Guerra civile in Italia -
La RSI e la popolazione
Non posso omettere, a chiusura di questa breve e sommaria rassegna sul mio operato di ministro delle Forze Armate della Repubblica Sociale, di accennare alla istituzione dell'Ufficio Assistenza Distrettuale, che si rese altamente benemerito delle famiglie dei militari, senza alcuna distinzione di appartenenza al Sud o al Nord. Scopo della sua creazione fu di evitare che la disorganizzazione susseguita all'8 settembre si estendesse ai servizi dell'assistenza alle famiglie. Successivamente l'Ispettorato si trasformò in Ufficio centrale, alle dipendenze del Gabinetto del ministro. Esso aveva il controllo sulla sezione assistenziale degli enti militari periferici, e funzione di consulenza e patrocinio per le famiglie dei militari e militarizzati alle armi, presenti alle bandiere, dispersi, prigionieri, internati, o comunque già appartenenti alle forze armate regie; oltre che ai militari ricoverati in ospedali, in convalescenza ed in attesa di quiescenza. L'Ufficio centrale di assistenza, oltre a provvedere, per quanto concerneva le famiglie dei militari appartenenti alle forze armate repubblicane, curava altresì : di far aumentare, sino ad adeguarli al costo della vita in atto in quel momento, gli assegni spettanti alle famiglie dei militari deceduti o dichiarati irreperibili, quasi tutti delle forze armate regie; di far corrispondere gli assegni anche in base alla semplice corrispondenza privata, od a semplice testimonianza; di fare effettuare i pagamenti dagli uffici postali locali in base ad appositi ruoli, che assicuravano la continuità meccanica nei pagamenti, onde le famiglie predette poterono continuare a percepire regolarmente i loro assegni, anche nel periodo turbinoso della cessazione delle operazioni belliche, e nei mesi successivi. Gli ufficiali addetti all'Ufficio di assistenza e delle Delegazioni non sono stati, questa volta almeno, incriminati di collaborazionismo col nemico ai danni del popolo italiano e l'attività da loro svolta è stata apprezzata dal Ministero della Guerra attuale, che non sono stati ritenuti passabili d'altra pena che di semplice rimprovero. (da 'Una vita per l'Italia', pag.220-221)
E che dire di quei seicentomila soldati d'Italia che, ignari di quanto l'8 settembre a Roma si perpetrava a loro rovina, furono trascinati nei campi di concentramento in Germania? Chi si occupò della loro sorte, chi li assisté in tutti i modi? Gli atti del Governo del Nord relativi a questa vertenza forse sono stati distrutti dopo il 25 aprile, oppure, se caduti nelle mani degli Anglo-Americani o degli Uffici informazioni italiani, vengono tenuti ben occulti al popolo italiano perché esso ignori la verità. Ma si rivela dalla indiretta testimonianza che emerge dal Libro bianco del Cardinale Schuster ciò che fu fatto per loro dal Governo repubblicano. L'azione personale di Mussolini, che anche per questo si batté tenacemente con Hitler, e l'intervento diretto del Ministero delle Forze Armate - quindi mio - a mezzo della Commissione presieduta dal generale Morera in Germania, valsero finalmente a che essi fossero tolti dai campi di concentramento e dichiarati lavoratori liberi prima, per chi volle accettare la qualifica di volontario del lavoro, infine completamente liberati. Quei seicentomila uomini non erano certo stati deportati in Germania per colpa del Governo del Nord ma di chi, attraverso l'ignominiosa resa a discrezione, ne aveva tradito la buona fede mentre volgevano il petto al nemico e li aveva poi abbandonati al furore dell'alleato di ieri contro il quale avrebbero dovuto volgere le armi. (da 'Una vita per l'Italia', pag.223)
Nello stesso giorno del 23, a seguito dell'avvenuta proclamazione del PFR, era stata abrogata l'ordinanza emessa da Kesselring l'11 settembre in cui l'Italia, occupata dai tedeschi, era considerata 'territorio di guerra', ciò che avrebbe implicato un'assoluta dittatura militare. Se tale abrogazione non fosse avvenuta, è sempre Romualdi che scrive, la popolazione, le istituzioni e le industrie italiane del centro-nord, e fino al termine della guerra, sarebbero state senza appello assoggettate alle spietate e vessatorie leggi del Terzo Reich hitleriano, e nessun intervento ufficiale o ufficioso avrebbe potuto mitigarle. Restavano ovviamente valide le leggi internazionali di guerra, sancite dalla Convenzione di Ginevra, secondo cui un esercito, in territorio straniero, aveva il diritto di rappresaglia contro attentati o attacchi armati proditori, ufficialmente definiti atti illegittimi di guerra. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.54-55)
Lo stesso Mussolini dichiarò d'essere diventato capo della RSI per forza maggiore. A questo proposito così si era espresso: 'Non penseranno che io mi diverta a governare in queste condizioni. Non mi diverto affatto; e non lo farei se non avessi la certezza di essere utile al mio Paese e alla futura pacificazione del mondo [...] Non appena presi contatto con Hitler, nonostante la sua accoglienza davvero amichevole, mi accorsi delle sue tremende intenzioni nei riguardi dell'Italia, e ne rimasi assai sconcertato, specie allorché capii che rifiutando io di costituire un governo, altri uomini qualsiasi sarebbero stati incaricati di farlo con le buone o le cattive, e con quali conseguenze è facile immaginare. Materialmente non me lo dissero, ma dalle loro parole dalle loro iniziative era fin troppo facile arguirlo'. Del resto, in un suo discorso, Hitler aveva parlato di gas per i traditori e di terra da bruciare riferendosi all'Italia [...] E l'ambasciatore tedesco Rudolf Rahn: 'L'Italia è stata dichiarata terra di preda bellica. Potrà avvenire di essa quello che è avvenuto per la Polonia. Costituendosi questo Governo, la violenza sarà attutita'. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.56-57)
A proposito dei nostri rapporti con i tedeschi, così si espresse il Duce: [...] 'Comprendo perfettamente, caro Borghese, aggiunse, tutta la vostra amarezza che, consentitemi, è poca cosa rispetto a quella che personalmente, dalla costituzione della Repubblica Sociale Italiana, vado di giorno in giorno accumulando. Durante la mia detenzione avevo avuto modo di riflettere a lungo. Non vi sorprenderete dunque se vi dirò che quando mi incontrai con Hitler, dopo la liberazione dal Gran Sasso, pur prendendo sulle mie spalle tutta la responsabilità della situazione italiana, gli dichiarai di essere fermamente deciso a uscire dalla scena politica. Ero stanco, ammalato, sconfitto. Ma Hitler mi mise con le spalle al muro. Mi disse che l'Italia senza il fascismo sarebbe stata trattata come nemica della Germania, quindi soggetta a occupazione militare e preda di un esercito assetato di vendetta e che, a garanzia politica e militare, avrebbe incorporato il Trentino e l'Alto Adige nel Terzo Reich. Inoltre, avrebbe fatto di Trieste una base navale germanica. Continuando nelle sue minacce, il Fuhrer mi disse anche che avrebbe sempre trovato, qualora io insistessi nel mio rifiuto a rientrare sulla scena politica, uno o più gerarchi disposti a costituire un governo fantoccio che egli avrebbe manovrato a suo piacimento. Compresi che non avevo scelta: l'Italia aveva ancora bisogno di me. E accettai l'incarico di costituire la Repubblica Sociale Italiana, nonché ritenni mio dovere di salvare il salvabile, a costo di molti sacrifici per la mia dignità personale. [...] Per quello che ho ritenuto fosse il bene del Paese, sono stato a volte obbligato ad assumere posizioni che possono apparire di acquiescenza e di subordinazione. Ma ho agito così e così continuerò ad agire, perché anche la vita dell'ultimo degli italiani mi sta a cuore. Se gli italiani non lo comprendono, lo comprenderà, forse in un domani, la Storia'. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.164-165)
Mi tornarono alla mente, in quei momenti, le giornate del dicembre precedente, quando la visita di Mussolini a Milano aveva scatenato un'ondata di entusiasmo popolare, autentico e incontenibile, mentre nessun partigiano aveva osato farsi vivo per le vie della città. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.7)
E in questa prospettiva che vanno visti i numerosi tentativi fatti da uomini responsabili delle due parti che si vanno delineando, i quali consci della sventura in cui è caduto il paese, memori di un passato che si è vissuto insieme, pur nelle divergenze dei giudizi su quella crisi, manifestano una chiara volontà di trovare un modus vivendi che permetta di superare quel punto senza arrivare a uno scontro frontale tra italiani. Diffuse su tutto il territorio e in tutti gli ambienti della Repubblica, quelle iniziative di 'riconciliazione' non possono essere viste come episodi slegati, connessi alla buona volontà di questo o quell'altro, ma costituiscono una corrente di ispirazione che investe i migliori e i più responsabili. A Venezia prende corpo la più importante di queste iniziative. Il 29 settembre '43 il federale Eugenio Montesi, che pur era stato imprigionato nel periodo badogliano, dopo aver disposto la liberazione dalle carceri degli ebrei e degli antifascisti che vi erano detenuti, insieme al podestà Alessandro Passi convoca una conferenza alla quale partecipano gli esponenti degli altri partiti, dai comunisti ai repubblicani ai socialisti ai democristiani, con l'invito ad affrontare la drammatica situazione del paese 'con cuore puro, al di sopra degli egoismi e delle passioni di parte'. A conclusione di questa riunione, in cui tutti hanno pari dignità e pieno diritto di esprimere le proprie opinioni e in cui si prospettò la formazione di un 'fronte unico nazionale, nel quale tutti gli italiani si sarebbero ritrovati per poi ricostruire la Patria', l'avvocato Gianquinto che si era presentato come 'comunista nazionalista' dichiarava: 'Siamo qui per fare opera di pacificazione e di collaborazione nel limite del possibile'. A questa iniziativa, sostenuto perfino dagli squadristi della città, risponde il federale di Verona che chiede al comando tedesco di liberare tutti i prigionieri politici arrestati dopo l'8 settembre 'per mostrare coi fatti la volontà di unione e di concordia'. Stanis Ruinas ricorda che a Firenze e a Modena 'fascisti e antifascisti, di fronte al dramma del paese volevano bruciare vecchi e nuovi rancori, darsi la mano e lavorare assieme soprattutto per il popolo che allora più che mai aveva bisogno di guida e di assistenza'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.110-111)
'Il tentativo di pacificazione è generale' scrive Giorgio Bocca storico antifascista, resistente, partigiano di Giustizia e Libertà, 'a Padova il ministro della istruzione, Carlo Alberto Biggini, mantiene nella carica di rettore dell'università Concetto Marchesi, che accetta, nella linea di Gianquinto, e solo dopo l'inaugurazione dell'anno accademico [...] riceve la severa critica del suo partito [comunista] e l'ordine di troncare ogni rapporto col ministro'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.111)
Mussolini giunse a Rastenburg con un cappellaccio in testa ed un cappottone che lo facevano apparire come un terremotato giunto in un campo profughi. Hitler lo accolse cordialmente e, dopo i convenevoli, i due si ritirarono per discutere la dura realtà della politica. Del colloquio non esiste un verbale, ma è certo che fu lì che Mussolini accettò di assumere la carica di capo del governo nazionale fascista, la cui nascita era stata annunciata il 9 settembre. Mussolini, è appurato, voleva ritirarsi a vita privata, eppure accettò. Perché? La solita soggezione a Hitler che gli faceva dire sempre di si? Se essa era presente già nel 1940, figuriamoci ora, in simili condizioni. L'amore, assopito, ma mai scomparso, verso il potere o, quantomeno, verso la politica? Il desiderio di vendicarsi del re, di Badoglio, di Grandi? La volontà di dimostrare di essere capace, per esprimerci come si fa oggi, di un come back? Senza dubbio. Ma di certo il suo pensiero andò anche all'Italia, forse soprattutto. Hitler avrebbe potuto mutare le sorti della guerra con sbalorditive armi segrete: che ne sarebbe stato del popolo italiano, in questo caso? Le armi segrete furono forse l'argomento principale anche del ricatto di Hitler che, giocherellando con il prototipo di una bomba volante, disse rivolgendosi a Mussolini: 'Lei decide se quest'arma verrà provata su Londra o su Genova e Milano!'. La minaccia ebbe il suo effetto: Mussolini disse di si ed il 15 settembre, dopo 52 giorni di scomparsa dalla scena politica, egli riassunse la carica di capo del governo. […] Alla fine di febbraio del 1945 Mussolini disse: 'La mia vita politica è finita il 25 luglio 1943. Questa non è che un'appendice non volontaria alla quale mi sono lasciato andare nella speranza di fare ancora qualche cosa che possa essere utile al mio paese!'. (da 'In nome della resa', pag.408)
La FIAT, nel 1915, vedendo nella Grande Guerra un grosso affare, aveva puntato tutto sugli interventisti e poi, negli anni '30, aveva ricavato fortune dalla politica espansionista mussoliniana. Nel 1940, però, precedendo di un anno e mezzo l'atteggiamento prudente di molte industrie giapponesi, avrebbe preferito la neutralità, perché più sicura, ma alla fine aveva ancora una volta accordato fiducia allo 'stellone' del Duce. La sconfitta di El-Alamein aveva fatto però crollare ogni fede nella vittoria e aveva condotto a sperare in una rapida intesa con gli Alleati occidentali. Dopo l'8 settembre, l'occupazione tedesca e la nascita della RSI, condussero la FIAT e le altre industrie ad inserirsi nell'orbita dello Stato nazifascista, mantenendo stretti contatti con il Duce, pranzando e cenando con i 'capoccioni' tedeschi e, contemporaneamente, attendendo gli Alleati (la cui vittoria era fuori discussione), presso cui avevano i propri rappresentanti. Questa strategia, che prevedeva anche la distribuzione di centinaia di milioni di lire al CLNAI (con lo scopo di crearsi una 'verginità antifascista' e, per giunta, 'comunisti riconoscenti'), fece parare il colpo della socializzazione, garantendo, per il dopoguerra, il potere industriale anche nel caso improbabile (o impossibile) di una tarda vittoria del Terzo Reich e quindi della Repubblica Sociale Italiana. (da 'In nome della resa', pag.422-423)
Indubbiamente la RSI sorse per proteggere gli italiani e lo dimostra la frase di Hitler del 13 settembre 1943. Nell'occasione il Fuhrer disse: 'O vi sarà il binomio Mussolini-Graziani o l'Italia verrà trattata peggio della Polonia!'. Questa minaccia ci è confermata dal colonnello Eugen Dollmann, che spesso funse da interprete di Hitler per la lingua italiana: egli, a fine guerra, ha sostenuto che, senza la RSI, la vendetta di Hitler verso i 'traditori italiani' sarebbe stata assai più spietata e, conoscendo la crudeltà del Fuhrer, vi è motivo di credergli. Non solo, ma tutta l'idea di ricostruire un'Italia neofascista ed alleata del Reich non piacque affatto ad Hermann Goring, che avrebbe voluto far fucilare Mussolini, né a Josef Goebbels, il quale, nemico di tutti gli italiani (fossero essi fascisti o no), temeva che uno Stato sotto Mussolini avrebbe potuto intralciare i piani tedeschi sull'Italia. Non li intralciò, è vero, ma il tentativo di essere un cuscinetto fra i dirigenti nazisti ed il popolo italiano vi fu, se gli stessi soldati tedeschi usavano dire ridendo: 'Hitler ha dato a coloro che hanno liberato Mussolini al Gran Sasso la Croce di Ferro. Ma colui che lo riportasse laggiù, quello meriterebbe le Fronde di Quercia!', indicando con l'ultima una decorazione assai più alta. (da 'In nome della resa', pag.423-424)
Erich Kuby, la cui fede democratica è fuori discussione, ricorda che il governo di Gargnano creò a Berlino il SAI (Servizio Assistenza Internati), per assistere le vittime dell'operazione Achse e stanziò per loro un miliardo di lire da spendere in vitto, ma i pacchetti furono usati, per ordine delle autorità naziste, a favore dei sinistrati tedeschi dei bombardamenti aerei. […] Nel primo incontro il Duce chiese un miglioramento del trattamento degli internati, necessario anche per motivi politici, per rendere più favorevoli verso la RSI le loro famiglie in Italia, che rappresentavano una massa dì sei milioni di congiunti. Durante il secondo incontro, Mussolini chiese di adoperare gli internati come lavoratori e cioè di trattarli meglio. Venne esaudito il 3 agosto, ma la riforma non si estese agli internati fuori dei confini dei Reich... e cioè alla maggioranza di loro. L'unico successo concreto fu il rimpatrio di 200.000 internati nell'inverno 1944-45: vennero raccolti a Verona e rifocillati dalla Repubblica Sociale. (da 'In nome della resa', pag.424)
Le due accuse, dal canto loro, sono rimaste e, allargate, hanno colpito tutti gli appartenenti a quella che fu la Repubblica Sociale Italiana: uno Stato - senza dubbio - sorto per salvare il buon nome dell'Italia, per proteggere l'Italia dalla vendetta hitleriana, per difendere l'Italia dagli invasori anglo-americani, ma che divenne automaticamente sodale del Terzo Reich anche quando non partecipò o si oppose verbalmente alle efferatezze di quest'ultimo sul nostro suolo e per questo venne considerato dalla popolazione come un ulteriore peso alla già pesante dominazione tedesca. Privata, come fu, della possibilità di comportarsi in modo 'italiano' verso gli italiani, la RSI venne interpretata, forse in modo un poco semplicistico, come uno Stato-lacché della Germania nazista. Non è azzardato perciò affermare che i veri patrioti che aderirono (e furono tanti!) vennero traditi da Berlino, che sfruttò i loro pentimenti per instaurare un sistema con il solo obiettivo di tenere meglio sotto controllo la popolazione italiana e di depredare meglio il territorio italiano. Se Badoglio tradì perciò la Germania, Hitler tradì a sua volta la Repubblica Sociale Italiana. (da 'In nome della resa', pag.427)
A sua volta la RSI, allo scopo di sostituire il Nembo sul fronte di Nettuno, fece partire su autobus dalla Spezia, il 19 febbraio, il battaglione della X MAS Barbarigo (capitano di corvetta Umberto Bardelli), che tra le sue file annoverava anche un tredicenne, come 'mascotte'. La partenza dei soldati repubblicani dalla Spezia ricorda da vicino, per quanto concerne l'entusiasmo della popolazione, il passaggio attraverso le Puglie dei soldati regi che, un mese prima, andavano a rinforzare le truppe al fronte. (da 'In nome della resa', pag.484)
Non posso omettere, a chiusura di questa breve e sommaria rassegna sul mio operato di ministro delle Forze Armate della Repubblica Sociale, di accennare alla istituzione dell'Ufficio Assistenza Distrettuale, che si rese altamente benemerito delle famiglie dei militari, senza alcuna distinzione di appartenenza al Sud o al Nord. Scopo della sua creazione fu di evitare che la disorganizzazione susseguita all'8 settembre si estendesse ai servizi dell'assistenza alle famiglie. Successivamente l'Ispettorato si trasformò in Ufficio centrale, alle dipendenze del Gabinetto del ministro. Esso aveva il controllo sulla sezione assistenziale degli enti militari periferici, e funzione di consulenza e patrocinio per le famiglie dei militari e militarizzati alle armi, presenti alle bandiere, dispersi, prigionieri, internati, o comunque già appartenenti alle forze armate regie; oltre che ai militari ricoverati in ospedali, in convalescenza ed in attesa di quiescenza. L'Ufficio centrale di assistenza, oltre a provvedere, per quanto concerneva le famiglie dei militari appartenenti alle forze armate repubblicane, curava altresì : di far aumentare, sino ad adeguarli al costo della vita in atto in quel momento, gli assegni spettanti alle famiglie dei militari deceduti o dichiarati irreperibili, quasi tutti delle forze armate regie; di far corrispondere gli assegni anche in base alla semplice corrispondenza privata, od a semplice testimonianza; di fare effettuare i pagamenti dagli uffici postali locali in base ad appositi ruoli, che assicuravano la continuità meccanica nei pagamenti, onde le famiglie predette poterono continuare a percepire regolarmente i loro assegni, anche nel periodo turbinoso della cessazione delle operazioni belliche, e nei mesi successivi. Gli ufficiali addetti all'Ufficio di assistenza e delle Delegazioni non sono stati, questa volta almeno, incriminati di collaborazionismo col nemico ai danni del popolo italiano e l'attività da loro svolta è stata apprezzata dal Ministero della Guerra attuale, che non sono stati ritenuti passabili d'altra pena che di semplice rimprovero. (da 'Una vita per l'Italia', pag.220-221)
E che dire di quei seicentomila soldati d'Italia che, ignari di quanto l'8 settembre a Roma si perpetrava a loro rovina, furono trascinati nei campi di concentramento in Germania? Chi si occupò della loro sorte, chi li assisté in tutti i modi? Gli atti del Governo del Nord relativi a questa vertenza forse sono stati distrutti dopo il 25 aprile, oppure, se caduti nelle mani degli Anglo-Americani o degli Uffici informazioni italiani, vengono tenuti ben occulti al popolo italiano perché esso ignori la verità. Ma si rivela dalla indiretta testimonianza che emerge dal Libro bianco del Cardinale Schuster ciò che fu fatto per loro dal Governo repubblicano. L'azione personale di Mussolini, che anche per questo si batté tenacemente con Hitler, e l'intervento diretto del Ministero delle Forze Armate - quindi mio - a mezzo della Commissione presieduta dal generale Morera in Germania, valsero finalmente a che essi fossero tolti dai campi di concentramento e dichiarati lavoratori liberi prima, per chi volle accettare la qualifica di volontario del lavoro, infine completamente liberati. Quei seicentomila uomini non erano certo stati deportati in Germania per colpa del Governo del Nord ma di chi, attraverso l'ignominiosa resa a discrezione, ne aveva tradito la buona fede mentre volgevano il petto al nemico e li aveva poi abbandonati al furore dell'alleato di ieri contro il quale avrebbero dovuto volgere le armi. (da 'Una vita per l'Italia', pag.223)
Nello stesso giorno del 23, a seguito dell'avvenuta proclamazione del PFR, era stata abrogata l'ordinanza emessa da Kesselring l'11 settembre in cui l'Italia, occupata dai tedeschi, era considerata 'territorio di guerra', ciò che avrebbe implicato un'assoluta dittatura militare. Se tale abrogazione non fosse avvenuta, è sempre Romualdi che scrive, la popolazione, le istituzioni e le industrie italiane del centro-nord, e fino al termine della guerra, sarebbero state senza appello assoggettate alle spietate e vessatorie leggi del Terzo Reich hitleriano, e nessun intervento ufficiale o ufficioso avrebbe potuto mitigarle. Restavano ovviamente valide le leggi internazionali di guerra, sancite dalla Convenzione di Ginevra, secondo cui un esercito, in territorio straniero, aveva il diritto di rappresaglia contro attentati o attacchi armati proditori, ufficialmente definiti atti illegittimi di guerra. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.54-55)
