anche somministrare qualche ceffone alla moglie”. Secondo la giornalista Liliana Madeo l’Italia “era ancora un paese molto sessuofobo, molto discriminatorio fra uomo e donna”. Insomma, sembra proprio che in questa società le donne rimangano il Secondo sesso, come sostiene Simone de Beauvoir, la più importante esponente dell’esistenzialismo francese. “Forse l’obiettivo della donna non è più quello di integrarsi negli assetti sociali esistenti, sostiene nel 1966 il Demau, il primo collettivo femminista italiano. Iniziano ad arrivare in Italia i primi libri delle femministe americane e nell’aria si diffonde quel problema che non ha nome, quel problema che la giornalista Betty Freedan ha per prima messo in rilievo: le donne americane, anche quelle più privilegiate, rinchiuse nelle loro belle case, nelle loro gabbie dorate, si sentono incomplete, deluse, ingannate, nonostante le conquiste fatte. In realtà il malessere è insieme più profondo e più diffuso, è il malessere che sfocerà nella contestazione del 1968, un disagio che i governi non riusciranno a contenere.Il “movimento” sarà irriverente, provocatorio, chiederà una cultura nuova per una realtà che dovrà essere diversa. A Berkeley, a Parigi, in Italia, i giovani vorranno “ribaltare tutto”, lottare contro le guerre ingiuste; si ribelleranno contro l’autoritarismo nelle istituzioni e nella famiglia, rifiuteranno la ricchezza ottenuta a spese dei paesi poveri o degli operai alienati alla catena di montaggio, rifiuteranno ogni forma di repressione, a cominciare da quella sessuale; lotteranno per una società senza più tabù né pregiudizi. Insieme agli studenti, a lottare ci sono anche le studentesse che rifiutano i loro padri e le loro madri, accusate di aver dato troppo alla famiglia e di aver ottenuto molto poco. Le donne, già molto diverse dalle loro madri, in verità, nella rivoluzione degli studenti, hanno mansioni subalterne. Continua Franco Ferrarotti : “Nel nostro paese, tradizionalmente, c’è la Madre, poi c’è la Maddalena. Purtroppo la cultura mediterranea, ma non solo quella, ha oscillato fra la Madonna purissima vergine e madre e la prostituta”. La trasformazione del ruolo della donna nell’ambito del “movimento” sembra avere esiti paradossali: la donna non ha più un solo “padrone” ma tanti e rabbia e delusione si fanno strada fra le studentesse. Ma insieme anche nuove idee e aspettative che nascono, in realtà, proprio in quegli anni. La funzione delle donne, la loro immagine, in quegli anni potrebbe essere considerata contraddittoria ma, come spiega Lea Meandri la realtà è più complessa: “ Credo che il contesto rappresentato dal movimento degli studenti nella scuola, ma non solo quello, insieme al movimento non autoritario abbia influito sulla nascita del femminismo nel senso che molte delle donne che facevano politica negli anni Settanta hanno cominciato a riunirsi in gruppi di sole donne e hanno avviato la pratica dell’autocoscienza; esse provenivano, quindi, proprio da quei movimenti e lottavano per la condivisione di un progetto rivoluzionario, per un cambiamento radicale, per una rivoluzione che parlava del qui ed ora, della vita quotidiana, dei rapporti rivoluzionari; ma le donne hanno riscontrato subito che non era previsto un cambiamento dei ruoli sessuali. Le donne avevano la funzione di sempre”. E’ questo il momento in cui le donne dicono “basta”: senza cambiare i rapporti fra i due sessi dell’umanità non si può cambiare la società. Nasce allora il nuovo movimento per la liberazione delle donne; le femministe invadono le piazze, abbandonano i gruppi politici maschili, formano i nuovi collettivi femministi che rapidamente si moltiplicano in tutta Italia: a Trento, a Milano, a Roma, a Gela, a Napoli, e se all’inizio ammettono anche gli uomini, poi li escludono risolutamente. E’ anche quello il momento in cui nei collettivi femministi iniziano a parlare le donne; esse hanno finalmente centrato il problema: “Perché essere una donna fra donne non ha valore nella società in cui viviamo; una donna ha valore solo quando si relaziona a un uomo, come sorella di, come madre di, come compagna di, come moglie di.