Lo stesso Mussolini dichiarò d'essere diventato capo della RSI per forza maggiore. A questo proposito così si era espresso: 'Non penseranno che io mi diverta a governare in queste condizioni. Non mi diverto affatto; e non lo farei se non avessi la certezza di essere utile al mio Paese e alla futura pacificazione del mondo [...] Non appena presi contatto con Hitler, nonostante la sua accoglienza davvero amichevole, mi accorsi delle sue tremende intenzioni nei riguardi dell'Italia, e ne rimasi assai sconcertato, specie allorché capii che rifiutando io di costituire un governo, altri uomini qualsiasi sarebbero stati incaricati di farlo con le buone o le cattive, e con quali conseguenze è facile immaginare. Materialmente non me lo dissero, ma dalle loro parole dalle loro iniziative era fin troppo facile arguirlo'. Del resto, in un suo discorso, Hitler aveva parlato di gas per i traditori e di terra da bruciare riferendosi all'Italia [...] E l'ambasciatore tedesco Rudolf Rahn: 'L'Italia è stata dichiarata terra di preda bellica. Potrà avvenire di essa quello che è avvenuto per la Polonia. Costituendosi questo Governo, la violenza sarà attutita'. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.56-57)
A proposito dei nostri rapporti con i tedeschi, così si espresse il Duce: [...] 'Comprendo perfettamente, caro Borghese, aggiunse, tutta la vostra amarezza che, consentitemi, è poca cosa rispetto a quella che personalmente, dalla costituzione della Repubblica Sociale Italiana, vado di giorno in giorno accumulando. Durante la mia detenzione avevo avuto modo di riflettere a lungo. Non vi sorprenderete dunque se vi dirò che quando mi incontrai con Hitler, dopo la liberazione dal Gran Sasso, pur prendendo sulle mie spalle tutta la responsabilità della situazione italiana, gli dichiarai di essere fermamente deciso a uscire dalla scena politica. Ero stanco, ammalato, sconfitto. Ma Hitler mi mise con le spalle al muro. Mi disse che l'Italia senza il fascismo sarebbe stata trattata come nemica della Germania, quindi soggetta a occupazione militare e preda di un esercito assetato di vendetta e che, a garanzia politica e militare, avrebbe incorporato il Trentino e l'Alto Adige nel Terzo Reich. Inoltre, avrebbe fatto di Trieste una base navale germanica. Continuando nelle sue minacce, il Fuhrer mi disse anche che avrebbe sempre trovato, qualora io insistessi nel mio rifiuto a rientrare sulla scena politica, uno o più gerarchi disposti a costituire un governo fantoccio che egli avrebbe manovrato a suo piacimento. Compresi che non avevo scelta: l'Italia aveva ancora bisogno di me. E accettai l'incarico di costituire la Repubblica Sociale Italiana, nonché ritenni mio dovere di salvare il salvabile, a costo di molti sacrifici per la mia dignità personale. [...] Per quello che ho ritenuto fosse il bene del Paese, sono stato a volte obbligato ad assumere posizioni che possono apparire di acquiescenza e di subordinazione. Ma ho agito così e così continuerò ad agire, perché anche la vita dell'ultimo degli italiani mi sta a cuore. Se gli italiani non lo comprendono, lo comprenderà, forse in un domani, la Storia'. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.164-165)
Mi tornarono alla mente, in quei momenti, le giornate del dicembre precedente, quando la visita di Mussolini a Milano aveva scatenato un'ondata di entusiasmo popolare, autentico e incontenibile, mentre nessun partigiano aveva osato farsi vivo per le vie della città. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.7)
E in questa prospettiva che vanno visti i numerosi tentativi fatti da uomini responsabili delle due parti che si vanno delineando, i quali consci della sventura in cui è caduto il paese, memori di un passato che si è vissuto insieme, pur nelle divergenze dei giudizi su quella crisi, manifestano una chiara volontà di trovare un modus vivendi che permetta di superare quel punto senza arrivare a uno scontro frontale tra italiani. Diffuse su tutto il territorio e in tutti gli ambienti della Repubblica, quelle iniziative di 'riconciliazione' non possono essere viste come episodi slegati, connessi alla buona volontà di questo o quell'altro, ma costituiscono una corrente di ispirazione che investe i migliori e i più responsabili. A Venezia prende corpo la più importante di queste iniziative. Il 29 settembre '43 il federale Eugenio Montesi, che pur era stato imprigionato nel periodo badogliano, dopo aver disposto la liberazione dalle carceri degli ebrei e degli antifascisti che vi erano detenuti, insieme al podestà Alessandro Passi convoca una conferenza alla quale partecipano gli esponenti degli altri partiti, dai comunisti ai repubblicani ai socialisti ai democristiani, con l'invito ad affrontare la drammatica situazione del paese 'con cuore puro, al di sopra degli egoismi e delle passioni di parte'. A conclusione di questa riunione, in cui tutti hanno pari dignità e pieno diritto di esprimere le proprie opinioni e in cui si prospettò la formazione di un 'fronte unico nazionale, nel quale tutti gli italiani si sarebbero ritrovati per poi ricostruire la Patria', l'avvocato Gianquinto che si era presentato come 'comunista nazionalista' dichiarava: 'Siamo qui per fare opera di pacificazione e di collaborazione nel limite del possibile'. A questa iniziativa, sostenuto perfino dagli squadristi della città, risponde il federale di Verona che chiede al comando tedesco di liberare tutti i prigionieri politici arrestati dopo l'8 settembre 'per mostrare coi fatti la volontà di unione e di concordia'. Stanis Ruinas ricorda che a Firenze e a Modena 'fascisti e antifascisti, di fronte al dramma del paese volevano bruciare vecchi e nuovi rancori, darsi la mano e lavorare assieme soprattutto per il popolo che allora più che mai aveva bisogno di guida e di assistenza'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.110-111)
'Il tentativo di pacificazione è generale' scrive Giorgio Bocca storico antifascista, resistente, partigiano di Giustizia e Libertà, 'a Padova il ministro della istruzione, Carlo Alberto Biggini, mantiene nella carica di rettore dell'università Concetto Marchesi, che accetta, nella linea di Gianquinto, e solo dopo l'inaugurazione dell'anno accademico [...] riceve la severa critica del suo partito [comunista] e l'ordine di troncare ogni rapporto col ministro'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.111)
Mussolini giunse a Rastenburg con un cappellaccio in testa ed un cappottone che lo facevano apparire come un terremotato giunto in un campo profughi. Hitler lo accolse cordialmente e, dopo i convenevoli, i due si ritirarono per discutere la dura realtà della politica. Del colloquio non esiste un verbale, ma è certo che fu lì che Mussolini accettò di assumere la carica di capo del governo nazionale fascista, la cui nascita era stata annunciata il 9 settembre. Mussolini, è appurato, voleva ritirarsi a vita privata, eppure accettò. Perché? La solita soggezione a Hitler che gli faceva dire sempre di si? Se essa era presente già nel 1940, figuriamoci ora, in simili condizioni. L'amore, assopito, ma mai scomparso, verso il potere o, quantomeno, verso la politica? Il desiderio di vendicarsi del re, di Badoglio, di Grandi? La volontà di dimostrare di essere capace, per esprimerci come si fa oggi, di un come back? Senza dubbio. Ma di certo il suo pensiero andò anche all'Italia, forse soprattutto. Hitler avrebbe potuto mutare le sorti della guerra con sbalorditive armi segrete: che ne sarebbe stato del popolo italiano, in questo caso? Le armi segrete furono forse l'argomento principale anche del ricatto di Hitler che, giocherellando con il prototipo di una bomba volante, disse rivolgendosi a Mussolini: 'Lei decide se quest'arma verrà provata su Londra o su Genova e Milano!'. La minaccia ebbe il suo effetto: Mussolini disse di si ed il 15 settembre, dopo 52 giorni di scomparsa dalla scena politica, egli riassunse la carica di capo del governo. […] Alla fine di febbraio del 1945 Mussolini disse: 'La mia vita politica è finita il 25 luglio 1943. Questa non è che un'appendice non volontaria alla quale mi sono lasciato andare nella speranza di fare ancora qualche cosa che possa essere utile al mio paese!'. (da 'In nome della resa', pag.408)
La FIAT, nel 1915, vedendo nella Grande Guerra un grosso affare, aveva puntato tutto sugli interventisti e poi, negli anni '30, aveva ricavato fortune dalla politica espansionista mussoliniana. Nel 1940, però, precedendo di un anno e mezzo l'atteggiamento prudente di molte industrie giapponesi, avrebbe preferito la neutralità, perché più sicura, ma alla fine aveva ancora una volta accordato fiducia allo 'stellone' del Duce. La sconfitta di El-Alamein aveva fatto però crollare ogni fede nella vittoria e aveva condotto a sperare in una rapida intesa con gli Alleati occidentali. Dopo l'8 settembre, l'occupazione tedesca e la nascita della RSI, condussero la FIAT e le altre industrie ad inserirsi nell'orbita dello Stato nazifascista, mantenendo stretti contatti con il Duce, pranzando e cenando con i 'capoccioni' tedeschi e, contemporaneamente, attendendo gli Alleati (la cui vittoria era fuori discussione), presso cui avevano i propri rappresentanti. Questa strategia, che prevedeva anche la distribuzione di centinaia di milioni di lire al CLNAI (con lo scopo di crearsi una 'verginità antifascista' e, per giunta, 'comunisti riconoscenti'), fece parare il colpo della socializzazione, garantendo, per il dopoguerra, il potere industriale anche nel caso improbabile (o impossibile) di una tarda vittoria del Terzo Reich e quindi della Repubblica Sociale Italiana. (da 'In nome della resa', pag.422-423)
Indubbiamente la RSI sorse per proteggere gli italiani e lo dimostra la frase di Hitler del 13 settembre 1943. Nell'occasione il Fuhrer disse: 'O vi sarà il binomio Mussolini-Graziani o l'Italia verrà trattata peggio della Polonia!'. Questa minaccia ci è confermata dal colonnello Eugen Dollmann, che spesso funse da interprete di Hitler per la lingua italiana: egli, a fine guerra, ha sostenuto che, senza la RSI, la vendetta di Hitler verso i 'traditori italiani' sarebbe stata assai più spietata e, conoscendo la crudeltà del Fuhrer, vi è motivo di credergli. Non solo, ma tutta l'idea di ricostruire un'Italia neofascista ed alleata del Reich non piacque affatto ad Hermann Goring, che avrebbe voluto far fucilare Mussolini, né a Josef Goebbels, il quale, nemico di tutti gli italiani (fossero essi fascisti o no), temeva che uno Stato sotto Mussolini avrebbe potuto intralciare i piani tedeschi sull'Italia. Non li intralciò, è vero, ma il tentativo di essere un cuscinetto fra i dirigenti nazisti ed il popolo italiano vi fu, se gli stessi soldati tedeschi usavano dire ridendo: 'Hitler ha dato a coloro che hanno liberato Mussolini al Gran Sasso la Croce di Ferro. Ma colui che lo riportasse laggiù, quello meriterebbe le Fronde di Quercia!', indicando con l'ultima una decorazione assai più alta. (da 'In nome della resa', pag.423-424)
Erich Kuby, la cui fede democratica è fuori discussione, ricorda che il governo di Gargnano creò a Berlino il SAI (Servizio Assistenza Internati), per assistere le vittime dell'operazione Achse e stanziò per loro un miliardo di lire da spendere in vitto, ma i pacchetti furono usati, per ordine delle autorità naziste, a favore dei sinistrati tedeschi dei bombardamenti aerei. […] Nel primo incontro il Duce chiese un miglioramento del trattamento degli internati, necessario anche per motivi politici, per rendere più favorevoli verso la RSI le loro famiglie in Italia, che rappresentavano una massa dì sei milioni di congiunti. Durante il secondo incontro, Mussolini chiese di adoperare gli internati come lavoratori e cioè di trattarli meglio. Venne esaudito il 3 agosto, ma la riforma non si estese agli internati fuori dei confini dei Reich... e cioè alla maggioranza di loro. L'unico successo concreto fu il rimpatrio di 200.000 internati nell'inverno 1944-45: vennero raccolti a Verona e rifocillati dalla Repubblica Sociale. (da 'In nome della resa', pag.424)
Le due accuse, dal canto loro, sono rimaste e, allargate, hanno colpito tutti gli appartenenti a quella che fu la Repubblica Sociale Italiana: uno Stato - senza dubbio - sorto per salvare il buon nome dell'Italia, per proteggere l'Italia dalla vendetta hitleriana, per difendere l'Italia dagli invasori anglo-americani, ma che divenne automaticamente sodale del Terzo Reich anche quando non partecipò o si oppose verbalmente alle efferatezze di quest'ultimo sul nostro suolo e per questo venne considerato dalla popolazione come un ulteriore peso alla già pesante dominazione tedesca. Privata, come fu, della possibilità di comportarsi in modo 'italiano' verso gli italiani, la RSI venne interpretata, forse in modo un poco semplicistico, come uno Stato-lacché della Germania nazista. Non è azzardato perciò affermare che i veri patrioti che aderirono (e furono tanti!) vennero traditi da Berlino, che sfruttò i loro pentimenti per instaurare un sistema con il solo obiettivo di tenere meglio sotto controllo la popolazione italiana e di depredare meglio il territorio italiano. Se Badoglio tradì perciò la Germania, Hitler tradì a sua volta la Repubblica Sociale Italiana. (da 'In nome della resa', pag.427)
A sua volta la RSI, allo scopo di sostituire il Nembo sul fronte di Nettuno, fece partire su autobus dalla Spezia, il 19 febbraio, il battaglione della X MAS Barbarigo (capitano di corvetta Umberto Bardelli), che tra le sue file annoverava anche un tredicenne, come 'mascotte'. La partenza dei soldati repubblicani dalla Spezia ricorda da vicino, per quanto concerne l'entusiasmo della popolazione, il passaggio attraverso le Puglie dei soldati regi che, un mese prima, andavano a rinforzare le truppe al fronte. (da 'In nome della resa', pag.484)
Le forze armate della RSI
In forza di questa autorità e dei suoi riconosciuti diritti, Borghese fece immediatamente il giro dei vari improvvisati campi di concentramento in cui i tedeschi, per deportarli in Germania, avevano raccolto reparti dell'ex Esercito italiano o della Marina che si erano arresi, o militari sbandati o civili che erano stati rastrellati. Borghese riuscì a sottrarre alla deportazione centinaia di uomini prendendoli in forza alla X Mas. Appena giunti in sede, chi di essi non voleva realmente arruolarsi (ed erano i più) veniva fornito dal nostro comando di regolare congedo e lasciapassare, in modo che potesse tornare indisturbato alla propria famiglia. In quei giorni, alla sede del Muggiano accorsero molte donne per segnalare in quali zone i propri congiunti, arrestati dai tedeschi, erano stati raccolti, e il Comandante interveniva immediatamente. Proprio per questa assidua, rapida e instancabile azione di salvataggio di centinaia di uomini, a La Spezia la Decima Flottiglia Mas era considerata un'ancora di salvezza ed era portata in palmo di mano dalla popolazione. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.42-43)
Alla nostra sede affluirono anche numerosi elementi specializzati tra cui ufficiali e sottufficiali istruttori provenienti da Tarquinia, e nuotatori da Livorno. A questi si unirono reduci della Folgore e della Nembo. Altri provennero dal 10 reggimento Arditi. Alcuni piloti della X Mas, tagliati fuori dallo sbarco di Salerno, riuscirono ad attraversare a piedi le linee nemiche e a tornare alla base di la Spezia. Qual era la forza che li spingeva? Come avvenne il fenomeno di migliaia di uomini di tutte le età, di tutte le classi sociali, di varie ideologie politiche, che corsero ad arruolarsi nella X, anelanti di combattere? Costoro oggi son definiti, da un postulato imposto come un credo, avventurieri, soldati di ventura, rinnegati al soldo del nemico ecc. ecc. Ma in realtà che cosa poteva portare volontariamente alle armi mutilati di tutti i fronti, se non l'amor di Patria e la volontà di poterle essere ancora utili? E furono centinaia i mutilati che chiesero di arruolarsi nella Decima! E quale sentimento mosse veterani delle campagne d'Africa, di Grecia e di Russia, se non l'amor di Patria? E i giovanissimi delle classi non ancora chiamate alle armi che avevano una sola aspirazione: essere mandati in linea? E ancora: generali e ammiragli ed ex ministri e ufficiali superiori di tutte le armi che si presentarono alla Decima chiedendo di servire la Patria da semplici soldati? Chi li spingeva? Forse il lucro, l'ambizione? La libidine di tradimento? O non piuttosto una volontà decisa, quasi furente, quella di salvare l'Onore del combattente italiano, non subire la resa incondizionata, infamante per i morti, fatale per i vivi? E tutti hanno pagato, chi con la galera, chi con le persecuzioni, chi con le calunnie, chi col sacrificio della vita. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.47)
Una particolare iniziativa che la X intraprese fu quella del recupero di ufficiali e marinai internati in Spagna. Si trattava degli equipaggi delle navi da guerra che il 9 settembre 1943 si erano fermate a raccogliere i naufraghi della corazzata Roma. La piccola squadra navale, capeggiata dall'incrociatore Attilio regolo [...] s'era diretta a Minorca. Qui [...] gli equipaggi erano passati in internamento [...] Borghese concepì allora l'idea dell'operazione 'Recupero internati dalla Spagna' e la direzione dell'iniziativa fu assunta a Bordeaux dal comandante Grossi [...] Egli avrebbe fornito abiti civili, passaporti e guide per il passaggio in Francia. Qui giunti, essi dovevano dichiarare di volersi arruolare nella X e in questo modo egli li poteva spedire a La Spezia, con l'intesa, poi, che chi non intendeva effettivamente arruolarsi era libero di andare dove voleva. Ma furono in molti ad arruolarsi volontari nella X Flottiglia Mas. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.49)
L'opera assistenziale della X già si estendeva a molte centinaia di persone appartenenti alla Marina ivi comprese le famiglie dei nostri ufficiali e marinai che le vicende della guerra avevano relegato nell'Italia del Sud. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.58)
Ritengo che dai fatti narrati emerga una realtà indiscutibile: la Decima era un'unità di volontari uniti da un solo ideale, quello dell'amor di Patria. Non mi stancherò mai di ripeterlo. Quegli ufficiali, quei ragazzi, spesso quei ragazzini, volevano combattere per l'Onore, non credevano nella vittoria, non si facevano illusioni sul domani. Volevano solo cancellare il disonore che pesava sull'Italia. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.59)
'La maggior parte degli storici, scrive Bonvicini, ha prestato scarsa o addirittura nessuna attenzione al fenomeno del volontariato nell'esercito della Repubblica Sociale Italiana. Quanti furono questi volontari? Escludendo i reparti di partito (come le Brigate Nere e quelli della polizia, come la PAI o la Muti), tale volontariato può calcolarsi nella cifra prudenziale di 200.000. Ma è più attendibile che arrivò a toccare le 250.000 unità, tra uomini e donne'. Quel che è certo è che nessun momento della storia d'Italia, dal Risorgimento a oggi, ha mai avuto un tale afflusso di volontari: non le guerre sabaude o i moti mazziniani o le imprese garibaldine, non la prima guerra mondiale, non la seconda dal 1940 al 1943, e tantomeno la Resistenza. Ciò, invece, si verificò dal 1943 al 1945, nel momento in cui l'Italia era tagliata in due da un fronte di combattimento, quando già molte migliaia di soldati italiani erano morti, feriti o prigionieri, in un Paese diviso e occupato da opposti eserciti stranieri, distrutto, avvilito, disprezzato e sul punto di perdere la propria identità nazionale. E, in più, questi volontari di guerra davano per scontata la loro sconfitta. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.98)
Eppure, ci ricorda Alessandro Cova, strano ma documentabile, il bando del 9 novembre 1943 si rivelò un successo [...] Alla cartolina precetto risposero in 87.000 chiamati alle armi. L'Emilia brillava col 98 per cento dei presenti all'appello. Erano le classi 1924 e 1925 (diciottenni e diciannovenni). Con gli ufficiali il successo assunse proporzioni straripanti: 300 generali e 40.000 ufficiali di grado inferiore, quanto occorreva per 100 divisioni. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.105)
Tutti furono aiutati senza alcuna discriminazione, nei limiti del possibile. Anche i familiari degli appartenenti alla Marina che si erano schierati con Badoglio, ricevettero, quando fu necessario, aiuti e solidarietà. Il capitano di vascello Ernesto Forza, comandante della X dal 1941 al 1943, così dichiarò al processo contro Borghese: 'Dopo l'8 settembre il Borghese aiutò la mia famiglia che era rimasta isolata a Roma, devolvendole la somma di lire 20.000 prelevata da un fondo di beneficenza organizzato dal Borghese per aiutare le famiglie degli ufficiali che si erano diretti al Sud'. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.106)
La situazione dei militari della nostra Marina, fatti prigionieri nel settembre-ottobre 1943 e deportati in Germania, era particolarmente preoccupante. Mancavano d'indumenti adatti, pativano la fame, non ricevevano notizie da casa. Malgrado qualche spedizione più che altro a scopo di propaganda politica organizzata dal governo repubblicano, o dal clero, gli italiani trattenuti in Germania mancavano di tutto. Nessuno aveva mai portato loro una parola di conforto e di solidarietà. Dopo lunghi colloqui con Wolff e Rahn, Borghese ottenne il permesso di inviare nei campi di concentramento tedeschi una missione guidata da sua moglie Daria. In breve tempo fu approntato un camion che volontarie dell'ufficio assistenza riempirono di 500 pacchi contenenti vestiario e generi di conforto. La missione toccò ben 32 campi di concentramento, distribuì pacchi ai militari internati, raccolse la loro corrispondenza per le famiglie, portò espressioni di fraternità a quanti, lontani dalla loro terra, scontavano una colpa non commessa. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.106-107)
Numerose testimonianze di uomini appartenenti all'una e all'altra parte, rese anche in sede giudiziaria, confermano il contributo essenziale dato da Borghese alla salvezza del porto di Genova. Tra queste, la deposizione giurata, fatta in tribunale il 17 dicembre 1948, da Vito Pavano, ufficiale del SIM del Regno del Sud presso il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. 'So che Borghese si interessava per la salvezza del porto di Genova, dichiarò Pavano, e per questo scopo egli si adoperava presso il servizio segreto tedesco [...] E a me sembro l'unico che ottenne risultati positivi'. Infatti, come sostenne Carlo Silvestri: 'Non è niente vero che i tedeschi avessero rinunciato alla distruzione degli impianti industriali dell'Alta Italia in seguito alle trattative col CLNAI'. E furono soprattutto 'le leali trattative da combattente a combattente intercorse il 14 aprile 1945 tra il generale Wolff e il Comandante Borghese [...] che indussero i tedeschi alla rinuncia al sabotaggio dei porti di Genova, Savona, Marghera e dell'arsenale di Venezia, e al piano di totale distruzione già ordinato personalmente da Hitler che, senza dubbio, avrebbe determinato scontri sanguinosi tra le forze tedesche e quelle italiane, scontri che avrebbero potuto disturbare gravemente la ritirata'. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.194)
Quale meraviglia se la loro carenza produrrà poi quelle reazioni che portarono centinaia di migliaia di uomini, sparsi su tutti i fronti, a rimanere a fianco del vecchio alleato, per seguirne fino all'ultimo le sorti, senza affatto calcolare se si puntasse sul vincente o sul perdente, ma solo per essere fedeli al simbolo dell'onore?. (da 'Una vita per l'Italia', pag.154)
Dopo la resa dell'aprile 1945, la Corte Internazionale Permanente riconobbe alle truppe della Repubblica Sociale la qualità di combattenti regolari ed il trattamento di prigionieri di guerra. Successivamente un decreto del governo italiano stabiliva che il fatto di aver appartenuto ad esse, e di aver prestato giuramento al governo repubblicano, non era considerato reato. In seguito a ciò, i suddetti venticinquemila ufficiali, ed i settecentottantamila circa armati repubblicani non sono stati perseguiti per legge. (da 'Una vita per l'Italia', pag.215)
Ma ecco finalmente a fare il punto la sentenza della Corte d'Assise, Sezione Speciale, di Roma nella causa contro il generale Berti e gli altri componenti il Tribunale di Guerra del C.A.R.S. (Corpo Addestramento Reparti Speciali) e del C.O.G.U. (Corpo Controguerriglia), responsabili di aver pronunciato molte sentenze di condanna a morte, poscia eseguite, di partigiani. Tutti gli imputati - presidente, giudici e pubblico accusatore - sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato. La Procura Generale non ha ricorso avverso la sentenza, che è pertanto divenuta irrevocabile. La sentenza ha affermato che il principio della Repubblica Sociale Italiana fu uno Stato, nel senso politico e giuridico della parola, e come tale essa fu rivestita dei poteri e delle funzioni sovrane, che allo Stato competono. (da 'Una vita per l'Italia', pag.275)
Nello studio di un amico pittore incontrai un giovane professore comunista, insegnante di storia e filosofia nelle scuole superiori, persona colta e garbata. Una volta saputo del mio passato repubblichino, mi accennò alla sua conoscenza con un ex ufficiale della Xa Mas di Bologna, di cui mi disse il nome, che mi lasciò ovviamente del tutto indifferente. Sorpreso e quasi incredulo per quella mia ignoranza, il giovane professore mi manifestò con candore la sua meraviglia: 'Ma, come! Eravate così pochi che credevo proprio vi conosceste tutti!'. E' evidente che quel professore di liceo, che andava insegnando, non so se con sussiego o, così, alla buona, la recente storia nazionale alle nuove generazioni di italiani, era stato formato dai luoghi comuni diffusi e ribaditi dalla sterminata letteratura di parte sull'argomento, la quale faceva appunto degli uomini di Salò un'insignificante minoranza, formata da un pugno di vecchi incalliti manigoldi e da una manciata di sciagurati ragazzi traviati, estranei al paese reale, tutto schierato dall'altra parte. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.24)
Giampaolo Pansa, di parte contraria, nel suo libro 'L'esercito di Salò', opera che si fonda su dati parziali e fonti particolari, non avanza cifre globali, limitandosi a mettere in luce soprattutto il fenomeno della renitenza alla leva che afflisse fin dall'inizio la chiamata alle armi delle classi '23, '24, '25, '26, la fluidità di molti reparti, che sembrano dilatarsi e sgonfiarsi a seconda delle circostanze, le diserzioni, i passaggi da un campo all'altro. Quasi che di questi mali non ebbero a soffrire, specularmente, per ovvie e contrapposte ragioni, anche le forze partigiane, per non parlare della quasi totale renitenza alla leva che si verificò nell'Esercito Regio nelle regioni del sud dove, ormai giunti i liberatori anglo-americani e la tanto agognata 'pace', nessuno aveva più voglia di ricominciare una naja, riprendere le armi, gettate l'8 settembre, per un governo definitivamente squalificato. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.25)
Insomma, in quel periodo di grande disorientamento delle coscienze, così incerto negli esiti, e soprattutto al di là di ogni considerazione di opportunismo e di calcolo personale, le quali suggerivano invece una scelta diversa, alcune centinaia di migliaia di giovani italiani sentirono l'imperativo di mettere a repentaglio le loro vite, condizionare il loro futuro, abbandonare studi, case e famiglie per schierarsi dalla parte 'fascista', che 'ha ancora una sua capacità di appello presso i giovanissimi', come Bocca riconosce. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.26)
Di non diversa natura è la scelta dei capitano di vascello Junio Valerio Borghese, comandante della Xa Mas, e degli uomini alle sue dipendenze. [...] Si barricò con quelli dei suoi subalterni che vollero restare nella base della Xa Mas, in quella striscia di terra tra La Spezia e Lerici, pronto a difendersi contro chiunque avesse preteso la sua resa, cioè in sostanza contro i tedeschi, gli unici che in quella situazione gli avrebbero potuto portare offesa, tanto che, come dichiarò più tardi: 'Se un tedesco avesse tentato, dopo l'8 settembre, di disarmarmi o di fare violenza alla 'Decima' avrei dovuto difendermi: se fossi stato ucciso, cosa probabile, oggi sarei stato considerato un eroe della Resistenza'. Altri reparti sparsi per la penisola o nei territori occupati dal nostro esercito, spesso ridotti a un pugno di uomini, in un paesaggio di disfatta e di fughe, compirono la stessa scelta, per gli stessi elementari motivi di 'dignità di soldati' e di 'onore' che, nonostante tutto, in quel momento di dissoluzione di ogni punto di riferimento sono sopravvissuti. Va sottolineato che queste scelte - che poi condussero a Salò -, questa decisione di non arrendersi, questo soprassalto del sentimento di rivolta contro la vergogna e le conseguenze di quella resa, si determinarono nei giorni immediatamente successivi all'8 settembre, cioè prima della liberazione di Mussolini da parte dei tedeschi, indipendentemente da essa, prima della formazione di qualsiasi embrione di governo 'fascista', prima ancora che se ne potesse ipotizzare la costituzione; avvennero per moto spontaneo, in circostanze particolari, per decisioni individuali prese sul campo. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.34)
In quel momento di sbandamento generale, parallelamente alle scelte di quei reparti militari, si produssero nell'animo di una minoranza di giovani confusi moti di rivolta e di rifiuto che non sono nei più ancora chiaramente differenziati. Scatta in alcuni un istintivo soprassalto di ribellione contro lo sfacelo che si scorge attorno, un sentimento di non accettazione della miseria morale in cui è sprofondato il paese, il bisogno di dissociarsi dalle viltà, le fughe, l'abbandono, che si manifestarono nel cercarsi fra coetanei, nell'impulso a unirsi, a fare gruppo. Quando, nei primissimi giorni dell'occupazione tedesca, con un gruppetto di coetanei mi presentai a un comando germanico a Roma con la richiesta di essere 'inviato al fronte a fermare il nemico', c'era tra noi un ragazzetto di sedici anni, un piccolo siciliano, Franco Grita, studente di scuola media superiore, che in quegli incontri in cui decidemmo di compiere quel passo, mi stringeva il braccio e continuava a ripetere: 'Stiamo insieme, stiamo insieme', quasi che in quel gruppetto egli ritrovasse il sentimento della patria che era andata in pezzi. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.35)
Sono ragazzi, poco più che adolescenti, che manifestano rabbie e delusioni, barlumi di speranza e di rifiuto. Alla fine di quella giornata, quando ci contammo nell'anticamera di quell'ufficiale tedesco, al quale ci eravamo rivolti per 'andare a combattere' e che non sapeva come esaudire quella nostra richiesta, ma, congedandoci, ci chiese da soldato l'onore di stringerci la mano, eravamo in venti. Andando là in gruppetti di due o tre, studenti liceali, matricole universitarie, giovani artigiani, indipendentemente gli uni dagli altri, avevamo sentito lo stesso impulso di 'presentarci' e chiedere che ci venissero 'date le armi' che gli altri avevano buttato. Altri compirono lo stesso passo in altre città. Giovanissimi, ancor prima della costituzione della RSI si presentarono ai comandi tedeschi o diedero vita a spontanee embrionali formazioni, che furono poi assorbite dalle prime unità regolarmente costituite dal governo di Salò. A Firenze - come mi raccontò l'animatore dell'iniziativa, un giovane della mia stessa età, Alessandro Guarnieri - un gruppo, che raggiunse la consistenza di 56 ragazzi, in quegli stessi giorni si presentò al comando germanico della città con la nostra stessa richiesta. [...] Questo plotone, insieme alla divisione della quale faceva parte, venne inviato sul fronte russo meridionale e si segnalò in vari scontri sulla testa di ponte di Nikopol, sul Dnieper e in altre località dove combatté fino al novembre 1944. Si trattava di giovani dai sedici ai vent'anni (ce n'erano anche di quindici e quattordici, che giunti clandestini al fronte, nascosti sotto e dentro i mezzi blindati sui carri ferroviari, furono rimpatriati). (da 'I balilla andarono a Salò', pag.35-36)
Riflettendo sulle cause che spinsero i giovani usciti dai ventennio fascista su questa o quell'altra strada, Italo Calvino ha scritto che in quei giorni di generale disorientamento bastò un niente a decidere un'esistenza: l'essersi trovati in un posto piuttosto che in un altro, aver fatto questa o quella esperienza personale, ovvero un'amicizia, l'incontro con una persona, la lettura di un libro. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.38)
Un altro luogo comune, costruito dalla storiografia antifascista della Resistenza è quello che fa della RSI una continuazione del ventennio fascista, anzi la sua logica conclusione, nella quale il fascismo, tolta la maschera di rispettabilità assunta negli anni del suo apogeo, mostrerebbe il suo volto più vero e odioso. [...] In realtà non c'è nulla di più inesatto. Nella sua nascita, nelle sue componenti umane, nelle intenzioni che mossero la maggior parte di coloro che aderirono alla RSI, nei loro comportamenti e anche nelle loro illusioni, c'è ben poco di quanto era stato per ventun anni il regime fascista. Nonostante che a capo di quell'effimero stato ci sia stato Mussolini, che il solo partito ufficialmente riconosciuto sia il Partito fascista repubblicano (tranne il tardivo esperimento di E. Cione che, tra il febbraio e il marzo del 1945, diede vita a un Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista),in quella repubblica i fascisti non furono che una minoranza, lo spirito che la dominò, perfino nell'ambito dello stesso PFR, fu di rifiuto e di condanna del ventennio trascorso, e la maggioranza di coloro che vi aderirono aveva a che vedere con il regime che aveva governato l'Italia per un ventennio non più della generalità degli italiani, compresi non pochi di quelli che scelsero la Resistenza. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.75-76)
Dei 29 membri del Gran Consiglio del fascismo, che era la suprema assise del regime, il cui voto determinò la liquidazione del fascismo, solo due aderirono alla RSI: Buffarini Guidi e Farinacci. [...] Degli ex segretari del PNF nessuno sarà a Salò. Lo stesso dicasi degli ex comandanti generali della Milizia. E solo mosche bianche o nere della pletora dei federali fascisti, dei presidenti, direttori generali, funzionari delle varie istituzioni e organizzazioni fasciste, Opera Nazionale Combattenti, Dopolavoro, GIL, ecc., dei membri della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, del Senato, daranno la loro adesione alla RSI. Carmine Senise nominato capo della polizia il 25 luglio registra la corsa di gerarchi, federali, prefetti a testimoniare il loro 'antifascismo', la loro segreta opposizione al regime, i loro distinguo, ad assicurare la loro adesione al nuovo regime. 'I prefetti fascisti rimasero tutti al loro posto, pronti a servire il nuovo governo: non uno di essi, non uno, mostrò il più lontano desiderio di essere collocato a riposo. Moltissimi anzi fecero premura in senso opposto [...]. Altrettanto avvenne nelle file della Milizia [...]'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.77-78)
Quella che sarà la RSI, abbiamo visto, nasce prima della sua costituzione ufficiale, prima che essa assuma una struttura istituzionale e una fisionomia politica, amministrativa, militare, e indipendentemente da essa. Nasce con quel soprassalto di indignazione contro la vergogna dell'8 settembre che muoverà una non esigua minoranza di italiani a schierarsi contro l'armistizio. Nasce con quei nuclei che si raccolgono intorno a un ufficiale che ha deciso di non accettare la resa, in quei gruppi di giovani che prima della ricomparsa di Mussolini vanno a riaprire le federazioni, in quei manipoli di ragazzi che si presentano a un comando tedesco a chiedere di essere inviati a combattere, i quali tutti anche in seguito conserveranno una notevole indipendenza e autonomia dal governo centrale, che non sarà mai in grado, per le interferenze dei comandi tedeschi, la precarietà delle comunicazioni, l'assenza di una vera autorità, anche morale, per uno spirito ribaldo e anarcoide che anima tutti, di dare un indirizzo politico unitario, esercitare un reale imperio. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.79-80)
In una serie di interviste rilasciate nel 1964, ai collaboratori di Ruggero Zangrandi, Junio Valerio Borghese, comandante della Xa Mas, che fu il più agguerrito ed efficiente corpo militare della RSI, dichiarava: 'Io non dò troppo peso alle definizioni. Poniamo, ad esempio, il quesito: 'Fu fascista la RSI'. Per me, la RSI rispose a una esigenza morale e nazionale: avrebbe potuto formarsi anche senza Mussolini. Non va confusa con il fascismo tradizionale. Alla RSI aderirono uomini che non erano mai stati fascisti e si trovarono a fianco con fascisti del ventennio per un ideale più alto di quello di un partito'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.80-81)
È la Patria senza aggettivi che indica il maresciallo Rodolfo Graziani, ministro della guerra, con quel suo intestardimento a dar vita a un esercito apolitico al quale consegnerà come distintivo da appuntare sulle mostrine delle uniformi, al posto delle stellette dell'esercito regio, il gladio romano circondato da un serto d'alloro e su impressa la scritta ITALIA. E nel processo che gli sarà intentato dopo la guerra, la sua difesa sarà tutta sulla linea che dà il titolo al suo libro 'Ho difeso la Patria'. Quella di aver appiattito tutta la RSI, tutte le sue diverse componenti, la sua vera anima, sull'etichetta 'fascista' è stata una delle più riuscite operazioni di falsificazione storica attuate dall'antifascismo, sia quello autentico, che aveva patito prigione ed esilio, sia quello nuovo e nuovissimo, in irresistibile odore di opportunismo ed eterno italico trasformismo. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.83)
Ma allora perché quegli uomini sono lì, perché hanno scelto quella via? Perché hanno messo a repentaglio le loro vite, il loro avvenire in un'avventura che molti sanno o intuiscono non può concludersi che nella sconfitta? Perché sono lì, da quella parte, 62.000 ufficiali dell'ex Regio esercito, tra cui non pochi di quelli che si sono battuti contro i tedeschi nella mancata difesa di Roma, i quali hanno risposto all'appello lanciato da Graziani nel raduno dell'Adriano del 10 ottobre '43, che si concluse con l'accorata invocazione: 'Io vi dico, camerati: superate voi stessi, superate voi stessi! Guardate solo in faccia alla vostra coscienza. La Patria, la Patria, la Patria è quello che vale'. [...] La lista non è finita qui. Perché su quella barricata, eroica e feroce insieme, contraddittoria e grottesca, ad aumentare la confusione e ad aggiungere una nota di sconcerto ci sono, come ha ricordato G.B. Guerri, uomini come Nicola Bombacci, il vecchio rivoluzionario, fautore della scissione di Livorno del PSI e fondatore, con Amedeo Bordiga, Antonio Gramsci, Umberto Terracini, del Partito Comunista d'Italia! (da 'I balilla andarono a Salò', pag.85)
Ci sono tutti questi uomini di diversa provenienza e discordanti esperienze, accomunati da qualcosa che è scattato nei giorni dell'8 settembre e li ha spinti a compiere quel passo, sperando molti di essi di dare a quel gesto un valore che, al di là di ogni considerazione di ordine 'realistico', si situi in un ambito ideale nel quale possa restare e assumere il significato di simbolo. [...] Anch'essi, molti, pagheranno con il sangue, quali 'collaboratori col tedesco invasore', 'spie', 'traditori', il silenzioso, schivo, pudico rifiuto di 'voltar gabbana'. E anche gli atroci squadristi, che forniranno rancori inaciditi e ferocie imputridite alle Brigate Nere, non sono quelli che hanno avuto posti e prebende durante il ventennio, quelli che hanno imperversato nelle organizzazioni e negli istituti del fascismo, ma sono quelli che usati nel '21, furono messi da parte ed emarginati dal regime. Essi si riaffacciano carichi di rimproveri e di volontà di vendetta verso gli uomini del regime, e si richiamano al 'fascismo primigenio' di San Sepolcro (quello nel cui programma si riconosceva nel '36 la classe dirigente del Partito Comunista), repubblicano e rivoluzionario, che ancora sa delle sue origini anarco-sindacaliste, socialiste, ardite, fiumane, futuriste. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.86-87)
Importante, mi sembra, quest'ultima constatazione, nella quale, già allora, negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra c'era qualcuno di noi che sapeva chiaramente come quei soldati, quei giovani, che volontari o di leva si erano arruolati nelle forze armate di Salò, erano andati, consapevoli o meno, 'a pagare' per il fascismo, perché qualcuno doveva pur esserci che avesse il coraggio e la dignità di andare a saldare il conto che il paese aveva aperto con la storia, ad assumersi per tutti la responsabilità di quella che era stata una generale ubriacatura nazionale. In quel contesto Bolzoni racconta episodi che hanno del paradossale: quello di un marò della divisione San Marco che per aver fatto esplodere un carro armato americano era stato decorato della croce di ferro tedesca, e che avrebbe potuto benissimo, secondo l'autore, essere fregiato anche della bronze star americana per aver sabotato nei pressi di San Savino due camion carichi di SS, provocando la morte di numerosi di essi. Quel soldato era figlio di ebrei: la madre era stata inviata in campo di concentramento, mentre il padre era stato ucciso dalla mitraglia di un Mitchell americano. E ancora il caso di un alpino del gruppo 'Bergamo', 'feroce antifascista' reduce di Russia da dove aveva riportato in patria un lembo della bandiera del reggimento, e dove il suo capitano, nelle gelide notti passate davanti alla stufa in un caposaldo sul Don, lo aveva iniziato al comunismo, che egli a sua volta andava spiegando ai suoi commilitoni dell'esercito di Graziani, il quale però continuava a combattere nel suo gruppo alpino dalla parte di Salò, perché quel suo capitano, morendo, gli aveva detto: 'la bandiera soprattutto'. Casi estremi e singolari, ma che danno la misura di quanto variegata e contraddittoria fu la partecipazione a quella esperienza anche a livello di semplici soldati, di giovani, di ragazzi idealisti, che pagarono largamente, molti con la vita, e furono bollati dall'etichetta, che pretendeva di infamarli, di 'fascisti', mentre proprio la loro partecipazione, la loro ingenua dedizione, i loro inutili eroismi quella etichetta nobilitarono. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.96-97)
'Io vivo per la Patria e per la Patria ho giurato la morte' scriveva alla madre, prima di essere fucilata, agli inizi di maggio 1943, nei pressi di Torino, Margherita Audisio giovane ausiliaria di vent'anni: 'Tutti i pensieri, le passioni di adolescente, di giovane ventenne non mi hanno fatto volgere gli occhi, non mi hanno vinto. Io sento le pupille sbarrate all'orizzonte lontano e nebuloso: là è la Patria'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.97)
Anche se in momenti di esaltazione c'era chi si aggrappava alla chimera delle armi segrete che avrebbero capovolto le sorti dello scontro, oscuramente sapevamo che gli esiti di quella guerra erano segnati e che comunque noi, come nazione, ne eravamo fuori. 'Io non voglio tornare al fronte per vincere la guerra' scrive in un romanzo autobiografico, un altro ragazzo di Salò, Mario Gandini, giovane sottotenente d'artiglieria, che, reduce dal fronte russo, dopo mesi di incertezze e interrogativi, decide di riprendere le armi, e si presenta a un centro di arruolamento. 'Voglio tornare al fronte per perderla. Soltanto che la voglio perdere a modo mio'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.101)
Si è per decenni speculato sulla ferocia della repressione, l'accanimento nei rastrellamenti, la durezza dell'azione antipartigiana di queste formazioni, facendo di ciò la sola reale ispirazione della RSI. Durezza, atrocità, violenze ci furono, eppure esse non furono che l'omologo della stessa durezza, ferocia, violenza delle forze partigiane, come avviene, senza resti e senza sconti, in ogni scontro che ha carattere di guerra civile come ci hanno poi confermato le guerre d'Algeria, del Vietnam, d'Afganistan eccetera. Al di là di quei giudizi denigratori espressi dagli storiografi della Resistenza sull'esercito repubblicano, presentato come una sorta di accozzaglia di compagnie di ventura, che solo hanno sete di sangue e di violenza, in una visione grottescamente manichea, quali erano in realtà i sentimenti di quei soldati che, arruolatisi per andare a combattere il nemico esterno che ha invaso l'Italia, si trovarono di fronte all'amaro compito di affrontare altri italiani in una guerra fratricida che si farà col tempo, per il concatenarsi delle reciproche ritorsioni sempre più feroce e spietata?. [...] Ho rintracciato negli Archivi dello Stato una lettera, della quale avevo completamente perduto memoria, inviata a Mussolini nell'ottobre del '44 dai legionari della mia stessa compagnia, appartenente a un reparto, che in quell'opera di repressione era stato durissimo, come durissima era stata l'azione partigiana contro di esso nelle operazioni di polizia in cui era stato impegnato prima in Valsesia, poi sull'Appennino umbro-marchigiano e infine in alta Valcamonica. In questa lettera, redatta in un linguaggio che mostra chiaramente la semplicità d'animo, l'ingenuità e il modestissimo livello culturale di chi scriveva, quei giovani soldati chiedevano al Duce che il reparto venisse liberato dai compiti di controguerriglia cui era stato assegnato, manifestando chiaramente un sentimento di repulsa per questo genere di impiego. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.137-138)