“’C’era qualcosa nell’emancipazione che non funzionava e questo qualcosa era legato alla costruzione dell’identità sessuale e della sessualità. Nel parlare di libertà sessuale si allude a un preciso modello di sessualità, si parla del dominio di un sesso sull’altro, del rapporto fra sessualità e maternità. “Esiste una sessualità femminile” continua Melandri, perché storicamente la donna è stata identificata con la madre, non è stata legittimata ad avere una propria sessualità e un proprio piacere; è sempre stata identificata con la procreazione. “Accetteremo forse di rimanere ai margini di ogni rivoluzione, con le donne sempre relegate ai margini della società ?” si chiede il manifesto Rivolta femminile della fiorentina Carla Lonzi. La risposta è no. Alla radice della rivolta oggi c’è la sessualità”. Essa è la sfera nella quale una differenza biologica e anatomica è stata trasformata dagli uomini in una differenza di ruoli sociali e familiari. Afferma ancora Ferrarotti “ Nessuno se lo sarebbe aspettato, si pensava che la donna potesse essere tutt’al più una casalinga, una massaia semianalfabeta. Il movimento femminista ha cominciato oggi a domandarsi che cosa fosse la sessualità femminile, dopo migliaia di anni di silenzio, in che cosa consistesse la sessualità femminile”. Il nuovo movimento ha iniziato a porsi questo problema proprio perché andava scoprendo che la sessualità non si limitava alla pura genitalità, ma consisteva in un insieme di rapporti con gli altri, con i figli, con la vita”. “Fin’ora il mito della complementarità è stato utilizzato dall’uomo per giustificare il proprio potere, scrive ancora Rivolta femminile. La dialettica servo-padrone è una regolazione di conti fra collettivi di uomini, non prevede la liberazione delle donne”. Proprio per questo le donne “ribaltano tutto” mentre gli uomini faticano persino a comprendere. La sfida estrema del femminismo degli anni Settanta è stata quella di pensare che si poteva partire dal punto più lontano dalla politica: il corpo, la sessualità, la vita intima, per rimettere in discussione tutto l’impianto della civiltà, tutte le sue istituzioni, tutti i suoi saperi. Afferma una militante dell’UDI: “ Il femminismo immette una novità, che è quella di partire da sé, di non vedere più le donne come una categoria, non le operaie, non le contadine, non le impiegate, non le madri:; tutto questo è in realtà “essere donna”. Anche a partire da quel conflitto che si comincia a nominare a praticare con il proprio compagno, marito, uomo”. Continua Liliana Madeo, giornalista: “ E’ stato un modo nuovo di fare politica, ed è stato anche non capito, molto osteggiato dagli uomini; gli uomini dei partiti davano importanza alla lotta di classe, all’organizzazione del lavoro e le consideravano prioritarie; le donne scoprono che quelle sono cose importantissime, ma che tuttavia esiste un altro filone di ricerca che le tocca internamente, che attraversa il loro vissuto.Ma fermiamoci un momento: siamo negli anni Settanta, anni durissimi per l’Italia, gli anni di piombo, e se la storia del femminismo può sembrare un’altra storia, una storia separata dagli scontri, dalle bombe, dagli attentati, dalla tensione usata dai neofascisti per attaccare la democrazia e poi dalla lotta armata delle Brigate rosse contro lo Stato mentre i governi per trovare una soluzione si avvitano su loro stessi, ed esplode anche la crisi energetica, i negozi chiudono e le strade la sera si fanno deserte, se, insomma, la storia delle donne può sembrare un’altra storia, non c’è nessuno, in quegli anni, che non provi una profonda angoscia, una continua paura.E poi, nel 1978, quando il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro ad opera delle BR segna quasi l’epilogo di quegli anni bui, esplode un caso che sembra la scena ultima della storia della liberazione delle donne. E’ il 1978, il mese di maggio. Nell’aula di un tribunale italiano si svolge un processo per stupro, ma forse è più corretto dire Il Processo per Stupro. Era uno dei primi processi in cui la vittima denunciava coloro che le avevano usato violenza. E questo accadeva perché la giustizia si muoveva solo allorquando la vittima denunciava gli stupratori: ma spesso, occorre dirlo, una ragazza violentata non andava dalla polizia. Per vergogna, per pudore, per paura. Perché, ancora, la violenza sessuale veniva considerata una violenza contro la dignità personale e non contro la persona e quindi i processi di questo tipo si facevano estremamente complessi.In aula era presente anche la RAI che nel 1979 trasmise il processo in televisione. Spiega Tina Lagostena Bassi, avvocato della vittima: “Ricordo che la gente era sconvolta, perché nessuno immaginava realmente quello che avveniva dentro un’aula giudiziaria dove la giustizia era violenta quanto gli stupratori”. Risuonavano le parole dell’ accusa: “ Vi siete messa voi in questa situazione, se questa ragazza fosse stata a casa non le sarebbe accaduto nulla”. Molte cose stavano cambiando ma in materia di violenza sulle donne la realta’era ancora molto arretrata e maschilista.Che cosa, allora, stava veramente cambiando? Il referendum sul divorzio del 1974, che segnò l’approvazione della legge sul divorzio, rappresentò una svolta di enorme portata per una società fin ad allora dominata dal cattolicesimo. La riforma del diritto di famiglia del 1975 asseriva che i coniugi hanno diritti e responsabilità uguali di fronte alla legge. Nel 1978 raggiunsero il culmine le manifestazioni delle donne che chiedevano una legge che rendesse l’aborto libero e gratuito, che permettesse alle donne di accedere a strutture pubbliche o a ospedali, manifestazioni che esprimevano la voglia delle donne di decidere da sole della propria vita e della stessa maternità. L’approvazione della legge sull’aborto (legge 194) segnò un momento difficile nei rapporti fra il movimento femminista e il PCI. Spiega ancora Nuzzo, militante dell’UDI.” La vera rottura con la sinistra e con il PCI è avvenuta con quella che si chiamava allora la doppia militanza, la rottura con il PCI è avvenuta con la 194 perché il PCI non era favorevole all’autodeterminazione della donna. Avrebbe voluto una commissione di medici che valutasse se la donna avesse diritto o no ad abortire. Su questo punto si creò un conflitto molto forte e l’UDI prese una posizione netta in favore dell’autodeterminazione”. Finiva così l’epoca dei cosiddetti “cucchiai d’oro” (i ginecologi che facevano abortire le donne clandestinamente chiedendo lauti compensi) e cominciarono a nascere i primi consultori, in cui le donne si confrontavano apertamente con il ginecologo e venivano aiutate nella loro dolorosa scelta.Facciamo un altro passo indietro: è il settembre del 1975 quando ha luogo quello che da allora venne chiamato il massacro del Circeo, quando due ragazze, Rosaria Lopez e Donatella Colasanti vengono violentate e massacrate di botte da tre ragazzi della “Roma bene”. La Lopez muore, Donatella Colasanti sopravvive e denuncia gli stupratori. Il massacro del Circeo fu forse il primo fenomeno mass-mediatico, il primo momento di enorme impatto sull’opinione pubblica.Ma le donne ormai non sono più sole. Fra infinite contraddizioni, stanno diventando anch’esse protagoniste della storia. E questo processo si rivelerà senza ritorno. (dal sito web http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=466)
Negli anni Settanta le donne, nelle società a capitalismo avanzato, hanno, dopo lunghe lotte, conquistato il diritto allo studio e il diritto al lavoro. Ma, attraverso il movimento femminista, attraverso la pratica dell’autocoscienza, al centro della loro riflessione sta la diversità del pensiero femminile, un modo diverso delle donne di considerare il proprio corpo, la propria sessualità, i rapporti familiari, quelli con le loro madri. La loro lotta è su tanti fronti: la politica, tradizionalmente intesa, il sindacato, le associazioni. Le loro parole d’ordine risuonano ormai come slogan in tutte le piazze in cui sono presenti: “Donna è bello, donna non si nasce, si diventa”.Le donne ormai sembrano aver fatto propria una sottile inquietudine, un’impalpabile angoscia: non si sentono comprese e capite a sufficienza, vivono ancora situazioni familiari tradizionali che riproducono quelle vissute con il padre e la madre, non riescono a vivere pienamente la propria sessualità, forse neppure a comprenderla. Racconta Lea Melandri, storica: “Non è un caso che le donne si riuniscano nelle case, potrebbe apparire come una regressione, un passo indietro nel loro percorso di emancipazione ma in realtà esse toccano temi che sono sempre stati considerati marginali, temi non politici”.Ma allora che cosa vuole esattamente questo nuovo movimento delle donne, quello che ai mariti e alla Chiesa aveva dimostrato negli anni Sessanta che le donne sapevano essere qualcosa di più che mogli e madri? L’Italia degli anni Sessanta offriva opportunità agli uomini ma anche alle donne, faceva sognare un futuro da fantascienza, un illimitato benessere. Ma a guardare più in profondità, e facendo un passo indietro, a cominciare dal secondo dopoguerra, l’Unione Donne Italiane (legata