Ci eravamo arruolati per andare al fronte ad affrontare quello che continuavamo a considerare il nemico straniero che aveva invaso il nostro paese, in uno scontro leale, faccia a faccia, sulla linea del fuoco, e fummo invece costretti, amareggiati e riluttanti, a combattere contro altri italiani che ci sparavano alle spalle e ci tendevano insidie e imboscate. E ben noto che quando nell'estate '44 la Xa Mas fu spostata dalla sua sede originaria di La Spezia a Ivrea, in una zona già infestata da bande partigiane, il comando del reparto fece affiggere dappertutto manifesti in cui si professava che la Xa aveva come scopo quello di fare la guerra agli alleati e non aveva alcuna intenzione di entrare in conflitto con altri italiani. Fu solo dopo l'agguato, avvenuto nel luglio '44, in cui una formazione partigiana mancando fede alla tregua d'armi stipulata per parlamentare massacrò vilmente dieci marò e ufficiali, fra i quali il capitano di corvetta Umberto Bardelli, che aveva comandato il battaglione Barbarigo sul fronte di Nettuno, e in seguito ad altre uccisioni ugualmente proditorie, che il reparto fu costretto a prendere misure antipartigiane per tutelare l'incolumità dei propri soldati. Prima di dare inizio a operazioni di polizia il comandante Borghese radunò i suoi ufficiali e concesse a chi non se la sentiva di affrontare quel compito la smobiitazione dal reparto, cosa che fu attuata per quindici di essi. Nessuno di quei giovani che hanno lasciato le loro case e le loro famiglie, gli studi, le normali attività di vita per arruolarsi nelle formazioni volontarie della RSI, ha immaginato allora che l'Italia sarebbe stata trascinata in quel gorgo di sangue e che essi sarebbero stati chiamati a combattere, e in quel modo così spietato, contro altri italiani. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.139)
Personalmente, quando mi resi conto, pur nella mia cosmica ingenuità di diciottenne di allora, che quei 'compiti di polizia' cui eravamo stati adibiti ci avrebbero inchiodati chissà per quanto sotto quelle montagne, distogliendoci da quella che era la nostra sola e unica aspirazione, chiesi di essere smobilitato dal reparto. Molti dei miei commilitoni in infinite occasioni disertarono per unirsi a unità che si diceva sarebbero partite per il fronte. Ci furono reparti che giunsero fino all'ammutinamento e uomini pronti a mettere in giuoco la loro vita pur di non essere coinvolti in quella guerra fratricida, quasi che con quel rifiuto avessero potuto esorcizzarla. Emblematico è il caso del battaglione NP (nuotatori paracadutisti) di Valdobbiadene che nel gennaio del '45 si rifiutò di essere adoperato per una azione antipartigiana. [...] Nonostante i nostri rifiuti e la nostra repulsione, quella guerra di guerriglia si è imposta, e quei giovani, volenti o nolenti, sono stati costretti a combatterla. Ed essa, con le sue imboscate, i suoi prelevamenti notturni di 'fascisti', i suoi agguati all'angolo di una strada, in cui d'un tratto vedi cadere il compagno che hai accanto, quello con cui hai diviso una sigaretta o una pagnotta, senza neppur aver scorto la faccia di chi ha sparato, senza aver avuto alcuna vera opportunità di combattimento, susciterà un sentimento di offesa, un rabbioso senso di rivolta da cui scaturisce una implacabile volontà di vendetta a ogni costo. L'odio, all'inizio inspiegabile, arcano, devastante, di cui ti senti fatto oggetto produrrà altrettanto odio per quel nemico invisibile e insidioso che ti colpisce da dietro una roccia o al riparo di un albero e si dilegua, come hanno sperimentato tutti i soldati che sotto ogni latitudine hanno combattuto guerre siffatte. Ed esso dilaga come un fiume, avvelena le passioni. Alla violenza si risponde con la violenza, al sangue col sangue, alla ferocia con la ferocia in una interminabile spirale di vendette e controvendette. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.140-141)
Allo sfruttamento tedesco nei confronti della Repubblica Sociale Italiana, risultato del vassallaggio a cui quest'ultima era sottoposta, fa contrasto il fatto che dalle tragiche giornate dopo l'8 settembre in poi, non meno di 300 generali e di oltre 62.000 ufficiali aderirono ad essa: di certo molti solo per lo stipendio e la carriera, ma molti anche nella sincera convinzione di salvare così il proprio onore di soldati e di italiani. (da 'In nome della resa', pag.414)
Per obiettività, tuttavia, dovremo aggiungere che fra il mezzo milione di prigionieri italiani in mano anglo-franco-americana, ben 80.000 di essi aderirono alla RSI (sono cifre risultanti da appositi plebisciti indetti dalle autorità alleate) e ciò dimostra che Graziarli avrebbe avuto più successo se avesse avuto possibilità di disporre di quei prigionieri di guerra. (da 'In nome della resa', pag.416)
Quanti furono allora i militari della RSI? Secondo i dati ufficiali, se si esclude la GNR, le forze armate repubblicane comprendettero 248.000 uomini: 143.000 dell'esercito, 79.000 dell'aviazione e 26.000 della marina. Altri 382.000 uomini formarono le cosiddette truppe ausiliarie. Queste cifre non dicono naturalmente alcunché sul numero dei disertori, che furono tanti, tantissimi, ma non cosi tanti da impedire una partecipazione alla guerra non grande, ma brillante (e comunque non inferiore a quella delle forze armate regie), partecipazione di cui parleremo dettagliatamente in seguito. Coloro che, per partito preso, denigrano le forze armate repubblicane, perché credono che solo cosi si possa essere buoni antifascisti, dimenticano che l'indagine storica non può essere 'politica' e non si accorgono che, anche affermando la teoria della 'diserzione di massa' non si può negare che vi furono rispettabilissime resistenze a Mondragone, a Nettuno, a Barga, a Tossignano, a Tarnovo e allo Chaberton. La teoria poi, che solo il terrore tenesse assieme quelle forze armate, condanna ancor di più i partigiani che si macchiarono di violenze nei confronti di quei soldati dopo la loro resa nel 1945 e la repubblica attuale, che tuttora non concede a quei soldati nessun riconoscimento, neppure ai fini previdenziali. (da 'In nome della resa', pag.417-418)
Protagonisti dell'episodio furono i paracadutisti che, sul fronte calabrese, non accettarono la resa e decisero di continuare la guerra con i vecchi alleati. Belisario Naldini, nel suo libro Morire per qualcosa, descrive lo stato d'animo di quei soldati la sera dell'8 settembre: 'Penso possa significare qualcosa il pianto che eruppe dagli occhi di molti di quei ragazzi, lo smarrimento che li assalì, il silenzio dei primi minuti nei quali nessuno voleva o poteva credere [alla resa]. Non era il desiderio di proseguire una guerra che anche i più ottimisti comprendevano ormai senza speranza, né alcun risentimento di natura polìtica, ma la sensazione netta e precisa della fine ingloriosa di un conflitto combattuto fra mille difficoltà'. Avevano insomma la certezza che niente fosse salvo, la preoccupazione di ciò che potessero pensare o fare i tedeschi dopo quell'avvenimento. Spinti dalla molla profondamente patriottica di far di tutto per salvare l'Italia dall'accusa di tradimento, non solo da parte dei tedeschi, ma anche degli stessi anglo-americani, decisero di rifiutare la resa. Il loro comandante, capitano Edoardo Sala, lo disse ai suoi uomini: 'Dissi loro che personalmente non intendevo arrendermi, perché non potevo credere che il re avesse dato l'ordine di affiancare l'esercito italiano agli anglo-americani per combattere contro l'alleato germanico. Tale gesto non era degno del re-soldato!'. (da 'In nome della resa', pag.426)
Un incidente, avvenuto il 10 aprile al Ponte di San Pietro, a Gorizia, ne aveva fornito l'occasione. Un ufficiale cetnico, ubriaco, aveva cercato di superare in macchina, senza fermarsi, il posto di blocco n.3 (tenuto da elementi del 4° reggimento della MDT) ed era stato ucciso dopo che aveva tentato di colpire al volto il comandante italiano che si era avvicinato al finestrino della vettura. Il giorno dopo i tedeschi intimarono di cedere il posto di blocco ai serbi. Gli italiani dovettero piegare la testa ed il piccolo presidio (portato, dopo l'incidente, a 21 uomini) incominciò ad incamminarsi verso un vicino sottopassaggio. A questo punto i serbi, al cenno di un caporale tedesco, presero a sparare all'impazzata: il capitano Orlando Dilena fu colpito a morte e con lui 16 dei suoi uomini, fra cui Dajmo Draghicevic, un diciannovenne spalatino di sentimenti italiani. Quando, il 13, ci furono i funerali vi erano anche, mimetizzati tra la folla, i partigiani della Osoppo. Alcuni giorni dopo furono infatti trovati sulle tombe dei fiori ed un biglietto: 'I partigiani italiani ai difensori di Gorizia italiana'. Ormai non si trattava più di fedeltà a Roma o a Gargnano, di fascismo o di antifascismo: da una parte e dall'altra, in quell'angolo d'Europa, gli italiani non avevano più né amici, né alleati, ma solo nemici che li volevano liquidare in quanto tali... Ed in questa situazione, il 27 aprile, si ritenne giunto il momento di difendere Gorizia tutti assieme: soldati repubblicani e partigiani verdi. Ce n'era bisogno. Tito ed i suoi generali avevano impartito ordini molto espliciti, che Carlo Simiani ha cosi condensato: 'Sono da considerarsi terre slave quelle al di qua dell'Isonzo e gli abitanti delle stesse crudeli invasori e sfruttatori del popolo iugoslavo... è dovere dì ogni buon soldato comunista liberare città e villaggi, trucidandone le popolazioni senza pietà; sradicare usi e costumi, diffondere la nuova luce dell'Oriente accesa dal verbo marxista [sic!] di Mosca'. (da 'In nome della resa', pag.545)
In forza di questa autorità e dei suoi riconosciuti diritti, Borghese fece immediatamente il giro dei vari improvvisati campi di concentramento in cui i tedeschi, per deportarli in Germania, avevano raccolto reparti dell'ex Esercito italiano o della Marina che si erano arresi, o militari sbandati o civili che erano stati rastrellati. Borghese riuscì a sottrarre alla deportazione centinaia di uomini prendendoli in forza alla X Mas. Appena giunti in sede, chi di essi non voleva realmente arruolarsi (ed erano i più) veniva fornito dal nostro comando di regolare congedo e lasciapassare, in modo che potesse tornare indisturbato alla propria famiglia. In quei giorni, alla sede del Muggiano accorsero molte donne per segnalare in quali zone i propri congiunti, arrestati dai tedeschi, erano stati raccolti, e il Comandante interveniva immediatamente. Proprio per questa assidua, rapida e instancabile azione di salvataggio di centinaia di uomini, a La Spezia la Decima Flottiglia Mas era considerata un'ancora di salvezza ed era portata in palmo di mano dalla popolazione. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.42-43)
Alla nostra sede affluirono anche numerosi elementi specializzati tra cui ufficiali e sottufficiali istruttori provenienti da Tarquinia, e nuotatori da Livorno. A questi si unirono reduci della Folgore e della Nembo. Altri provennero dal 10 reggimento Arditi. Alcuni piloti della X Mas, tagliati fuori dallo sbarco di Salerno, riuscirono ad attraversare a piedi le linee nemiche e a tornare alla base di la Spezia. Qual era la forza che li spingeva? Come avvenne il fenomeno di migliaia di uomini di tutte le età, di tutte le classi sociali, di varie ideologie politiche, che corsero ad arruolarsi nella X, anelanti di combattere? Costoro oggi son definiti, da un postulato imposto come un credo, avventurieri, soldati di ventura, rinnegati al soldo del nemico ecc. ecc. Ma in realtà che cosa poteva portare volontariamente alle armi mutilati di tutti i fronti, se non l'amor di Patria e la volontà di poterle essere ancora utili? E furono centinaia i mutilati che chiesero di arruolarsi nella Decima! E quale sentimento mosse veterani delle campagne d'Africa, di Grecia e di Russia, se non l'amor di Patria? E i giovanissimi delle classi non ancora chiamate alle armi che avevano una sola aspirazione: essere mandati in linea? E ancora: generali e ammiragli ed ex ministri e ufficiali superiori di tutte le armi che si presentarono alla Decima chiedendo di servire la Patria da semplici soldati? Chi li spingeva? Forse il lucro, l'ambizione? La libidine di tradimento? O non piuttosto una volontà decisa, quasi furente, quella di salvare l'Onore del combattente italiano, non subire la resa incondizionata, infamante per i morti, fatale per i vivi? E tutti hanno pagato, chi con la galera, chi con le persecuzioni, chi con le calunnie, chi col sacrificio della vita. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.47)
Una particolare iniziativa che la X intraprese fu quella del recupero di ufficiali e marinai internati in Spagna. Si trattava degli equipaggi delle navi da guerra che il 9 settembre 1943 si erano fermate a raccogliere i naufraghi della corazzata Roma. La piccola squadra navale, capeggiata dall'incrociatore Attilio regolo [...] s'era diretta a Minorca. Qui [...] gli equipaggi erano passati in internamento [...] Borghese concepì allora l'idea dell'operazione 'Recupero internati dalla Spagna' e la direzione dell'iniziativa fu assunta a Bordeaux dal comandante Grossi [...] Egli avrebbe fornito abiti civili, passaporti e guide per il passaggio in Francia. Qui giunti, essi dovevano dichiarare di volersi arruolare nella X e in questo modo egli li poteva spedire a La Spezia, con l'intesa, poi, che chi non intendeva effettivamente arruolarsi era libero di andare dove voleva. Ma furono in molti ad arruolarsi volontari nella X Flottiglia Mas. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.49)
L'opera assistenziale della X già si estendeva a molte centinaia di persone appartenenti alla Marina ivi comprese le famiglie dei nostri ufficiali e marinai che le vicende della guerra avevano relegato nell'Italia del Sud. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.58)
Ritengo che dai fatti narrati emerga una realtà indiscutibile: la Decima era un'unità di volontari uniti da un solo ideale, quello dell'amor di Patria. Non mi stancherò mai di ripeterlo. Quegli ufficiali, quei ragazzi, spesso quei ragazzini, volevano combattere per l'Onore, non credevano nella vittoria, non si facevano illusioni sul domani. Volevano solo cancellare il disonore che pesava sull'Italia. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.59)
'La maggior parte degli storici, scrive Bonvicini, ha prestato scarsa o addirittura nessuna attenzione al fenomeno del volontariato nell'esercito della Repubblica Sociale Italiana. Quanti furono questi volontari? Escludendo i reparti di partito (come le Brigate Nere e quelli della polizia, come la PAI o la Muti), tale volontariato può calcolarsi nella cifra prudenziale di 200.000. Ma è più attendibile che arrivò a toccare le 250.000 unità, tra uomini e donne'. Quel che è certo è che nessun momento della storia d'Italia, dal Risorgimento a oggi, ha mai avuto un tale afflusso di volontari: non le guerre sabaude o i moti mazziniani o le imprese garibaldine, non la prima guerra mondiale, non la seconda dal 1940 al 1943, e tantomeno la Resistenza. Ciò, invece, si verificò dal 1943 al 1945, nel momento in cui l'Italia era tagliata in due da un fronte di combattimento, quando già molte migliaia di soldati italiani erano morti, feriti o prigionieri, in un Paese diviso e occupato da opposti eserciti stranieri, distrutto, avvilito, disprezzato e sul punto di perdere la propria identità nazionale. E, in più, questi volontari di guerra davano per scontata la loro sconfitta. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.98)
Eppure, ci ricorda Alessandro Cova, strano ma documentabile, il bando del 9 novembre 1943 si rivelò un successo [...] Alla cartolina precetto risposero in 87.000 chiamati alle armi. L'Emilia brillava col 98 per cento dei presenti all'appello. Erano le classi 1924 e 1925 (diciottenni e diciannovenni). Con gli ufficiali il successo assunse proporzioni straripanti: 300 generali e 40.000 ufficiali di grado inferiore, quanto occorreva per 100 divisioni. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.105)
Tutti furono aiutati senza alcuna discriminazione, nei limiti del possibile. Anche i familiari degli appartenenti alla Marina che si erano schierati con Badoglio, ricevettero, quando fu necessario, aiuti e solidarietà. Il capitano di vascello Ernesto Forza, comandante della X dal 1941 al 1943, così dichiarò al processo contro Borghese: 'Dopo l'8 settembre il Borghese aiutò la mia famiglia che era rimasta isolata a Roma, devolvendole la somma di lire 20.000 prelevata da un fondo di beneficenza organizzato dal Borghese per aiutare le famiglie degli ufficiali che si erano diretti al Sud'. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.106)
La situazione dei militari della nostra Marina, fatti prigionieri nel settembre-ottobre 1943 e deportati in Germania, era particolarmente preoccupante. Mancavano d'indumenti adatti, pativano la fame, non ricevevano notizie da casa. Malgrado qualche spedizione più che altro a scopo di propaganda politica organizzata dal governo repubblicano, o dal clero, gli italiani trattenuti in Germania mancavano di tutto. Nessuno aveva mai portato loro una parola di conforto e di solidarietà. Dopo lunghi colloqui con Wolff e Rahn, Borghese ottenne il permesso di inviare nei campi di concentramento tedeschi una missione guidata da sua moglie Daria. In breve tempo fu approntato un camion che volontarie dell'ufficio assistenza riempirono di 500 pacchi contenenti vestiario e generi di conforto. La missione toccò ben 32 campi di concentramento, distribuì pacchi ai militari internati, raccolse la loro corrispondenza per le famiglie, portò espressioni di fraternità a quanti, lontani dalla loro terra, scontavano una colpa non commessa. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.106-107)
Numerose testimonianze di uomini appartenenti all'una e all'altra parte, rese anche in sede giudiziaria, confermano il contributo essenziale dato da Borghese alla salvezza del porto di Genova. Tra queste, la deposizione giurata, fatta in tribunale il 17 dicembre 1948, da Vito Pavano, ufficiale del SIM del Regno del Sud presso il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. 'So che Borghese si interessava per la salvezza del porto di Genova, dichiarò Pavano, e per questo scopo egli si adoperava presso il servizio segreto tedesco [...] E a me sembro l'unico che ottenne risultati positivi'. Infatti, come sostenne Carlo Silvestri: 'Non è niente vero che i tedeschi avessero rinunciato alla distruzione degli impianti industriali dell'Alta Italia in seguito alle trattative col CLNAI'. E furono soprattutto 'le leali trattative da combattente a combattente intercorse il 14 aprile 1945 tra il generale Wolff e il Comandante Borghese [...] che indussero i tedeschi alla rinuncia al sabotaggio dei porti di Genova, Savona, Marghera e dell'arsenale di Venezia, e al piano di totale distruzione già ordinato personalmente da Hitler che, senza dubbio, avrebbe determinato scontri sanguinosi tra le forze tedesche e quelle italiane, scontri che avrebbero potuto disturbare gravemente la ritirata'. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.194)
Quale meraviglia se la loro carenza produrrà poi quelle reazioni che portarono centinaia di migliaia di uomini, sparsi su tutti i fronti, a rimanere a fianco del vecchio alleato, per seguirne fino all'ultimo le sorti, senza affatto calcolare se si puntasse sul vincente o sul perdente, ma solo per essere fedeli al simbolo dell'onore?. (da 'Una vita per l'Italia', pag.154)
Dopo la resa dell'aprile 1945, la Corte Internazionale Permanente riconobbe alle truppe della Repubblica Sociale la qualità di combattenti regolari ed il trattamento di prigionieri di guerra. Successivamente un decreto del governo italiano stabiliva che il fatto di aver appartenuto ad esse, e di aver prestato giuramento al governo repubblicano, non era considerato reato. In seguito a ciò, i suddetti venticinquemila ufficiali, ed i settecentottantamila circa armati repubblicani non sono stati perseguiti per legge. (da 'Una vita per l'Italia', pag.215)
Ma ecco finalmente a fare il punto la sentenza della Corte d'Assise, Sezione Speciale, di Roma nella causa contro il generale Berti e gli altri componenti il Tribunale di Guerra del C.A.R.S. (Corpo Addestramento Reparti Speciali) e del C.O.G.U. (Corpo Controguerriglia), responsabili di aver pronunciato molte sentenze di condanna a morte, poscia eseguite, di partigiani. Tutti gli imputati - presidente, giudici e pubblico accusatore - sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato. La Procura Generale non ha ricorso avverso la sentenza, che è pertanto divenuta irrevocabile. La sentenza ha affermato che il principio della Repubblica Sociale Italiana fu uno Stato, nel senso politico e giuridico della parola, e come tale essa fu rivestita dei poteri e delle funzioni sovrane, che allo Stato competono. (da 'Una vita per l'Italia', pag.275)
Nello studio di un amico pittore incontrai un giovane professore comunista, insegnante di storia e filosofia nelle scuole superiori, persona colta e garbata. Una volta saputo del mio passato repubblichino, mi accennò alla sua conoscenza con un ex ufficiale della Xa Mas di Bologna, di cui mi disse il nome, che mi lasciò ovviamente del tutto indifferente. Sorpreso e quasi incredulo per quella mia ignoranza, il giovane professore mi manifestò con candore la sua meraviglia: 'Ma, come! Eravate così pochi che credevo proprio vi conosceste tutti!'. E' evidente che quel professore di liceo, che andava insegnando, non so se con sussiego o, così, alla buona, la recente storia nazionale alle nuove generazioni di italiani, era stato formato dai luoghi comuni diffusi e ribaditi dalla sterminata letteratura di parte sull'argomento, la quale faceva appunto degli uomini di Salò un'insignificante minoranza, formata da un pugno di vecchi incalliti manigoldi e da una manciata di sciagurati ragazzi traviati, estranei al paese reale, tutto schierato dall'altra parte. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.24)