al PCI) aveva capito che bisognava aiutare le donne a riorganizzarsi, insegnar loro la quotidiana attività casalinga, la cura dei figli; e ancora, procurare pensioni alle casalinghe, assicurare alle donne il diritto allo studio e al lavoro. Negli anni Sessanta e Settanta, però, le donne hanno conquistato tutto questo: e allora? Spiega Maria Luisa Boccia, filosofa: “ Io sono “nata emancipata” l’emancipazione femminile era ormai naturale, era una conquista storica ormai acquisita… A questo punto che significato aveva essere donna? Essere donna sembrava non contare nulla oppure contare in una dimensione privata, ristretta fra le mura domestiche, una dimensione, peraltro, tutt’altro che semplice. …Se le donne sono uguali agli uomini, che cosa significa, allora, essere donna”?L’immagine della donna, negli anni che precedettero la contestazione del 1968, variava in modo considerevole fra Nord e Sud della penisola, fra strati sociali agiati e ceti disagiati. Fu Pier Paolo Pasolini, intellettuale, regista, poeta a intercettare, attraverso una serie di interviste, il “senso comune” di allora, in particolare nell’Italia meridionale. Chiede Pasolini a un passante: “ Che cos’è l’onore sessuale?”Ecco la risposta: “Secondo me la donna è evangelica, angelicata, proprio come la intendeva Dante”. Anche dal punto di vista del diritto familiare, il divario fra i due sessi rimaneva enorme se è vero che un uomo poteva chiedere l’annullamento del matrimonio in caso di sterilità della moglie mentre di un marito impotente si diceva che “non ne aveva colpa”. Spiega il sociologo Franco Ferrarotti: “Fino a tempi recenti il diritto familiare prevedeva che il marito fosse capo unico della casa e, se lo riteneva giusto, poteva anche somministrare qualche ceffone alla moglie”. Secondo la giornalista Liliana Madeo l’Italia “era ancora un paese molto sessuofobo, molto discriminatorio fra uomo e donna”. Insomma, sembra proprio che in questa società le donne rimangano il Secondo sesso, come sostiene Simone de Beauvoir, la più importante esponente dell’esistenzialismo francese. “Forse l’obiettivo della donna non è più quello di integrarsi negli assetti sociali esistenti, sostiene nel 1966 il Demau, il primo collettivo femminista italiano. Iniziano ad arrivare in Italia i primi libri delle femministe americane e nell’aria si diffonde quel problema che non ha nome, quel problema che la giornalista Betty Freedan ha per prima messo in rilievo: le donne americane, anche quelle più privilegiate, rinchiuse nelle loro belle case, nelle loro gabbie dorate, si sentono incomplete, deluse, ingannate, nonostante le conquiste fatte. In realtà il malessere è insieme più profondo e più diffuso, è il malessere che sfocerà nella contestazione del 1968, un disagio che i governi non riusciranno a contenere.Il “movimento” sarà irriverente, provocatorio, chiederà una cultura nuova per una realtà che dovrà essere diversa. A Berkeley, a Parigi, in Italia, i giovani vorranno “ribaltare tutto”, lottare contro le guerre ingiuste; si ribelleranno contro l’autoritarismo nelle istituzioni e nella famiglia, rifiuteranno la ricchezza ottenuta a spese dei paesi poveri o degli operai alienati alla catena di montaggio, rifiuteranno ogni forma di repressione, a cominciare da quella sessuale; lotteranno per una società senza più tabù né pregiudizi. Insieme agli studenti, a lottare ci sono anche le studentesse che rifiutano i loro padri e le loro madri, accusate di aver dato troppo alla famiglia e di aver ottenuto molto poco. Le donne, già molto diverse dalle loro madri, in verità, nella rivoluzione degli studenti, hanno mansioni subalterne. Continua Franco Ferrarotti : “Nel nostro paese, tradizionalmente, c’è la Madre, poi c’è la Maddalena. Purtroppo la cultura mediterranea, ma non solo quella, ha oscillato fra la Madonna purissima vergine e madre e la prostituta”. La trasformazione del ruolo della donna nell’ambito del “movimento” sembra avere esiti paradossali: la donna non ha più un solo “padrone” ma tanti e rabbia e delusione si fanno strada fra le studentesse. Ma insieme anche nuove idee e aspettative che nascono, in realtà, proprio in quegli anni. La funzione delle donne, la loro immagine, in quegli anni potrebbe essere considerata contraddittoria ma, come spiega Lea Meandri la realtà è più complessa: “ Credo che il contesto rappresentato dal movimento degli studenti nella scuola, ma non solo quello, insieme al movimento