Giampaolo Pansa, di parte contraria, nel suo libro 'L'esercito di Salò', opera che si fonda su dati parziali e fonti particolari, non avanza cifre globali, limitandosi a mettere in luce soprattutto il fenomeno della renitenza alla leva che afflisse fin dall'inizio la chiamata alle armi delle classi '23, '24, '25, '26, la fluidità di molti reparti, che sembrano dilatarsi e sgonfiarsi a seconda delle circostanze, le diserzioni, i passaggi da un campo all'altro. Quasi che di questi mali non ebbero a soffrire, specularmente, per ovvie e contrapposte ragioni, anche le forze partigiane, per non parlare della quasi totale renitenza alla leva che si verificò nell'Esercito Regio nelle regioni del sud dove, ormai giunti i liberatori anglo-americani e la tanto agognata 'pace', nessuno aveva più voglia di ricominciare una naja, riprendere le armi, gettate l'8 settembre, per un governo definitivamente squalificato. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.25)
Insomma, in quel periodo di grande disorientamento delle coscienze, così incerto negli esiti, e soprattutto al di là di ogni considerazione di opportunismo e di calcolo personale, le quali suggerivano invece una scelta diversa, alcune centinaia di migliaia di giovani italiani sentirono l'imperativo di mettere a repentaglio le loro vite, condizionare il loro futuro, abbandonare studi, case e famiglie per schierarsi dalla parte 'fascista', che 'ha ancora una sua capacità di appello presso i giovanissimi', come Bocca riconosce. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.26)
Di non diversa natura è la scelta dei capitano di vascello Junio Valerio Borghese, comandante della Xa Mas, e degli uomini alle sue dipendenze. [...] Si barricò con quelli dei suoi subalterni che vollero restare nella base della Xa Mas, in quella striscia di terra tra La Spezia e Lerici, pronto a difendersi contro chiunque avesse preteso la sua resa, cioè in sostanza contro i tedeschi, gli unici che in quella situazione gli avrebbero potuto portare offesa, tanto che, come dichiarò più tardi: 'Se un tedesco avesse tentato, dopo l'8 settembre, di disarmarmi o di fare violenza alla 'Decima' avrei dovuto difendermi: se fossi stato ucciso, cosa probabile, oggi sarei stato considerato un eroe della Resistenza'. Altri reparti sparsi per la penisola o nei territori occupati dal nostro esercito, spesso ridotti a un pugno di uomini, in un paesaggio di disfatta e di fughe, compirono la stessa scelta, per gli stessi elementari motivi di 'dignità di soldati' e di 'onore' che, nonostante tutto, in quel momento di dissoluzione di ogni punto di riferimento sono sopravvissuti. Va sottolineato che queste scelte - che poi condussero a Salò -, questa decisione di non arrendersi, questo soprassalto del sentimento di rivolta contro la vergogna e le conseguenze di quella resa, si determinarono nei giorni immediatamente successivi all'8 settembre, cioè prima della liberazione di Mussolini da parte dei tedeschi, indipendentemente da essa, prima della formazione di qualsiasi embrione di governo 'fascista', prima ancora che se ne potesse ipotizzare la costituzione; avvennero per moto spontaneo, in circostanze particolari, per decisioni individuali prese sul campo. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.34)
In quel momento di sbandamento generale, parallelamente alle scelte di quei reparti militari, si produssero nell'animo di una minoranza di giovani confusi moti di rivolta e di rifiuto che non sono nei più ancora chiaramente differenziati. Scatta in alcuni un istintivo soprassalto di ribellione contro lo sfacelo che si scorge attorno, un sentimento di non accettazione della miseria morale in cui è sprofondato il paese, il bisogno di dissociarsi dalle viltà, le fughe, l'abbandono, che si manifestarono nel cercarsi fra coetanei, nell'impulso a unirsi, a fare gruppo. Quando, nei primissimi giorni dell'occupazione tedesca, con un gruppetto di coetanei mi presentai a un comando germanico a Roma con la richiesta di essere 'inviato al fronte a fermare il nemico', c'era tra noi un ragazzetto di sedici anni, un piccolo siciliano, Franco Grita, studente di scuola media superiore, che in quegli incontri in cui decidemmo di compiere quel passo, mi stringeva il braccio e continuava a ripetere: 'Stiamo insieme, stiamo insieme', quasi che in quel gruppetto egli ritrovasse il sentimento della patria che era andata in pezzi. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.35)
Sono ragazzi, poco più che adolescenti, che manifestano rabbie e delusioni, barlumi di speranza e di rifiuto. Alla fine di quella giornata, quando ci contammo nell'anticamera di quell'ufficiale tedesco, al quale ci eravamo rivolti per 'andare a combattere' e che non sapeva come esaudire quella nostra richiesta, ma, congedandoci, ci chiese da soldato l'onore di stringerci la mano, eravamo in venti. Andando là in gruppetti di due o tre, studenti liceali, matricole universitarie, giovani artigiani, indipendentemente gli uni dagli altri, avevamo sentito lo stesso impulso di 'presentarci' e chiedere che ci venissero 'date le armi' che gli altri avevano buttato. Altri compirono lo stesso passo in altre città. Giovanissimi, ancor prima della costituzione della RSI si presentarono ai comandi tedeschi o diedero vita a spontanee embrionali formazioni, che furono poi assorbite dalle prime unità regolarmente costituite dal governo di Salò. A Firenze - come mi raccontò l'animatore dell'iniziativa, un giovane della mia stessa età, Alessandro Guarnieri - un gruppo, che raggiunse la consistenza di 56 ragazzi, in quegli stessi giorni si presentò al comando germanico della città con la nostra stessa richiesta. [...] Questo plotone, insieme alla divisione della quale faceva parte, venne inviato sul fronte russo meridionale e si segnalò in vari scontri sulla testa di ponte di Nikopol, sul Dnieper e in altre località dove combatté fino al novembre 1944. Si trattava di giovani dai sedici ai vent'anni (ce n'erano anche di quindici e quattordici, che giunti clandestini al fronte, nascosti sotto e dentro i mezzi blindati sui carri ferroviari, furono rimpatriati). (da 'I balilla andarono a Salò', pag.35-36)
Riflettendo sulle cause che spinsero i giovani usciti dai ventennio fascista su questa o quell'altra strada, Italo Calvino ha scritto che in quei giorni di generale disorientamento bastò un niente a decidere un'esistenza: l'essersi trovati in un posto piuttosto che in un altro, aver fatto questa o quella esperienza personale, ovvero un'amicizia, l'incontro con una persona, la lettura di un libro. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.38)
Un altro luogo comune, costruito dalla storiografia antifascista della Resistenza è quello che fa della RSI una continuazione del ventennio fascista, anzi la sua logica conclusione, nella quale il fascismo, tolta la maschera di rispettabilità assunta negli anni del suo apogeo, mostrerebbe il suo volto più vero e odioso. [...] In realtà non c'è nulla di più inesatto. Nella sua nascita, nelle sue componenti umane, nelle intenzioni che mossero la maggior parte di coloro che aderirono alla RSI, nei loro comportamenti e anche nelle loro illusioni, c'è ben poco di quanto era stato per ventun anni il regime fascista. Nonostante che a capo di quell'effimero stato ci sia stato Mussolini, che il solo partito ufficialmente riconosciuto sia il Partito fascista repubblicano (tranne il tardivo esperimento di E. Cione che, tra il febbraio e il marzo del 1945, diede vita a un Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista),in quella repubblica i fascisti non furono che una minoranza, lo spirito che la dominò, perfino nell'ambito dello stesso PFR, fu di rifiuto e di condanna del ventennio trascorso, e la maggioranza di coloro che vi aderirono aveva a che vedere con il regime che aveva governato l'Italia per un ventennio non più della generalità degli italiani, compresi non pochi di quelli che scelsero la Resistenza. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.75-76)
Dei 29 membri del Gran Consiglio del fascismo, che era la suprema assise del regime, il cui voto determinò la liquidazione del fascismo, solo due aderirono alla RSI: Buffarini Guidi e Farinacci. [...] Degli ex segretari del PNF nessuno sarà a Salò. Lo stesso dicasi degli ex comandanti generali della Milizia. E solo mosche bianche o nere della pletora dei federali fascisti, dei presidenti, direttori generali, funzionari delle varie istituzioni e organizzazioni fasciste, Opera Nazionale Combattenti, Dopolavoro, GIL, ecc., dei membri della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, del Senato, daranno la loro adesione alla RSI. Carmine Senise nominato capo della polizia il 25 luglio registra la corsa di gerarchi, federali, prefetti a testimoniare il loro 'antifascismo', la loro segreta opposizione al regime, i loro distinguo, ad assicurare la loro adesione al nuovo regime. 'I prefetti fascisti rimasero tutti al loro posto, pronti a servire il nuovo governo: non uno di essi, non uno, mostrò il più lontano desiderio di essere collocato a riposo. Moltissimi anzi fecero premura in senso opposto [...]. Altrettanto avvenne nelle file della Milizia [...]'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.77-78)
Quella che sarà la RSI, abbiamo visto, nasce prima della sua costituzione ufficiale, prima che essa assuma una struttura istituzionale e una fisionomia politica, amministrativa, militare, e indipendentemente da essa. Nasce con quel soprassalto di indignazione contro la vergogna dell'8 settembre che muoverà una non esigua minoranza di italiani a schierarsi contro l'armistizio. Nasce con quei nuclei che si raccolgono intorno a un ufficiale che ha deciso di non accettare la resa, in quei gruppi di giovani che prima della ricomparsa di Mussolini vanno a riaprire le federazioni, in quei manipoli di ragazzi che si presentano a un comando tedesco a chiedere di essere inviati a combattere, i quali tutti anche in seguito conserveranno una notevole indipendenza e autonomia dal governo centrale, che non sarà mai in grado, per le interferenze dei comandi tedeschi, la precarietà delle comunicazioni, l'assenza di una vera autorità, anche morale, per uno spirito ribaldo e anarcoide che anima tutti, di dare un indirizzo politico unitario, esercitare un reale imperio. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.79-80)
In una serie di interviste rilasciate nel 1964, ai collaboratori di Ruggero Zangrandi, Junio Valerio Borghese, comandante della Xa Mas, che fu il più agguerrito ed efficiente corpo militare della RSI, dichiarava: 'Io non dò troppo peso alle definizioni. Poniamo, ad esempio, il quesito: 'Fu fascista la RSI'. Per me, la RSI rispose a una esigenza morale e nazionale: avrebbe potuto formarsi anche senza Mussolini. Non va confusa con il fascismo tradizionale. Alla RSI aderirono uomini che non erano mai stati fascisti e si trovarono a fianco con fascisti del ventennio per un ideale più alto di quello di un partito'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.80-81)
È la Patria senza aggettivi che indica il maresciallo Rodolfo Graziani, ministro della guerra, con quel suo intestardimento a dar vita a un esercito apolitico al quale consegnerà come distintivo da appuntare sulle mostrine delle uniformi, al posto delle stellette dell'esercito regio, il gladio romano circondato da un serto d'alloro e su impressa la scritta ITALIA. E nel processo che gli sarà intentato dopo la guerra, la sua difesa sarà tutta sulla linea che dà il titolo al suo libro 'Ho difeso la Patria'. Quella di aver appiattito tutta la RSI, tutte le sue diverse componenti, la sua vera anima, sull'etichetta 'fascista' è stata una delle più riuscite operazioni di falsificazione storica attuate dall'antifascismo, sia quello autentico, che aveva patito prigione ed esilio, sia quello nuovo e nuovissimo, in irresistibile odore di opportunismo ed eterno italico trasformismo. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.83)
Ma allora perché quegli uomini sono lì, perché hanno scelto quella via? Perché hanno messo a repentaglio le loro vite, il loro avvenire in un'avventura che molti sanno o intuiscono non può concludersi che nella sconfitta? Perché sono lì, da quella parte, 62.000 ufficiali dell'ex Regio esercito, tra cui non pochi di quelli che si sono battuti contro i tedeschi nella mancata difesa di Roma, i quali hanno risposto all'appello lanciato da Graziani nel raduno dell'Adriano del 10 ottobre '43, che si concluse con l'accorata invocazione: 'Io vi dico, camerati: superate voi stessi, superate voi stessi! Guardate solo in faccia alla vostra coscienza. La Patria, la Patria, la Patria è quello che vale'. [...] La lista non è finita qui. Perché su quella barricata, eroica e feroce insieme, contraddittoria e grottesca, ad aumentare la confusione e ad aggiungere una nota di sconcerto ci sono, come ha ricordato G.B. Guerri, uomini come Nicola Bombacci, il vecchio rivoluzionario, fautore della scissione di Livorno del PSI e fondatore, con Amedeo Bordiga, Antonio Gramsci, Umberto Terracini, del Partito Comunista d'Italia! (da 'I balilla andarono a Salò', pag.85)
Ci sono tutti questi uomini di diversa provenienza e discordanti esperienze, accomunati da qualcosa che è scattato nei giorni dell'8 settembre e li ha spinti a compiere quel passo, sperando molti di essi di dare a quel gesto un valore che, al di là di ogni considerazione di ordine 'realistico', si situi in un ambito ideale nel quale possa restare e assumere il significato di simbolo. [...] Anch'essi, molti, pagheranno con il sangue, quali 'collaboratori col tedesco invasore', 'spie', 'traditori', il silenzioso, schivo, pudico rifiuto di 'voltar gabbana'. E anche gli atroci squadristi, che forniranno rancori inaciditi e ferocie imputridite alle Brigate Nere, non sono quelli che hanno avuto posti e prebende durante il ventennio, quelli che hanno imperversato nelle organizzazioni e negli istituti del fascismo, ma sono quelli che usati nel '21, furono messi da parte ed emarginati dal regime. Essi si riaffacciano carichi di rimproveri e di volontà di vendetta verso gli uomini del regime, e si richiamano al 'fascismo primigenio' di San Sepolcro (quello nel cui programma si riconosceva nel '36 la classe dirigente del Partito Comunista), repubblicano e rivoluzionario, che ancora sa delle sue origini anarco-sindacaliste, socialiste, ardite, fiumane, futuriste. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.86-87)
Importante, mi sembra, quest'ultima constatazione, nella quale, già allora, negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra c'era qualcuno di noi che sapeva chiaramente come quei soldati, quei giovani, che volontari o di leva si erano arruolati nelle forze armate di Salò, erano andati, consapevoli o meno, 'a pagare' per il fascismo, perché qualcuno doveva pur esserci che avesse il coraggio e la dignità di andare a saldare il conto che il paese aveva aperto con la storia, ad assumersi per tutti la responsabilità di quella che era stata una generale ubriacatura nazionale. In quel contesto Bolzoni racconta episodi che hanno del paradossale: quello di un marò della divisione San Marco che per aver fatto esplodere un carro armato americano era stato decorato della croce di ferro tedesca, e che avrebbe potuto benissimo, secondo l'autore, essere fregiato anche della bronze star americana per aver sabotato nei pressi di San Savino due camion carichi di SS, provocando la morte di numerosi di essi. Quel soldato era figlio di ebrei: la madre era stata inviata in campo di concentramento, mentre il padre era stato ucciso dalla mitraglia di un Mitchell americano. E ancora il caso di un alpino del gruppo 'Bergamo', 'feroce antifascista' reduce di Russia da dove aveva riportato in patria un lembo della bandiera del reggimento, e dove il suo capitano, nelle gelide notti passate davanti alla stufa in un caposaldo sul Don, lo aveva iniziato al comunismo, che egli a sua volta andava spiegando ai suoi commilitoni dell'esercito di Graziani, il quale però continuava a combattere nel suo gruppo alpino dalla parte di Salò, perché quel suo capitano, morendo, gli aveva detto: 'la bandiera soprattutto'. Casi estremi e singolari, ma che danno la misura di quanto variegata e contraddittoria fu la partecipazione a quella esperienza anche a livello di semplici soldati, di giovani, di ragazzi idealisti, che pagarono largamente, molti con la vita, e furono bollati dall'etichetta, che pretendeva di infamarli, di 'fascisti', mentre proprio la loro partecipazione, la loro ingenua dedizione, i loro inutili eroismi quella etichetta nobilitarono. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.96-97)
'Io vivo per la Patria e per la Patria ho giurato la morte' scriveva alla madre, prima di essere fucilata, agli inizi di maggio 1943, nei pressi di Torino, Margherita Audisio giovane ausiliaria di vent'anni: 'Tutti i pensieri, le passioni di adolescente, di giovane ventenne non mi hanno fatto volgere gli occhi, non mi hanno vinto. Io sento le pupille sbarrate all'orizzonte lontano e nebuloso: là è la Patria'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.97)
Anche se in momenti di esaltazione c'era chi si aggrappava alla chimera delle armi segrete che avrebbero capovolto le sorti dello scontro, oscuramente sapevamo che gli esiti di quella guerra erano segnati e che comunque noi, come nazione, ne eravamo fuori. 'Io non voglio tornare al fronte per vincere la guerra' scrive in un romanzo autobiografico, un altro ragazzo di Salò, Mario Gandini, giovane sottotenente d'artiglieria, che, reduce dal fronte russo, dopo mesi di incertezze e interrogativi, decide di riprendere le armi, e si presenta a un centro di arruolamento. 'Voglio tornare al fronte per perderla. Soltanto che la voglio perdere a modo mio'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.101)
Si è per decenni speculato sulla ferocia della repressione, l'accanimento nei rastrellamenti, la durezza dell'azione antipartigiana di queste formazioni, facendo di ciò la sola reale ispirazione della RSI. Durezza, atrocità, violenze ci furono, eppure esse non furono che l'omologo della stessa durezza, ferocia, violenza delle forze partigiane, come avviene, senza resti e senza sconti, in ogni scontro che ha carattere di guerra civile come ci hanno poi confermato le guerre d'Algeria, del Vietnam, d'Afganistan eccetera. Al di là di quei giudizi denigratori espressi dagli storiografi della Resistenza sull'esercito repubblicano, presentato come una sorta di accozzaglia di compagnie di ventura, che solo hanno sete di sangue e di violenza, in una visione grottescamente manichea, quali erano in realtà i sentimenti di quei soldati che, arruolatisi per andare a combattere il nemico esterno che ha invaso l'Italia, si trovarono di fronte all'amaro compito di affrontare altri italiani in una guerra fratricida che si farà col tempo, per il concatenarsi delle reciproche ritorsioni sempre più feroce e spietata?. [...] Ho rintracciato negli Archivi dello Stato una lettera, della quale avevo completamente perduto memoria, inviata a Mussolini nell'ottobre del '44 dai legionari della mia stessa compagnia, appartenente a un reparto, che in quell'opera di repressione era stato durissimo, come durissima era stata l'azione partigiana contro di esso nelle operazioni di polizia in cui era stato impegnato prima in Valsesia, poi sull'Appennino umbro-marchigiano e infine in alta Valcamonica. In questa lettera, redatta in un linguaggio che mostra chiaramente la semplicità d'animo, l'ingenuità e il modestissimo livello culturale di chi scriveva, quei giovani soldati chiedevano al Duce che il reparto venisse liberato dai compiti di controguerriglia cui era stato assegnato, manifestando chiaramente un sentimento di repulsa per questo genere di impiego. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.137-138)
Ci eravamo arruolati per andare al fronte ad affrontare quello che continuavamo a considerare il nemico straniero che aveva invaso il nostro paese, in uno scontro leale, faccia a faccia, sulla linea del fuoco, e fummo invece costretti, amareggiati e riluttanti, a combattere contro altri italiani che ci sparavano alle spalle e ci tendevano insidie e imboscate. E ben noto che quando nell'estate '44 la Xa Mas fu spostata dalla sua sede originaria di La Spezia a Ivrea, in una zona già infestata da bande partigiane, il comando del reparto fece affiggere dappertutto manifesti in cui si professava che la Xa aveva come scopo quello di fare la guerra agli alleati e non aveva alcuna intenzione di entrare in conflitto con altri italiani. Fu solo dopo l'agguato, avvenuto nel luglio '44, in cui una formazione partigiana mancando fede alla tregua d'armi stipulata per parlamentare massacrò vilmente dieci marò e ufficiali, fra i quali il capitano di corvetta Umberto Bardelli, che aveva comandato il battaglione Barbarigo sul fronte di Nettuno, e in seguito ad altre uccisioni ugualmente proditorie, che il reparto fu costretto a prendere misure antipartigiane per tutelare l'incolumità dei propri soldati. Prima di dare inizio a operazioni di polizia il comandante Borghese radunò i suoi ufficiali e concesse a chi non se la sentiva di affrontare quel compito la smobiitazione dal reparto, cosa che fu attuata per quindici di essi. Nessuno di quei giovani che hanno lasciato le loro case e le loro famiglie, gli studi, le normali attività di vita per arruolarsi nelle formazioni volontarie della RSI, ha immaginato allora che l'Italia sarebbe stata trascinata in quel gorgo di sangue e che essi sarebbero stati chiamati a combattere, e in quel modo così spietato, contro altri italiani. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.139)
Personalmente, quando mi resi conto, pur nella mia cosmica ingenuità di diciottenne di allora, che quei 'compiti di polizia' cui eravamo stati adibiti ci avrebbero inchiodati chissà per quanto sotto quelle montagne, distogliendoci da quella che era la nostra sola e unica aspirazione, chiesi di essere smobilitato dal reparto. Molti dei miei commilitoni in infinite occasioni disertarono per unirsi a unità che si diceva sarebbero partite per il fronte. Ci furono reparti che giunsero fino all'ammutinamento e uomini pronti a mettere in giuoco la loro vita pur di non essere coinvolti in quella guerra fratricida, quasi che con quel rifiuto avessero potuto esorcizzarla. Emblematico è il caso del battaglione NP (nuotatori paracadutisti) di Valdobbiadene che nel gennaio del '45 si rifiutò di essere adoperato per una azione antipartigiana. [...] Nonostante i nostri rifiuti e la nostra repulsione, quella guerra di guerriglia si è imposta, e quei giovani, volenti o nolenti, sono stati costretti a combatterla. Ed essa, con le sue imboscate, i suoi prelevamenti notturni di 'fascisti', i suoi agguati all'angolo di una strada, in cui d'un tratto vedi cadere il compagno che hai accanto, quello con cui hai diviso una sigaretta o una pagnotta, senza neppur aver scorto la faccia di chi ha sparato, senza aver avuto alcuna vera opportunità di combattimento, susciterà un sentimento di offesa, un rabbioso senso di rivolta da cui scaturisce una implacabile volontà di vendetta a ogni costo. L'odio, all'inizio inspiegabile, arcano, devastante, di cui ti senti fatto oggetto produrrà altrettanto odio per quel nemico invisibile e insidioso che ti colpisce da dietro una roccia o al riparo di un albero e si dilegua, come hanno sperimentato tutti i soldati che sotto ogni latitudine hanno combattuto guerre siffatte. Ed esso dilaga come un fiume, avvelena le passioni. Alla violenza si risponde con la violenza, al sangue col sangue, alla ferocia con la ferocia in una interminabile spirale di vendette e controvendette. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.140-141)
Allo sfruttamento tedesco nei confronti della Repubblica Sociale Italiana, risultato del vassallaggio a cui quest'ultima era sottoposta, fa contrasto il fatto che dalle tragiche giornate dopo l'8 settembre in poi, non meno di 300 generali e di oltre 62.000 ufficiali aderirono ad essa: di certo molti solo per lo stipendio e la carriera, ma molti anche nella sincera convinzione di salvare così il proprio onore di soldati e di italiani. (da 'In nome della resa', pag.414)
Per obiettività, tuttavia, dovremo aggiungere che fra il mezzo milione di prigionieri italiani in mano anglo-franco-americana, ben 80.000 di essi aderirono alla RSI (sono cifre risultanti da appositi plebisciti indetti dalle autorità alleate) e ciò dimostra che Graziarli avrebbe avuto più successo se avesse avuto possibilità di disporre di quei prigionieri di guerra. (da 'In nome della resa', pag.416)
Quanti furono allora i militari della RSI? Secondo i dati ufficiali, se si esclude la GNR, le forze armate repubblicane comprendettero 248.000 uomini: 143.000 dell'esercito, 79.000 dell'aviazione e 26.000 della marina. Altri 382.000 uomini formarono le cosiddette truppe ausiliarie. Queste cifre non dicono naturalmente alcunché sul numero dei disertori, che furono tanti, tantissimi, ma non cosi tanti da impedire una partecipazione alla guerra non grande, ma brillante (e comunque non inferiore a quella delle forze armate regie), partecipazione di cui parleremo dettagliatamente in seguito. Coloro che, per partito preso, denigrano le forze armate repubblicane, perché credono che solo cosi si possa essere buoni antifascisti, dimenticano che l'indagine storica non può essere 'politica' e non si accorgono che, anche affermando la teoria della 'diserzione di massa' non si può negare che vi furono rispettabilissime resistenze a Mondragone, a Nettuno, a Barga, a Tossignano, a Tarnovo e allo Chaberton. La teoria poi, che solo il terrore tenesse assieme quelle forze armate, condanna ancor di più i partigiani che si macchiarono di violenze nei confronti di quei soldati dopo la loro resa nel 1945 e la repubblica attuale, che tuttora non concede a quei soldati nessun riconoscimento, neppure ai fini previdenziali. (da 'In nome della resa', pag.417-418)
Protagonisti dell'episodio furono i paracadutisti che, sul fronte calabrese, non accettarono la resa e decisero di continuare la guerra con i vecchi alleati. Belisario Naldini, nel suo libro Morire per qualcosa, descrive lo stato d'animo di quei soldati la sera dell'8 settembre: 'Penso possa significare qualcosa il pianto che eruppe dagli occhi di molti di quei ragazzi, lo smarrimento che li assalì, il silenzio dei primi minuti nei quali nessuno voleva o poteva credere [alla resa]. Non era il desiderio di proseguire una guerra che anche i più ottimisti comprendevano ormai senza speranza, né alcun risentimento di natura polìtica, ma la sensazione netta e precisa della fine ingloriosa di un conflitto combattuto fra mille difficoltà'. Avevano insomma la certezza che niente fosse salvo, la preoccupazione di ciò che potessero pensare o fare i tedeschi dopo quell'avvenimento. Spinti dalla molla profondamente patriottica di far di tutto per salvare l'Italia dall'accusa di tradimento, non solo da parte dei tedeschi, ma anche degli stessi anglo-americani, decisero di rifiutare la resa. Il loro comandante, capitano Edoardo Sala, lo disse ai suoi uomini: 'Dissi loro che personalmente non intendevo arrendermi, perché non potevo credere che il re avesse dato l'ordine di affiancare l'esercito italiano agli anglo-americani per combattere contro l'alleato germanico. Tale gesto non era degno del re-soldato!'. (da 'In nome della resa', pag.426)
Un incidente, avvenuto il 10 aprile al Ponte di San Pietro, a Gorizia, ne aveva fornito l'occasione. Un ufficiale cetnico, ubriaco, aveva cercato di superare in macchina, senza fermarsi, il posto di blocco n.3 (tenuto da elementi del 4° reggimento della MDT) ed era stato ucciso dopo che aveva tentato di colpire al volto il comandante italiano che si era avvicinato al finestrino della vettura. Il giorno dopo i tedeschi intimarono di cedere il posto di blocco ai serbi. Gli italiani dovettero piegare la testa ed il piccolo presidio (portato, dopo l'incidente, a 21 uomini) incominciò ad incamminarsi verso un vicino sottopassaggio. A questo punto i serbi, al cenno di un caporale tedesco, presero a sparare all'impazzata: il capitano Orlando Dilena fu colpito a morte e con lui 16 dei suoi uomini, fra cui Dajmo Draghicevic, un diciannovenne spalatino di sentimenti italiani. Quando, il 13, ci furono i funerali vi erano anche, mimetizzati tra la folla, i partigiani della Osoppo. Alcuni giorni dopo furono infatti trovati sulle tombe dei fiori ed un biglietto: 'I partigiani italiani ai difensori di Gorizia italiana'. Ormai non si trattava più di fedeltà a Roma o a Gargnano, di fascismo o di antifascismo: da una parte e dall'altra, in quell'angolo d'Europa, gli italiani non avevano più né amici, né alleati, ma solo nemici che li volevano liquidare in quanto tali... Ed in questa situazione, il 27 aprile, si ritenne giunto il momento di difendere Gorizia tutti assieme: soldati repubblicani e partigiani verdi. Ce n'era bisogno. Tito ed i suoi generali avevano impartito ordini molto espliciti, che Carlo Simiani ha cosi condensato: 'Sono da considerarsi terre slave quelle al di qua dell'Isonzo e gli abitanti delle stesse crudeli invasori e sfruttatori del popolo iugoslavo... è dovere dì ogni buon soldato comunista liberare città e villaggi, trucidandone le popolazioni senza pietà; sradicare usi e costumi, diffondere la nuova luce dell'Oriente accesa dal verbo marxista [sic!] di Mosca'. (da 'In nome della resa', pag.545)
Il movimento partigiano
Gli italiani sono stati ubriacati con le menzogne per centocinquant'anni, affermò al suo rientro in patria, nel 1945, Francesco Saverio Nitti, dopo gli anni trascorsi in esilio per la sua opposizione al fascismo [...] Anche il movimento partigiano, che agiva in nome della liberazione, era fondato su una menzogna. I partigiani italiani vorrebbero farci credere che la loro fu una lunga, nobile lotta contro i mali del fascismo, dell'occupazione e della repressione durante la tremenda campagna invernale del 1944-45. [...] Alcuni gruppi della resistenza agirono con coraggio, e molti dei loro componenti pagarono a caro prezzo, ma la stragrande maggioranza dei 'partigiani', circa duecentomila elementi, entrò nei ranghi solo dopo il termine delle ostilità. Alcune fonti affermano addirittura che nel giugno 1945, due mesi dopo la fine della guerra, erano stati distribuiti circa settecentomila certificati di militanza partigiana contro il pagamento di una modesta somma. Anche i gruppi di partigiani in azione durante gli ultimi sei mesi di guerra, divisi fra loro da contrasti politici, avevano dato scarso contributo allo sforzo bellico. (da 'La guerra inutile', pag.14)
Quando la retroguardia della Wehrmacht incominciò a evacuare la città vi fu addirittura una specie di sollevazione, anche se non proprio all'altezza della leggenda popolare. Vi furono alcune scaramucce che si protrassero per quattro giorni e costarono la vita a cinquanta italiani e a meno di una dozzina di tedeschi. Nonostante ciò, la città si convinse di aver espiato con quel gesto il suo passato e di aver diritto al rispetto degli Alleati; ma non lo ottenne, soprattutto da parte dei britannici che continuarono a trattare gli italiani con disprezzo. (da 'La guerra inutile', pag.231)
Non esistono dati precisi, ma, secondo le stime delle attività militari italiane, nel dicembre 1944 vi erano all'incirca 100.000 partigiani dietro le linee nemiche; di questi, però, non più di 10.000 combattevano come veri guerriglieri. Per il resto, si trattava di profughi, oppure di uomini rifugiatisi in montagna per non essere rastrellati dai tedeschi e mandati a lavorare in Germania. (da 'La guerra inutile', pag.466)
Quando fummo a circa seicento metri da Grosio, sentimmo alle nostre spalle alcuni colpi di fucile e delle raffiche di mitra. I partigiani, accortisi che in paese non c'era più un fascista, si erano decisi a liberarlo. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.51)
Ponte Valtellina era si in mano ai partigiani. Ma appena ci videro scapparono via. Non ci fu nemmeno bisogno di sparare. Quei pochi che furono raggiunti dai nostri ragazzi gettarono le armi a terra e alzarono le braccia. Vennero liquidati a calci nel sedere. Erano le 10,30 del 28 aprile del 1945. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.71)
Basti ricordare le parole del maresciallo Alexander, comandante delle forze alleate in Italia e nel Mediterraneo: 'Di tutti i fronti terrestri della seconda guerra mondiale, quello che maggiormente ci impegnò per la tenacia e per l'eroismo del nemico [...] fu il fronte italiano'. Ma non ebbe parole di eccessiva ammirazione per quegli italiani che erano andati dalla sua parte, cioè erano saltati sul carro del vincitore, e per i partigiani che pur erano foraggiati e armati dagli Alleati: 'La loro collaborazione fu trascurabile e di poco conto'. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.178)
La liberazione dell'Alta Italia diede nuovo impulso e autorità al CLN. Il numero dei partigiani 'della ventiquattresima ora' (cioè scesi in piazza dopo il 26 aprile), aumentò di quattro o cinque volte quello dei partigiani che già operavano prima della cosiddetta insurrezione. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.211)
Persona di spicco fra i giustiziati, accusato di aver organizzato e finanziato i primi nuclei di partigiani comunisti della Valsesia, era Giuseppe Osella, industriale della lana, il quale, come Elio Vittorini, era stato squadrista, aveva partecipato alla Marcia su Roma, era stato poi una delle personalità più in vista del fascismo vercellese e, fino al 25 luglio del '43, podestà di Varallo Sesia. È ovvio che nella storiografia ufficiale e nell'albo d'oro della Resistenza, Giuseppe Osella, il cui nome è inciso sulle targhe di vie e piazze e al quale fu intitolata allora una formazione garibaldina, figuri come 'martire della libertà'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.15)
Seguendo il filo della vicenda esemplare dei pochissimi autentici e coerenti antifascisti che languivano nelle carceri e al confino politico, o si trovavano in esilio all'estero, si è accreditata la favola di un lungo processo di netta opposizione al fascismo, che ha le sue radici nel passato prefascista, vive una ininterrotta continuità nelle prigioni politiche e nell'esilio, e da un certo punto in poi cresce e si sviluppa per esplodere fra il 23 luglio e l'8 settembre del '43 nella contrapposizione aperta, dove da una parte sono schierati i 'fascisti' (una minoranza), responsabili esclusivi dello sfacelo del paese, e dall'altra quella che sta rapidamente diventando la maggioranza degli italiani, sicuramente orientati in senso 'antifascista', mondi da peccati, e che, ribellatisi alla tirannide subita per ventun anni, si batteranno nei venti mesi dal settembre '43 all'aprile '45, con le armi in pugno, per la libertà e per la democrazia. Visione oleografica, la quale, con un sapiente gioco di luci tutte concentrate sul passato esemplare e coerente di quei pochi e di fitte ombre, nelle quali si mimetizzano e si confondono le responsabilità, i coinvolgimenti, i consensi dei molti, riesce a realizzare un'operazione di trasformismo retroattivo per mezzo del quale i più assumono come propria la storia dei pochissimi, retrodatano le loro recentissime e molto spesso opportunistiche abiure alla costante opposizione di quelli, si depurano delle loro responsabilità, fino al punto di autoconvincersi della limpidezza del loro impegno antifascista. A testimoniare una di queste metamorfosi, con la conseguente cancellazione e trasformazione del proprio passato, mi accadde di leggere su una rivista letteraria che Davide Lajolo, discorrendo di Curzio Malaparte e dei messaggi in chiave che questi avrebbe inviato nei suoi reportage dai fronti di guerra dichiarava: 'Noi militanti del PCI dal fondo di una cella abbiamo capito dalle corrispondenze che lui mandava dal fronte che i tedeschi non ce l'avrebbero fatta ...'. Sembra incredibile, perché è sempre stato noto a tutti che Lajolo non solo non era mai stato 'nel fondo di una cella' fascista, ma anzi al tempo in cui venivano scritti quei reportage di Malaparte era un baldo e valoroso ufficiale delle Camicie Nere, reduce da tutte le guerre mussoliniane, alle quali aveva partecipato da volontario, mistico esaltatore di Mussolini e del fascismo fino al 25 luglio '43, che lo colse vice-federale fascista di Ancona. Apparteneva cioè proprio alla schiera di chi aveva rinchiuso nelle celle i pochi superstiti militanti comunisti e vi montava ben armato la guardia. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.27-28)
Prima fra tutte la scelta del governo della RSI di ricostituire un esercito di leva, che spingerà, in varie riprese, migliaia di giovani a sottrarsi agli obblighi della coscrizione, nascondersi, cercare rifugio alla macchia e quindi per molti di essi, non fosse altro che per necessità di sopravvivenza fisica, entrare nell'orbita della Resistenza organizzata ed essere col tempo assorbiti nel partigianato. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.129)
Scorrendo il libro di Longo, al di là della non gradevole sensazione che produce un'opera avente il preciso scopo di accreditare una versione dei fatti tutta di parte, tutta strumentale, smaccatamente agiografica e celebrativa di chi ha fatto la scelta antifascista, e di contro denigratoria e infamante per chi sta dall'altra parte, chi scrive è inciampato più volte in madornali alterazioni della verità difatti di cui ha conoscenza diretta per avervi personalmente partecipato dalla parte opposta. Ne cito qualcuno. 'Diecimila fascisti, che dall'11 marzo erano stati trattenuti in valle dalle forze di Moscatelli, abbandonarono l'11 giugno la Valsesia' (p. 272). Ora quei 'diecimila' fascisti cui Longo fa riferimento che lasciano la Valsesia nel giugno del '44, erano la Legione Tagliamento nella quale chi scrive militava. Questo reparto iniziò le operazioni in quella valle nel dicembre del '43 con effettivi che superavano di poco le trecento unità e le terminò, dopo la fusione con un altro reparto (battaglione Camilluccia) e l'ulteriore arruolamento di volontari con un effettivo che non raggiungeva i mille uomini. Inoltre essa non 'abbandonava' la Valsesia, ma, dopo aver, con sistemi durissimi e azione continua, occupata con presidi stabili tutta la valle e 'ristabilito l'ordine' in quella zona, partiva per andare al fronte sulla linea Gotica, come ho già accennato. Nello stesso libro si legge: 'A Camasco (Val Sesia) il 63o Battaglione 'M' per due giorni di seguito è attaccato dai nostri distaccamenti e obbligato alla fuga, dopo aver lasciato sul terreno il vicecomandante, trenta morti e la bandiera' (p. 161). Chi scrive c'era. Si trattò di tre brevissimi scontri a fuoco in cui un distaccamento partigiano, con la tecnica del 'mordi e fuggi', sparando da posizione elevata sul mucchio di militi ammassati su autocarri e sorprendendo di notte una pattuglia isolata, causò sei morti tra i quali un sottotenente. Non ci fu nessuna 'fuga' del reparto che rientrò alla base a Vercelli secondo l'originario ordine di operazione, né fu lasciata alcuna bandiera non foss'altro perché le bandiere si portano in giro nelle parate e non davvero in operazioni di controguerriglia sulle montagne. Questo stesso episodio è raccontato anche nel libro Il Monterosa è sceso a Milano di Pietro Secchia e Gino Moscatelli, nel capitolo 'La battaglia di Gamasco', alla quale sono dedicate tre pagine di testo, seguite da una lunga dissertazione di strategia guerrigliera, nelle quali quelle fugaci sparatorie (quella nella quale fui coinvolto personalmente non durò più di pochi secondi!) si trasformano in una serie di operazioni militari cui prendono parte varie unità con coordinamento tattico di mosse, spostamenti, che danno a tutto l'insieme l'incredibile apparenza di una vera e propria battaglia. Sempre in questo libro, altro testo di prima grandezza della mitografia partigiana, si descrive un rastrellamento, iniziato il 5 aprile '44, come una vasta operazione militare alla quale partecipano 'colonne' di fascisti e tedeschi di 'mille' e 'millecinquecento' uomini, dotati di armamento pesante, risalenti la valle da varie direzioni, punteggiata da scontri, resistenze fisse e mobili, attacchi, ripiegamenti, contrattacchi che danno l'idea di una vasta battaglia dove sono impegnate ingenti forze anche da parte garibaldina, e articolata in mosse tattiche, spostamenti, azioni a vasto raggio e via discorrendo. Anche in questo caso chi scrive era là e può testimoniare per esperienza diretta. La colonna di 'mille uomini' di cui facevo parte era composta in realtà dalla II compagnia del mio battaglione, che avendo lasciato ovviamente alla base scritturali, furieri, piantoni eccetera, forse arrivava alla consistenza di 90 uomini. La sua marcia sulla neve fu contrastata all'altezza del passo Baranca da due raffiche di mitragliatrice (che ferirono a una gamba un ufficiale), sparate da un partigiano appostato dietro una roccia e che colpito dal fuoco di risposta degli uomini in testa alla colonna fu abbandonato agonizzante nella neve dai suoi compagni che si dileguarono. Unico caduto di tutta l'operazione. Potrei andare avanti così per innumerevoli episodi, 'scontri', 'battaglie', 'cicli di operazioni' eccetera, gonfiati e romanzati a tal punto, da risultare identificabili da parte di chi c'era solo per una data, il nome di una località, ai quali presi personalmente parte o che mi furono riferiti a caldo direttamente da compagni d'arme che vi avevano partecipato. [...] Come ad esempio, cogliendo nel mazzo, la 'relazione sui fatti d'arme del 12-13 gennaio del 1944' cui partecipò la banda 'Italia libera' del PDA in Valle Grana nel Cuneese, e che ritengo emblematica di questa propensione alla gigantografia che sembra dominare la letteratura e la memorialistica resistenziale. In quell'occasione, in cui un reparto tedesco forte di cinquecento uomini, appoggiati da quattro autoblinde e quattro cannoni semoventi si scontrò con un centinaio di partigiani malamente armati, equipaggiati e diretti, secondo la relazione suddetta, dove si descrivono le varie complesse fasi della 'battaglia', alla fine degli scontri 'le nostre perdite ammontano a un morto, cinque feriti e due dispersi (gruppo Damiani). Le perdite nemiche a cento uomini'. Queste macroscopiche gonfiature dei fatti, dove mille diventa diecimila, sei si trasforma in trenta, novanta cresce fino a mille, dove un battaglione di uno dei più agguerriti e ben armati eserciti del mondo lascia sul terreno un quinto dei suoi effettivi contro un solo morto di una banda di un centinaio di uomini sommariamente armati, furono tranquillamente ammannite all'opinione pubblica, stampate in ponderosi volumi dai maggiori editori italiani e imposte come verità storiche. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.131-134)
'Di quell'afflusso nelle bande di renitenti alla leva fascista cioè di elementi giovanili che, almeno in parte, intendevano sottrarsi all'obbligo di combattere per i tedeschi, ma non avevano ricevuto nessun addestramento né avevano alcuna precisa volontà di battersi contro l'occupante e il governo di Salò', Edgardo Sogno, medaglia d'oro della Resistenza, il quale esaminava direttamente il fenomeno, ma senza le lenti deformanti di una ideologia che voleva accreditare a tutti i costi una ben precisa versione dei fatti, concludeva così: 'La posizione di costoro è descritta nel commento che colsi sulla bocca di un cittadino qualunque: 'Questa gente non aveva nessuna voglia di fare la guerra. Adesso gli hanno detto che è patriottico non farla. E naturale che vada in montagna'. Nel gennaio del '44, chi scrive fu presente alla resa, nel paese di Goggiola, in provincia di Biella, di una formazione partigiana, la Giacomo Matteotti. Questa banda era formata da non più di una ventina di giovani, miei coetanei o di poco più anziani che stremati dalle fatiche, il freddo, i disagi dell'inverno, incalzati dalla nostra azione, avevano deciso di deporre le armi e 'presentarsi alle autorità'. Con essi ebbi modo di conversare a lungo e dai loro racconti vennero fuori, in un quadro di continue marce e fughe estenuanti, carichi di materiali da spostare da un rifugio all'altro, di notti insonni, di scarso cibo, le motivazioni che li avevano spinti a rifugiarsi in montagna che erano appunto quelle pure e semplici di sottrarsi al servizio militare, perché ritenevano che la guerra dopo l'armistizio fosse ormai finita e soprattutto nel timore di essere 'mandati in Germania', nei campi di addestramento che si andavano approntando per le divisioni italiane dell'esercito di Graziani. D'altronde come poteva essere diversamente per giovani appartenenti a modestissime famiglie, la cui educazione si era svolta fra la frequentazione della parrocchia, della scuola (fascista) e il lavoro? Dove trovare motivazioni 'alte', per una scelta 'resistenziale' consapevole e responsabile, che avesse un qualche contenuto 'politico', la quale poteva scaturire solo da una informazione di gran lunga superiore alla media o da esperienze personali particolarmente importanti direttamente vissute?. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.134-135)