non autoritario abbia influito sulla nascita del femminismo nel senso che molte delle donne che facevano politica negli anni Settanta hanno cominciato a riunirsi in gruppi di sole donne e hanno avviato la pratica dell’autocoscienza; esse provenivano, quindi, proprio da quei movimenti e lottavano per la condivisione di un progetto rivoluzionario, per un cambiamento radicale, per una rivoluzione che parlava del qui ed ora, della vita quotidiana, dei rapporti rivoluzionari; ma le donne hanno riscontrato subito che non era previsto un cambiamento dei ruoli sessuali. Le donne avevano la funzione di sempre”. E’ questo il momento in cui le donne dicono “basta”: senza cambiare i rapporti fra i due sessi dell’umanità non si può cambiare la società. Nasce allora il nuovo movimento per la liberazione delle donne; le femministe invadono le piazze, abbandonano i gruppi politici maschili, formano i nuovi collettivi femministi che rapidamente si moltiplicano in tutta Italia: a Trento, a Milano, a Roma, a Gela, a Napoli, e se all’inizio ammettono anche gli uomini, poi li escludono risolutamente. E’ anche quello il momento in cui nei collettivi femministi iniziano a parlare le donne; esse hanno finalmente centrato il problema: “Perché essere una donna fra donne non ha valore nella società in cui viviamo; una donna ha valore solo quando si relaziona a un uomo, come sorella di, come madre di, come compagna di, come moglie di.“’C’era qualcosa nell’emancipazione che non funzionava e questo qualcosa era legato alla costruzione dell’identità sessuale e della sessualità. Nel parlare di libertà sessuale si allude a un preciso modello di sessualità, si parla del dominio di un sesso sull’altro, del rapporto fra sessualità e maternità. “Esiste una sessualità femminile” continua Melandri, perché storicamente la donna è stata identificata con la madre, non è stata legittimata ad avere una propria sessualità e un proprio piacere; è sempre stata identificata con la procreazione. “Accetteremo forse di rimanere ai margini di ogni rivoluzione, con le donne sempre relegate ai margini della società ?” si chiede il manifesto Rivolta femminile della fiorentina Carla Lonzi. La risposta è no. Alla radice della rivolta oggi c’è la sessualità”. Essa è la sfera nella quale una differenza biologica e anatomica è stata trasformata dagli uomini in una differenza di ruoli sociali e familiari. Afferma ancora Ferrarotti “ Nessuno se lo sarebbe aspettato, si pensava che la donna potesse essere tutt’al più una casalinga, una massaia semianalfabeta. Il movimento femminista ha cominciato oggi a domandarsi che cosa fosse la sessualità femminile, dopo migliaia di anni di silenzio, in che cosa consistesse la sessualità femminile”. Il nuovo movimento ha iniziato a porsi questo problema proprio perché andava scoprendo che la sessualità non si limitava alla pura genitalità, ma consisteva in un insieme di rapporti con gli altri, con i figli, con la vita”. “Fin’ora il mito della complementarità è stato utilizzato dall’uomo per giustificare il proprio potere, scrive ancora Rivolta femminile. La dialettica servo-padrone è una regolazione di conti fra collettivi di uomini, non prevede la liberazione delle donne”. Proprio per questo le donne “ribaltano tutto” mentre gli uomini faticano persino a comprendere. La sfida estrema del femminismo degli anni Settanta è stata quella di pensare che si poteva partire dal punto più lontano dalla politica: il corpo, la sessualità, la vita intima, per rimettere in discussione tutto l’impianto della civiltà, tutte le sue istituzioni, tutti i suoi saperi. Afferma una militante dell’UDI: “ Il femminismo immette una novità, che è quella di partire da sé, di non vedere più le donne come una categoria, non le operaie, non le contadine, non le impiegate, non le madri:; tutto questo è in realtà “essere donna”. Anche a partire da quel conflitto che si comincia a nominare a praticare con il proprio compagno, marito, uomo”. Continua Liliana Madeo, giornalista: “ E’ stato un modo nuovo di fare politica, ed è stato anche non capito, molto osteggiato dagli uomini; gli uomini dei partiti davano importanza alla lotta di classe, all’organizzazione del lavoro e le consideravano prioritarie; le donne scoprono che quelle sono cose importantissime, ma che tuttavia esiste un altro filone di ricerca che le tocca internamente, che attraversa il loro vissuto.Ma fermiamoci un momento: siamo negli anni