Giorgio Albertazzi, che fu mio compagno d'armi, in un passaggio di un suo libro autobiografico, racconta la pietosa riesumazione dei corpi di alcuni suoi militi uccisi in una imboscata tesa loro dai GAP. A quei giovani soldati erano stati cavati gli occhi con l'uncino della 'M' mussoliniana che il nostro reparto portava sulle mostrine. Al Ponte della Pietà, alle porte di Borgosesia, in una notte di massacro, vi furono da parte dei partigiani di Moscatelli atti di una ferocia inaudita come raccontato da uno di loro stessi, li presente: 'Il tenente è ucciso dal Pesgu [comandante partigiano] che gli prende il mitra. Mario è feroce, ogni suo atto è impregnato di odio: ne ammazza altri cinque a colpi di pistola, a un milite gli dà sette pugnalate [...] c'era qualcuno che bruciava vivo dalla paura sul camion e uno aveva le mani alzate, gli bruciavano gli abiti addosso, era una torcia umana: 'Non ammazzatemi. Tiengo mamma in Sicilia', [...] ma ormai era ridotto malissimo, oltre che ferito tutto bruciacchiato. L'ho buttato giù dal camion [...] e il Pesgu l'ha ammazzato'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.142-143)
Erano questi i sentimenti che animavano quei giovani cresciuti all'ombra del suo mito, espressi in modo così appassionato, ancora nel giugno '42, da uno di essi, Davide Lajolo, ufficiale delle Camicie Nere, volontario nelle guerre d'Etiopia, di Spagna e nell'ultima, decorato al valore, autore di romanzi di appassionata fede fascista. [...] Lo stesso Davide Lajolo, non più tardi di tre mesi dal 25 luglio, che lo sorprese vice federale di Ancona, riapparirà con il nome di battaglia di 'comandante Ulisse' sui monti del Piemonte con la budionka, il famoso berretto a punta con la stella rossa della cavalleria sovietica, sul capo, il pellicciotto stile GPU, in veste di comandante della VIII e IX divisioni garibaldine, le armi spianate contro quei fratelli minori che di quel mito sembra ancora non siano riusciti a liberarsi, o che comunque, consapevoli o no, se ne sono andati a caricare sulle fragili spalle il peso. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.152-153)
Anche l'esposizione e lo strazio dei cadaveri di piazzale Loreto non fu un accidente: fu, per un verso la diretta, inevitabile, necessaria conseguenza e conclusione di quella macelleria, dell'odio e della ferocia che la sovraintese, e per l'altro la calcolata, deliberata e attuata conclusione 'popolare' di quel bagno di sangue, nel quale si volle coinvolgere nell'infamia e nello scempio tutto il popolo. Come tutti i congiurati delle idi di marzo sono spinti a immergere i loro pugnali nel sangue dell'abbattuto Cesare per condividerne l'assassinio, così quei cadaveri furono portati a Milano ed esposti affinché la macelleria della fazione fosse legittimata dallo scempio della folla, consacrata dalla partecipazione della massa. Quanti degli uomini e delle donne che scalpiccianti, in una città dove ancora non sono stati ripristinati i servizi pubblici, accorrono lì a formare quella folla bisbigliante, come ci mostrano i filmgiornale, erano scesi in piazza negli anni precedenti a osannare eccitati ed esaltati lo stesso uomo le cui membra vengono ora mostrate come quelle dell'animale totemico abbattuto e dilaniato in un rito sanguinano e primitivo. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.167)
Un'ultima variabile, infine, è data dall'affluenza affrettata di nuove reclute nelle file partigiane. A partire dal mese di marzo 1945, con l'avvicinarsi della bella stagione e la soluzione del conflitto ormai prossima, un gran numero di elementi entra nelle formazioni [...]. (da 'La resa dei conti', pag.123)
Nonostante le cause che provocarono il suo sorgere e gli appoggi che esso ricevette, il movimento partigiano rimase tuttavia, in Italia, fino al tardo aprile del 1945, un fenomeno limitato: la lotta partigiana non acquistò, in altri termini, da noi quei caratteri di massa che contraddistinsero, fin dal suo inizio, l'analogo movimento iugoslavo e che permisero a quest'ultimo di svolgere un ruolo politico decisivo per il destino del proprio paese. (da 'In nome della resa', pag.433)
Anche qui, tuttavia, non si può parlare di un vero e proprio movimento partigiano. Se vi fosse stato, però, sarebbe stato certamente combattuto senza mezzi termini da parte delle autorità militari alleate: non dimentichiamo infatti che Alexander stabili una lista di ben 23 reati punibili con la morte nelle zone occupate, tra cui i discorsi con parole ostili o dispregiative nei confronti delle Nazioni Unite. Non vi è dubbio che anche il governo di Brindisi (o di Salerno o di Roma) avrebbe risposto con la forza delle armi (dei carabinieri e dei soldati regolari) per cercare di stroncare un movimento del genere che avrebbe minacciato la propria esistenza. Fu una fortuna, perciò, che una lotta neofascista (o comunque anti-alleata ed antiregia) non si sviluppò nelle retrovie alleate e nel Mezzogiorno, poiché ciò avrebbe provocato nuovi lutti alla Nazione e nel modo peggiore, poiché, è risaputo, nessuna forma di guerra convenzionale è più crudele di quella partigiana. (da 'In nome della resa', pag.434)
Protagoniste di questa fase furono nuove formazioni che si suddivisero in gruppi armati che furono chiamati in prosieguo, molto pomposamente, 'divisioni' e 'brigate'. Essi operarono come reparti d'assalto alle spalle degli occupanti e dei loro alleati in gruppi di azione partigiana (GAP) e squadre di azione partigiana (SAP), con compiti di attentati e di sabotaggio nei centri abitati. Da un punto di vista bellico l'intera lotta partigiana fece 'sanguinare' i tedeschi, con la tipica tecnica delle 'punture di spillo', ma non li sconfisse. La vittoria militare fu perciò opera della 5a armata americana e del'8a armata britannica. (da 'In nome della resa', pag.434)
In questa situazione è lecito domandarci se la lotta partigiana, che non accelerò la fine della guerra (o quando lo fece, come a Firenze, lo fu in modo insignificante), fu necessaria oppure no. Se, infatti, i nazifascisti commisero stragi gratuite, quante se ne aggiunsero come reazione alla guerriglia? Eliminò (la lotta partigiana) la distruzione delle nostre ricchezze, le deportazioni : in Germania e la paura che si era impossessata delle nostre città o delle nostre campagne? O piuttosto l'aumentò? Creando difficoltà al governo di Gargnano, impedì a quest'ultimo di arginare l'intromissione tedesca nei nostri affari interni? Si è sempre detto che un popolo non può attendere lo straniero per liberarsi, ma non combattevano forse truppe italiane al fronte, proprio per venire a liberare il territorio sotto occupazione tedesca? Si è sempre detto che la liberazione doveva essere anche politica e sociale. Giusto. Ma era logico combattere contro Hitler, o peggio, contro Mussolini in nome di Stalin? (da 'In nome della resa', pag.441)
L'ingresso dei partigiani nelle città aumentò a dismisura i 'combattenti della libertà' dell'ultima ora, con la conseguenza che nessuno ha mai potuto stabilire, neppure approssimativamente, quanti furono i partigiani italiani. Alla fine le domande per ottenere la qualifica di 'partigiano' furono 1.600.000! Secondo i dati governativi, i partigiani caduti furono 44.720, a cui si aggiungono 21.168 mutilati ed invalidi. (da 'In nome della resa', pag.446)
Gli italiani sono stati ubriacati con le menzogne per centocinquant'anni, affermò al suo rientro in patria, nel 1945, Francesco Saverio Nitti, dopo gli anni trascorsi in esilio per la sua opposizione al fascismo [...] Anche il movimento partigiano, che agiva in nome della liberazione, era fondato su una menzogna. I partigiani italiani vorrebbero farci credere che la loro fu una lunga, nobile lotta contro i mali del fascismo, dell'occupazione e della repressione durante la tremenda campagna invernale del 1944-45. [...] Alcuni gruppi della resistenza agirono con coraggio, e molti dei loro componenti pagarono a caro prezzo, ma la stragrande maggioranza dei 'partigiani', circa duecentomila elementi, entrò nei ranghi solo dopo il termine delle ostilità. Alcune fonti affermano addirittura che nel giugno 1945, due mesi dopo la fine della guerra, erano stati distribuiti circa settecentomila certificati di militanza partigiana contro il pagamento di una modesta somma. Anche i gruppi di partigiani in azione durante gli ultimi sei mesi di guerra, divisi fra loro da contrasti politici, avevano dato scarso contributo allo sforzo bellico. (da 'La guerra inutile', pag.14)
Quando la retroguardia della Wehrmacht incominciò a evacuare la città vi fu addirittura una specie di sollevazione, anche se non proprio all'altezza della leggenda popolare. Vi furono alcune scaramucce che si protrassero per quattro giorni e costarono la vita a cinquanta italiani e a meno di una dozzina di tedeschi. Nonostante ciò, la città si convinse di aver espiato con quel gesto il suo passato e di aver diritto al rispetto degli Alleati; ma non lo ottenne, soprattutto da parte dei britannici che continuarono a trattare gli italiani con disprezzo. (da 'La guerra inutile', pag.231)
Non esistono dati precisi, ma, secondo le stime delle attività militari italiane, nel dicembre 1944 vi erano all'incirca 100.000 partigiani dietro le linee nemiche; di questi, però, non più di 10.000 combattevano come veri guerriglieri. Per il resto, si trattava di profughi, oppure di uomini rifugiatisi in montagna per non essere rastrellati dai tedeschi e mandati a lavorare in Germania. (da 'La guerra inutile', pag.466)
Quando fummo a circa seicento metri da Grosio, sentimmo alle nostre spalle alcuni colpi di fucile e delle raffiche di mitra. I partigiani, accortisi che in paese non c'era più un fascista, si erano decisi a liberarlo. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.51)
Ponte Valtellina era si in mano ai partigiani. Ma appena ci videro scapparono via. Non ci fu nemmeno bisogno di sparare. Quei pochi che furono raggiunti dai nostri ragazzi gettarono le armi a terra e alzarono le braccia. Vennero liquidati a calci nel sedere. Erano le 10,30 del 28 aprile del 1945. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.71)
Basti ricordare le parole del maresciallo Alexander, comandante delle forze alleate in Italia e nel Mediterraneo: 'Di tutti i fronti terrestri della seconda guerra mondiale, quello che maggiormente ci impegnò per la tenacia e per l'eroismo del nemico [...] fu il fronte italiano'. Ma non ebbe parole di eccessiva ammirazione per quegli italiani che erano andati dalla sua parte, cioè erano saltati sul carro del vincitore, e per i partigiani che pur erano foraggiati e armati dagli Alleati: 'La loro collaborazione fu trascurabile e di poco conto'. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.178)
La liberazione dell'Alta Italia diede nuovo impulso e autorità al CLN. Il numero dei partigiani 'della ventiquattresima ora' (cioè scesi in piazza dopo il 26 aprile), aumentò di quattro o cinque volte quello dei partigiani che già operavano prima della cosiddetta insurrezione. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.211)
Persona di spicco fra i giustiziati, accusato di aver organizzato e finanziato i primi nuclei di partigiani comunisti della Valsesia, era Giuseppe Osella, industriale della lana, il quale, come Elio Vittorini, era stato squadrista, aveva partecipato alla Marcia su Roma, era stato poi una delle personalità più in vista del fascismo vercellese e, fino al 25 luglio del '43, podestà di Varallo Sesia. È ovvio che nella storiografia ufficiale e nell'albo d'oro della Resistenza, Giuseppe Osella, il cui nome è inciso sulle targhe di vie e piazze e al quale fu intitolata allora una formazione garibaldina, figuri come 'martire della libertà'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.15)
Seguendo il filo della vicenda esemplare dei pochissimi autentici e coerenti antifascisti che languivano nelle carceri e al confino politico, o si trovavano in esilio all'estero, si è accreditata la favola di un lungo processo di netta opposizione al fascismo, che ha le sue radici nel passato prefascista, vive una ininterrotta continuità nelle prigioni politiche e nell'esilio, e da un certo punto in poi cresce e si sviluppa per esplodere fra il 23 luglio e l'8 settembre del '43 nella contrapposizione aperta, dove da una parte sono schierati i 'fascisti' (una minoranza), responsabili esclusivi dello sfacelo del paese, e dall'altra quella che sta rapidamente diventando la maggioranza degli italiani, sicuramente orientati in senso 'antifascista', mondi da peccati, e che, ribellatisi alla tirannide subita per ventun anni, si batteranno nei venti mesi dal settembre '43 all'aprile '45, con le armi in pugno, per la libertà e per la democrazia. Visione oleografica, la quale, con un sapiente gioco di luci tutte concentrate sul passato esemplare e coerente di quei pochi e di fitte ombre, nelle quali si mimetizzano e si confondono le responsabilità, i coinvolgimenti, i consensi dei molti, riesce a realizzare un'operazione di trasformismo retroattivo per mezzo del quale i più assumono come propria la storia dei pochissimi, retrodatano le loro recentissime e molto spesso opportunistiche abiure alla costante opposizione di quelli, si depurano delle loro responsabilità, fino al punto di autoconvincersi della limpidezza del loro impegno antifascista. A testimoniare una di queste metamorfosi, con la conseguente cancellazione e trasformazione del proprio passato, mi accadde di leggere su una rivista letteraria che Davide Lajolo, discorrendo di Curzio Malaparte e dei messaggi in chiave che questi avrebbe inviato nei suoi reportage dai fronti di guerra dichiarava: 'Noi militanti del PCI dal fondo di una cella abbiamo capito dalle corrispondenze che lui mandava dal fronte che i tedeschi non ce l'avrebbero fatta ...'. Sembra incredibile, perché è sempre stato noto a tutti che Lajolo non solo non era mai stato 'nel fondo di una cella' fascista, ma anzi al tempo in cui venivano scritti quei reportage di Malaparte era un baldo e valoroso ufficiale delle Camicie Nere, reduce da tutte le guerre mussoliniane, alle quali aveva partecipato da volontario, mistico esaltatore di Mussolini e del fascismo fino al 25 luglio '43, che lo colse vice-federale fascista di Ancona. Apparteneva cioè proprio alla schiera di chi aveva rinchiuso nelle celle i pochi superstiti militanti comunisti e vi montava ben armato la guardia. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.27-28)
Prima fra tutte la scelta del governo della RSI di ricostituire un esercito di leva, che spingerà, in varie riprese, migliaia di giovani a sottrarsi agli obblighi della coscrizione, nascondersi, cercare rifugio alla macchia e quindi per molti di essi, non fosse altro che per necessità di sopravvivenza fisica, entrare nell'orbita della Resistenza organizzata ed essere col tempo assorbiti nel partigianato. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.129)
Scorrendo il libro di Longo, al di là della non gradevole sensazione che produce un'opera avente il preciso scopo di accreditare una versione dei fatti tutta di parte, tutta strumentale, smaccatamente agiografica e celebrativa di chi ha fatto la scelta antifascista, e di contro denigratoria e infamante per chi sta dall'altra parte, chi scrive è inciampato più volte in madornali alterazioni della verità difatti di cui ha conoscenza diretta per avervi personalmente partecipato dalla parte opposta. Ne cito qualcuno. 'Diecimila fascisti, che dall'11 marzo erano stati trattenuti in valle dalle forze di Moscatelli, abbandonarono l'11 giugno la Valsesia' (p. 272). Ora quei 'diecimila' fascisti cui Longo fa riferimento che lasciano la Valsesia nel giugno del '44, erano la Legione Tagliamento nella quale chi scrive militava. Questo reparto iniziò le operazioni in quella valle nel dicembre del '43 con effettivi che superavano di poco le trecento unità e le terminò, dopo la fusione con un altro reparto (battaglione Camilluccia) e l'ulteriore arruolamento di volontari con un effettivo che non raggiungeva i mille uomini. Inoltre essa non 'abbandonava' la Valsesia, ma, dopo aver, con sistemi durissimi e azione continua, occupata con presidi stabili tutta la valle e 'ristabilito l'ordine' in quella zona, partiva per andare al fronte sulla linea Gotica, come ho già accennato. Nello stesso libro si legge: 'A Camasco (Val Sesia) il 63o Battaglione 'M' per due giorni di seguito è attaccato dai nostri distaccamenti e obbligato alla fuga, dopo aver lasciato sul terreno il vicecomandante, trenta morti e la bandiera' (p. 161). Chi scrive c'era. Si trattò di tre brevissimi scontri a fuoco in cui un distaccamento partigiano, con la tecnica del 'mordi e fuggi', sparando da posizione elevata sul mucchio di militi ammassati su autocarri e sorprendendo di notte una pattuglia isolata, causò sei morti tra i quali un sottotenente. Non ci fu nessuna 'fuga' del reparto che rientrò alla base a Vercelli secondo l'originario ordine di operazione, né fu lasciata alcuna bandiera non foss'altro perché le bandiere si portano in giro nelle parate e non davvero in operazioni di controguerriglia sulle montagne. Questo stesso episodio è raccontato anche nel libro Il Monterosa è sceso a Milano di Pietro Secchia e Gino Moscatelli, nel capitolo 'La battaglia di Gamasco', alla quale sono dedicate tre pagine di testo, seguite da una lunga dissertazione di strategia guerrigliera, nelle quali quelle fugaci sparatorie (quella nella quale fui coinvolto personalmente non durò più di pochi secondi!) si trasformano in una serie di operazioni militari cui prendono parte varie unità con coordinamento tattico di mosse, spostamenti, che danno a tutto l'insieme l'incredibile apparenza di una vera e propria battaglia. Sempre in questo libro, altro testo di prima grandezza della mitografia partigiana, si descrive un rastrellamento, iniziato il 5 aprile '44, come una vasta operazione militare alla quale partecipano 'colonne' di fascisti e tedeschi di 'mille' e 'millecinquecento' uomini, dotati di armamento pesante, risalenti la valle da varie direzioni, punteggiata da scontri, resistenze fisse e mobili, attacchi, ripiegamenti, contrattacchi che danno l'idea di una vasta battaglia dove sono impegnate ingenti forze anche da parte garibaldina, e articolata in mosse tattiche, spostamenti, azioni a vasto raggio e via discorrendo. Anche in questo caso chi scrive era là e può testimoniare per esperienza diretta. La colonna di 'mille uomini' di cui facevo parte era composta in realtà dalla II compagnia del mio battaglione, che avendo lasciato ovviamente alla base scritturali, furieri, piantoni eccetera, forse arrivava alla consistenza di 90 uomini. La sua marcia sulla neve fu contrastata all'altezza del passo Baranca da due raffiche di mitragliatrice (che ferirono a una gamba un ufficiale), sparate da un partigiano appostato dietro una roccia e che colpito dal fuoco di risposta degli uomini in testa alla colonna fu abbandonato agonizzante nella neve dai suoi compagni che si dileguarono. Unico caduto di tutta l'operazione. Potrei andare avanti così per innumerevoli episodi, 'scontri', 'battaglie', 'cicli di operazioni' eccetera, gonfiati e romanzati a tal punto, da risultare identificabili da parte di chi c'era solo per una data, il nome di una località, ai quali presi personalmente parte o che mi furono riferiti a caldo direttamente da compagni d'arme che vi avevano partecipato. [...] Come ad esempio, cogliendo nel mazzo, la 'relazione sui fatti d'arme del 12-13 gennaio del 1944' cui partecipò la banda 'Italia libera' del PDA in Valle Grana nel Cuneese, e che ritengo emblematica di questa propensione alla gigantografia che sembra dominare la letteratura e la memorialistica resistenziale. In quell'occasione, in cui un reparto tedesco forte di cinquecento uomini, appoggiati da quattro autoblinde e quattro cannoni semoventi si scontrò con un centinaio di partigiani malamente armati, equipaggiati e diretti, secondo la relazione suddetta, dove si descrivono le varie complesse fasi della 'battaglia', alla fine degli scontri 'le nostre perdite ammontano a un morto, cinque feriti e due dispersi (gruppo Damiani). Le perdite nemiche a cento uomini'. Queste macroscopiche gonfiature dei fatti, dove mille diventa diecimila, sei si trasforma in trenta, novanta cresce fino a mille, dove un battaglione di uno dei più agguerriti e ben armati eserciti del mondo lascia sul terreno un quinto dei suoi effettivi contro un solo morto di una banda di un centinaio di uomini sommariamente armati, furono tranquillamente ammannite all'opinione pubblica, stampate in ponderosi volumi dai maggiori editori italiani e imposte come verità storiche. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.131-134)
'Di quell'afflusso nelle bande di renitenti alla leva fascista cioè di elementi giovanili che, almeno in parte, intendevano sottrarsi all'obbligo di combattere per i tedeschi, ma non avevano ricevuto nessun addestramento né avevano alcuna precisa volontà di battersi contro l'occupante e il governo di Salò', Edgardo Sogno, medaglia d'oro della Resistenza, il quale esaminava direttamente il fenomeno, ma senza le lenti deformanti di una ideologia che voleva accreditare a tutti i costi una ben precisa versione dei fatti, concludeva così: 'La posizione di costoro è descritta nel commento che colsi sulla bocca di un cittadino qualunque: 'Questa gente non aveva nessuna voglia di fare la guerra. Adesso gli hanno detto che è patriottico non farla. E naturale che vada in montagna'. Nel gennaio del '44, chi scrive fu presente alla resa, nel paese di Goggiola, in provincia di Biella, di una formazione partigiana, la Giacomo Matteotti. Questa banda era formata da non più di una ventina di giovani, miei coetanei o di poco più anziani che stremati dalle fatiche, il freddo, i disagi dell'inverno, incalzati dalla nostra azione, avevano deciso di deporre le armi e 'presentarsi alle autorità'. Con essi ebbi modo di conversare a lungo e dai loro racconti vennero fuori, in un quadro di continue marce e fughe estenuanti, carichi di materiali da spostare da un rifugio all'altro, di notti insonni, di scarso cibo, le motivazioni che li avevano spinti a rifugiarsi in montagna che erano appunto quelle pure e semplici di sottrarsi al servizio militare, perché ritenevano che la guerra dopo l'armistizio fosse ormai finita e soprattutto nel timore di essere 'mandati in Germania', nei campi di addestramento che si andavano approntando per le divisioni italiane dell'esercito di Graziani. D'altronde come poteva essere diversamente per giovani appartenenti a modestissime famiglie, la cui educazione si era svolta fra la frequentazione della parrocchia, della scuola (fascista) e il lavoro? Dove trovare motivazioni 'alte', per una scelta 'resistenziale' consapevole e responsabile, che avesse un qualche contenuto 'politico', la quale poteva scaturire solo da una informazione di gran lunga superiore alla media o da esperienze personali particolarmente importanti direttamente vissute?. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.134-135)