Settanta, anni durissimi per l’Italia, gli anni di piombo, e se la storia del femminismo può sembrare un’altra storia, una storia separata dagli scontri, dalle bombe, dagli attentati, dalla tensione usata dai neofascisti per attaccare la democrazia e poi dalla lotta armata delle Brigate rosse contro lo Stato mentre i governi per trovare una soluzione si avvitano su loro stessi, ed esplode anche la crisi energetica, i negozi chiudono e le strade la sera si fanno deserte, se, insomma, la storia delle donne può sembrare un’altra storia, non c’è nessuno, in quegli anni, che non provi una profonda angoscia, una continua paura.E poi, nel 1978, quando il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro ad opera delle BR segna quasi l’epilogo di quegli anni bui, esplode un caso che sembra la scena ultima della storia della liberazione delle donne. E’ il 1978, il mese di maggio. Nell’aula di un tribunale italiano si svolge un processo per stupro, ma forse è più corretto dire Il Processo per Stupro. Era uno dei primi processi in cui la vittima denunciava coloro che le avevano usato violenza. E questo accadeva perché la giustizia si muoveva solo allorquando la vittima denunciava gli stupratori: ma spesso, occorre dirlo, una ragazza violentata non andava dalla polizia. Per vergogna, per pudore, per paura. Perché, ancora, la violenza sessuale veniva considerata una violenza contro la dignità personale e non contro la persona e quindi i processi di questo tipo si facevano estremamente complessi.In aula era presente anche la RAI che nel 1979 trasmise il processo in televisione. Spiega Tina Lagostena Bassi, avvocato della vittima: “Ricordo che la gente era sconvolta, perché nessuno immaginava realmente quello che avveniva dentro un’aula giudiziaria dove la giustizia era violenta quanto gli stupratori”. Risuonavano le parole dell’ accusa: “ Vi siete messa voi in questa situazione, se questa ragazza fosse stata a casa non le sarebbe accaduto nulla”. Molte cose stavano cambiando ma in materia di violenza sulle donne la realta’era ancora molto arretrata e maschilista.Che cosa, allora, stava veramente cambiando? Il referendum sul divorzio del 1974, che segnò l’approvazione della legge sul divorzio, rappresentò una svolta di enorme portata per una società fin ad allora dominata dal cattolicesimo. La riforma del diritto di famiglia del 1975 asseriva che i coniugi hanno diritti e responsabilità uguali di fronte alla legge. Nel 1978 raggiunsero il culmine le manifestazioni delle donne che chiedevano una legge che rendesse l’aborto libero e gratuito, che permettesse alle donne di accedere a strutture pubbliche o a ospedali, manifestazioni che esprimevano la voglia delle donne di decidere da sole della propria vita e della stessa maternità. L’approvazione della legge sull’aborto (legge 194) segnò un momento difficile nei rapporti fra il movimento femminista e il PCI. Spiega ancora Nuzzo, militante dell’UDI.” La vera rottura con la sinistra e con il PCI è avvenuta con quella che si chiamava allora la doppia militanza, la rottura con il PCI è avvenuta con la 194 perché il PCI non era favorevole all’autodeterminazione della donna. Avrebbe voluto una commissione di medici che valutasse se la donna avesse diritto o no ad abortire. Su questo punto si creò un conflitto molto forte e l’UDI prese una posizione netta in favore dell’autodeterminazione”. Finiva così l’epoca dei cosiddetti “cucchiai d’oro” (i ginecologi che facevano abortire le donne clandestinamente chiedendo lauti compensi) e cominciarono a nascere i primi consultori, in cui le donne si confrontavano apertamente con il ginecologo e venivano aiutate nella loro dolorosa scelta.Facciamo un altro passo indietro: è il settembre del 1975 quando ha luogo quello che da allora venne chiamato il massacro del Circeo, quando due ragazze, Rosaria Lopez e Donatella Colasanti vengono violentate e massacrate di botte da tre ragazzi della “Roma bene”. La Lopez muore, Donatella Colasanti sopravvive e denuncia gli stupratori. Il massacro del Circeo fu forse il primo fenomeno mass-mediatico, il primo momento di enorme impatto sull’opinione pubblica.Ma le donne ormai non sono più sole. Fra infinite contraddizioni, stanno diventando anch’esse protagoniste della storia. E questo processo si rivelerà senza ritorno. (dal sito web http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=466)
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