Giorgio Albertazzi, che fu mio compagno d'armi, in un passaggio di un suo libro autobiografico, racconta la pietosa riesumazione dei corpi di alcuni suoi militi uccisi in una imboscata tesa loro dai GAP. A quei giovani soldati erano stati cavati gli occhi con l'uncino della 'M' mussoliniana che il nostro reparto portava sulle mostrine. Al Ponte della Pietà, alle porte di Borgosesia, in una notte di massacro, vi furono da parte dei partigiani di Moscatelli atti di una ferocia inaudita come raccontato da uno di loro stessi, li presente: 'Il tenente è ucciso dal Pesgu [comandante partigiano] che gli prende il mitra. Mario è feroce, ogni suo atto è impregnato di odio: ne ammazza altri cinque a colpi di pistola, a un milite gli dà sette pugnalate [...] c'era qualcuno che bruciava vivo dalla paura sul camion e uno aveva le mani alzate, gli bruciavano gli abiti addosso, era una torcia umana: 'Non ammazzatemi. Tiengo mamma in Sicilia', [...] ma ormai era ridotto malissimo, oltre che ferito tutto bruciacchiato. L'ho buttato giù dal camion [...] e il Pesgu l'ha ammazzato'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.142-143)
Erano questi i sentimenti che animavano quei giovani cresciuti all'ombra del suo mito, espressi in modo così appassionato, ancora nel giugno '42, da uno di essi, Davide Lajolo, ufficiale delle Camicie Nere, volontario nelle guerre d'Etiopia, di Spagna e nell'ultima, decorato al valore, autore di romanzi di appassionata fede fascista. [...] Lo stesso Davide Lajolo, non più tardi di tre mesi dal 25 luglio, che lo sorprese vice federale di Ancona, riapparirà con il nome di battaglia di 'comandante Ulisse' sui monti del Piemonte con la budionka, il famoso berretto a punta con la stella rossa della cavalleria sovietica, sul capo, il pellicciotto stile GPU, in veste di comandante della VIII e IX divisioni garibaldine, le armi spianate contro quei fratelli minori che di quel mito sembra ancora non siano riusciti a liberarsi, o che comunque, consapevoli o no, se ne sono andati a caricare sulle fragili spalle il peso. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.152-153)
Anche l'esposizione e lo strazio dei cadaveri di piazzale Loreto non fu un accidente: fu, per un verso la diretta, inevitabile, necessaria conseguenza e conclusione di quella macelleria, dell'odio e della ferocia che la sovraintese, e per l'altro la calcolata, deliberata e attuata conclusione 'popolare' di quel bagno di sangue, nel quale si volle coinvolgere nell'infamia e nello scempio tutto il popolo. Come tutti i congiurati delle idi di marzo sono spinti a immergere i loro pugnali nel sangue dell'abbattuto Cesare per condividerne l'assassinio, così quei cadaveri furono portati a Milano ed esposti affinché la macelleria della fazione fosse legittimata dallo scempio della folla, consacrata dalla partecipazione della massa. Quanti degli uomini e delle donne che scalpiccianti, in una città dove ancora non sono stati ripristinati i servizi pubblici, accorrono lì a formare quella folla bisbigliante, come ci mostrano i filmgiornale, erano scesi in piazza negli anni precedenti a osannare eccitati ed esaltati lo stesso uomo le cui membra vengono ora mostrate come quelle dell'animale totemico abbattuto e dilaniato in un rito sanguinano e primitivo. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.167)
Un'ultima variabile, infine, è data dall'affluenza affrettata di nuove reclute nelle file partigiane. A partire dal mese di marzo 1945, con l'avvicinarsi della bella stagione e la soluzione del conflitto ormai prossima, un gran numero di elementi entra nelle formazioni [...]. (da 'La resa dei conti', pag.123)
Nonostante le cause che provocarono il suo sorgere e gli appoggi che esso ricevette, il movimento partigiano rimase tuttavia, in Italia, fino al tardo aprile del 1945, un fenomeno limitato: la lotta partigiana non acquistò, in altri termini, da noi quei caratteri di massa che contraddistinsero, fin dal suo inizio, l'analogo movimento iugoslavo e che permisero a quest'ultimo di svolgere un ruolo politico decisivo per il destino del proprio paese. (da 'In nome della resa', pag.433)
Anche qui, tuttavia, non si può parlare di un vero e proprio movimento partigiano. Se vi fosse stato, però, sarebbe stato certamente combattuto senza mezzi termini da parte delle autorità militari alleate: non dimentichiamo infatti che Alexander stabili una lista di ben 23 reati punibili con la morte nelle zone occupate, tra cui i discorsi con parole ostili o dispregiative nei confronti delle Nazioni Unite. Non vi è dubbio che anche il governo di Brindisi (o di Salerno o di Roma) avrebbe risposto con la forza delle armi (dei carabinieri e dei soldati regolari) per cercare di stroncare un movimento del genere che avrebbe minacciato la propria esistenza. Fu una fortuna, perciò, che una lotta neofascista (o comunque anti-alleata ed antiregia) non si sviluppò nelle retrovie alleate e nel Mezzogiorno, poiché ciò avrebbe provocato nuovi lutti alla Nazione e nel modo peggiore, poiché, è risaputo, nessuna forma di guerra convenzionale è più crudele di quella partigiana. (da 'In nome della resa', pag.434)
Protagoniste di questa fase furono nuove formazioni che si suddivisero in gruppi armati che furono chiamati in prosieguo, molto pomposamente, 'divisioni' e 'brigate'. Essi operarono come reparti d'assalto alle spalle degli occupanti e dei loro alleati in gruppi di azione partigiana (GAP) e squadre di azione partigiana (SAP), con compiti di attentati e di sabotaggio nei centri abitati. Da un punto di vista bellico l'intera lotta partigiana fece 'sanguinare' i tedeschi, con la tipica tecnica delle 'punture di spillo', ma non li sconfisse. La vittoria militare fu perciò opera della 5a armata americana e del'8a armata britannica. (da 'In nome della resa', pag.434)
In questa situazione è lecito domandarci se la lotta partigiana, che non accelerò la fine della guerra (o quando lo fece, come a Firenze, lo fu in modo insignificante), fu necessaria oppure no. Se, infatti, i nazifascisti commisero stragi gratuite, quante se ne aggiunsero come reazione alla guerriglia? Eliminò (la lotta partigiana) la distruzione delle nostre ricchezze, le deportazioni : in Germania e la paura che si era impossessata delle nostre città o delle nostre campagne? O piuttosto l'aumentò? Creando difficoltà al governo di Gargnano, impedì a quest'ultimo di arginare l'intromissione tedesca nei nostri affari interni? Si è sempre detto che un popolo non può attendere lo straniero per liberarsi, ma non combattevano forse truppe italiane al fronte, proprio per venire a liberare il territorio sotto occupazione tedesca? Si è sempre detto che la liberazione doveva essere anche politica e sociale. Giusto. Ma era logico combattere contro Hitler, o peggio, contro Mussolini in nome di Stalin? (da 'In nome della resa', pag.441)
L'ingresso dei partigiani nelle città aumentò a dismisura i 'combattenti della libertà' dell'ultima ora, con la conseguenza che nessuno ha mai potuto stabilire, neppure approssimativamente, quanti furono i partigiani italiani. Alla fine le domande per ottenere la qualifica di 'partigiano' furono 1.600.000! Secondo i dati governativi, i partigiani caduti furono 44.720, a cui si aggiungono 21.168 mutilati ed invalidi. (da 'In nome della resa', pag.446)
La politica dei partigiani comunisti
Nei giorni 12 e 13 settembre 1943, i delegati del Partito Comunista Croato e quelli del Partito Comunista Italiano, riuniti a Pisono, avevano convenuto che l'Istria doveva far parte della Croazia [...] La prima conseguenza di questa decisione fu che tutto il movimento partigiano dell'Istria passò sotto il controllo del Partito Comunista Croato e del Movimento Popolare di Liberazione Croato, che consideravano i comunisti italiani dell'Istria come i rappresentanti d'una minoranza nazionale all'interno della futura Jugoslavia comunista. [...] A metà ottobre del 1944, nell'incontro con Edvard Kardelj, esponente dei partiti comunisti jugoslavi, Palmiro Togliatti, segretario del PCI, fece notare che sarebbe stato utile per la causa comunista che l'esercito jugoslavo di Tito occupasse tutta la Venezia Giulia [...] Per raggiungere questo obiettivo, in tutti i luoghi dove vivevano gli italiani, soprattutto a Trieste, il Partito Comunista Italiano avrebbe dovuto cooperare con i comunisti jugoslavi. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.138-139)
Il 7 gennaio 1945, sulle montagne del Friuli, avvenne l'eccidio di Porzus. Quello di Porzus fu soltanto l'episodio meglio conosciuto della lotta che vedeva i partigiani comunisti considerare nemici da annientare quanti, sia pur partigiani, erano anticomunisti e antislavi (o semplicemente non-comunisti) come i partigiani della brigata Osoppo. [...] Nelle malghe di Grondaz, ove i superstiti della Osoppo s'erano rifugiati, un centinaio di elementi scelti sia in una brigata GAP sia nella brigata Garibaldi-Natisone, eseguendo gli ordini del Partito Comunista, con un proditorio, inaspettato e improvviso attacco, circondarono e massacrarono, parte sul posto e parte più tardi, centinaia di partigiani della brigata 'nazionalistica'; fu ucciso, fra gli altri, anche il fratello dello scrittore Pier Paolo Pasolini. Fu una strage feroce, bestiale e rivoltante di italiani commessa da altri italiani che avevano adottato le stesse modalità efferate in uso nei Balcani. Per il PCI si trattò esclusivamente di un'azione con finalità politiche allo scopo di affermare il proprio potere assoluto e incontrastato nel Friuli-Venezia-Giulia, ai confini con l'Austria e la Jugoslavia, per favorire la penetrazione delle forze comuniste di Tito nell'intera regione. Il tricolore che sventolava sul tetto d'un rifugio venne strappato e distrutto. Il capitano De Gregori e i suoi vennero torturati, evirati, sfigurati, ad altri furono cavati gli occhi, e i superstiti, che sopravvissero al primo fulmineo attacco, uccisi nei modi più turpi e spaventosi, a colpi di bastone e di martello per risparmiare munizioni. Capo operativo dell'attacco e del massacro di Porzus fu il partigiano 'Giacca' che agì in obbedienza alle direttive del PCI impartite dal commissario delle Formazioni garibaldine del Friuli, detto 'Andrea' (al secolo Mario Lazzero che, nel dopoguerra, fu segretario della Federazione Comunista di Udine e, nel 1981, deputato al Parlamento italiano. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.159-160)
Insomma quei 'fascisti' e quegli 'antifascisti' si incontrano, discutono, si promettono aiuti reciproci, ai primi si forniscono addirittura indirizzi di persone ricercate che vivono in clandestinità. E chiaro che, da parte di chi si è ritratto in attesa, si vuole superare quel momento senza rotture drammatiche con chi invece ha scelto per il rifiuto dell'armistizio e intende ancora battersi contro il nemico di ieri. Si vuole vedere come evolvono le cose non essendo gli esiti del conflitto, dal quel punto di prospettiva e con le informazioni a disposizione, ancora completamente scontati, e comunque essendo convinti che tanto la liberazione quando avverrà non potrà essere che a opera delle armate alleate, all'arrivo delle quali i partiti che si vanno riformando potranno venire allo scoperto e riorganizzare la vita politica del paese, senza grossi traumi. Questo stato di cose è chiaramente evidenziato anche da parte antifascista da chi testimonia direttamente per esperienza personale. Ecco come Giovanni Pesce, responsabile dei GAP torinesi descrive una delle riunioni con gli esponenti dei partiti che stanno dando vita ai CLN, nella quale i moderati sono la quasi totalità e rifuggono da qualsiasi presa di posizione radicale che possa portare a conseguenze irreversibili. 'L'atmosfera è curiosa, quasi di cospirazione ottocentesca [...] l'orientamento generale sembra essere quello di prepararsi per il momento in cui gli alleati arriveranno. Mantenere i contatti reciproci, organizzare i rispettivi movimenti politici per ogni eventualità. Anche le intenzioni più concrete di qualcuno naufragano in questa atmosfera: tutto sta per approdare a un nulla di fatto. Tra poco ci congederemo con un 'buon appetito' e a presto [...]. Chiedo la parola [...]. Senza circonlocuzioni faccio capire chiaramente che l'ora dei discorsi è passata. È il momento di passare all'azione [...] le mie parole vennero accolte con evidente fastidio. Con cortesia mi fecero capire che avrebbero gradito come rappresentante del Partito Comunista un individuo più tranquillo. Lasciai quella sala convinto che bisognava cominciare ad agire perché gli antifascisti ci seguissero'. La diffidenza verso i comunisti e il rifiuto alle loro pressanti sollecitazioni ad 'agire', in quegli ambienti moderati, che per tutte le loro reticenze e riserve vengono bollati del marchio di 'attendisti', ha a fondamento la consapevolezza che i comunisti, sostenuti in quella scelta dalla pattuglia degli azionisti, si battono per un disegno, che va al di là della vittoria sulla Germania e che è per i primi il capovolgimento degli attuali assetti sociali, per l'attuazione della rivoluzione proletaria, e per gli altri una rigenerazione radicale e altrettanto sanguinosa della società in senso giacobino. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.113-114)
Insomma a poco più di due mesi dall'armistizio, la situazione sembra si stia avviando verso uno stato di non belligeranza tra i due schieramenti, di una fragile trepidante tregua nella quale dalla parte 'antifascista' c'è una maggioranza moderata che per varie motivazioni non ha alcuna intenzione di venire a una rottura cruenta, e da parte 'fascista', oltre a un'autentica aspirazione alla riconciliazione nazionale diffusa in vasti ambienti, ovviamente, tutto l'interesse, anche per la minoranza più radicale e revanchista, che la situazione si stabilizzi in modo da poter attuare il programma della ricostituzione di una forza armata da portare sulla linea del fronte a riscattare con le armi l'onta dell'8 settembre. [...] Per i comunisti infatti, che la situazione si 'normalizzi' su posizioni di tregua è un pericolo da scongiurare a tutti i costi. Essi non potrebbero mai accettare che la 'liberazione', come in sostanza si attendono i moderati e come e avvenuta nel sud d'Italia, si realizzi a opera degli eserciti alleati, affiancati dalle poche unità regolari del regio esercito salvatesi dal disastro, con l'ausilio tutt'al più (come prevedono i comandi anglo-americani) di una rete d'informazione e nuclei di sabotatori dietro le linee tedesche alle dipendenze dell'Intelligence alleata (sono queste in sostanza le originarie finalità della organizzazione 'Franchi' di Edgardo Sogno). Compito specifico del PC è realizzare il progetto rivoluzionario mondiale mentre una soluzione del genere condurrebbe nient'altro che a una sorta di restaurazione, poiché alle spalle di quegli eserciti, avanza e riprende gradualmente autorità il governo, che in via formale è il solo legittimo, nel quale, ovviamente, prevalgono i partiti 'borghesi', che rappresentano quei ceti che sono stati il reale sostegno del fascismo, i quali altro scopo non hanno che quello di conservare l'attuale assetto sociale con la sola variante di restituire al paese un sistema politico di democrazia parlamentare. Acconsentire a ciò sarebbe per il partito comunista buttar via un occasione unica: quella cioè di una nazione disgregata, dalle strutture statali in pezzi, con tutto il sistema dei valori borghesi in crisi profonda, in preda a sgomento e percorsa da fremiti di rivolta; una situazione da manuale (cui altro non poteva condurre la guerra capitalista e imperialista!), campo ideale in cui inserirsi prepotentemente, e gettare le basi strategiche, le posizioni di forza da cui operare a conflitto concluso in vista del traguardo della rivoluzione. Che è la sola reale meta dei comunisti, sia dei quadri intermedi e dei militanti, posseduti da una fede cieca nel prossimo avvento del comunismo, sia di una classe dirigente che si è formata e consolidata dentro le strutture organizzative del Comintern, ha partecipato alla elaborazione e alla esecuzione dei suoi progetti rivoluzionari planetari, è sopravvissuta alle purghe staliniane degli anni trenta ed è divenuta, senza esagerazioni, nient'altro che una delle più fedeli cinghie di trasmissione della strategia mondiale dell'URSS, alla quale è riconosciuto senza riserve il ruolo di paese guida del movimento mondiale. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.115-116)
Per i comunisti allora non c'è che un imperativo: vanificare quel progetto di ricomposizione, spingere alle estreme conseguenze quella situazione di latente guerra civile, 'far esplodere le contraddizioni' che si nascondono dietro quei tentativi di compromesso e di mediazione, perché la rivoluzione ovviamente non ha bisogno della composizione ma dello scontro, del taglio netto. [...] 'E ovvio poi che siano gli antifascisti a muoversi prima dei fascisti e che si muovano per primi i comunisti: tocca ad essi provare con le armi che ci sono degli italiani pronti a battersi, pronti a pagare il biglietto di ritorno alla democrazia; al neofascismo, si sa converrebbe la quiete interna a prova del consenso o della rassegnazione popolare'. [...] Gli antifascisti che partecipano agli incontri di Venezia, di Modena, di Firenze per fare opera di pacificazione, l'antifascismo, potremmo dire 'nostrano', quello che si è manifestato, anche nella sua ala sinistra nei Gianquinto e nei Concetto Marchesi (quando ancora si muove liberamente e non ha ricevuto alcun 'ordine' dalla direzione del suo partito), quelli che a Ferrara si incontrano con il federale Igino Ghisellini, gli esponenti del partito socialista dell'Emilia che prendono contatti con il federale di Bologna Eugenio Facchini, e tutti coloro che a vari livelli si muovono sulle stesse linee, tutti questi rifiutano la strada che una volta imboccata non può portare che a un'insanabile spaccatura del paese. Chi determina la svolta della guerra civile, la scelta delle armi e dello scontro senza esclusione di colpi, è la direzione del partito comunista che decide di dare immediatamente inizio a una campagna di attentati terroristici, di agguati a uomo, allo scopo di esasperare le reazioni dell'avversario, far esplodere la violenza latente, zittire ed emarginare i moderati, i conciliatori, far fallire, quindi, il progetto di normalizzazione. [...] La scelta del terrorismo urbano non è di quelle che si possano lasciare alle iniziative locali e infatti Paolo Spriano ci dice che fu presa dalla direzione del partito comunista 'prima di quella della costituzione dei distaccamenti Garibaldi'. Più chiaro di così. Non formazioni armate sui monti o nelle campagne per operazioni militari, sabotaggi a installazioni tedesche, colpi di mano a colonne, ponti, ferrovie, ma il terrorismo urbano, l'agguato contro i 'fascisti', soprattutto là dove si ventilano possibilità di intese, di convivenza tra le due parti. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.117-118)
Le uccisioni di Ferrara, di Milano, di Bologna, di Torino, che videro cadere uomini moderati e conciliatori, quali Igino Ghisellini, Aldo Resega, Eugenio Facchini, Ather Capelli, per citare solo i più noti di una foltissima schiera, sono tipiche azioni di provocazione terroristica. Compiute quasi senza alcun rischio da due o tre uomini, esse ebbero la capacità di suscitare puntualmente enormi risonanze e scatenare reazioni sproporzionate sia nella misura che nella violenza, come era nelle previsioni. A questo proposito, Carlo Silvestri, il socialista che aveva capeggiato la campagna di stampa contro Mussolini all'epoca del delitto Matteotti, il quale fu nel periodo delle RSI uno degli uomini più attivi nel tentativo di gettare un ponte tra le due parti, e al quale si deve il salvataggio di tanti antifascisti arrestati dalle SS o denunciati alle varie polizie fasciste, tra i quali Ferruccio Parri, Riccardo Lombardi, dichiarò: 'Affinché non vi siano ombre sulla mia chiarezza, testimonio ancora una volta, che tutte queste uccisioni furono volute col criterio di esasperare la situazione e rendere inevitabile la guerra civile secondo il desiderio di Londra e di Mosca'. [...] Alberto Franceschini, uno dei capi storici delle BR, il quale da ex partigiani comunisti, con la consegna delle vecchie armi di quelli, riceve l'investitura della continuità della Resistenza ('il filo rosso della rivoluzione'), ha dichiarato: 'La storia non si può negare. La mitologia del nucleo storico delle BR è fatta proprio di quegli episodi e di quei racconti [di ex gappisti]... Noi avevamo il mito dei GAP. A Milano alcuni entrarono nelle BR sull'onda dei racconti della Volante Rossa' ('La Stampa', 3 settembre 1990). (da 'I balilla andarono a Salò', pag.119-121)
Malgrado ciò, gli uomini più avvisati, Mussolini per primo, si sforzano di placare gli animi, ben consci degli scopi che la strategia dell'assassinio politico si propone: 'Mussolini è ben consapevole del rischio che la provocazione terroristica provoca. E invita a non rispondere a non lasciarsi trascinare nel gorgo della vendetta', scrive Giovanni Dolfin, suo segretario, che ne registra le parole: 'Gli avversari che hanno da tempo inaugurato l'assassinio politico come sistema di lotta, fanno evidentemente il possibile per portarci sullo stesso terreno. Sarebbe da parte nostra un grave errore il seguirli, facendo il loro giuoco'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.122)
E allora i moderati e i conciliatori, anche se si sforzeranno di continuare la loro opera per tutti i venti mesi della RSI, vengono attaccati dalla parte più dura e intransigente del fascismo repubblicano, dai violenti che altro non attendono che quella provocazione per scatenare sanguinose rappresaglie e smisurate vendette. Vengono screditati, smentiti dai 'fatti' stessi, emarginati, zittiti. L'offensiva terroristica ha sortito i suoi effetti. Il rischio dell'apaisement è scongiurato a colpi di rivoltella, seguiti dalle atroci ritorsioni, le esecuzioni sommarie. Gli estremisti del fascismo repubblicano sono caduti nella trappola della provocazione terroristica. [...] Il partito comunista ha vinto la sua prima importante battaglia. Ha inchiodato la RSI nell'atto feroce della rappresaglia 'stupida e bestiale', come l'ha giudicata lo stesso Mussolini, la quale suscita nella massa della popolazione immediate reazioni emotive di rifiuto, e negli ambienti ancora incerti prese di distanza sempre più nette e generalizzate. E ha tracciato la linea divisoria. [...] Di qua i 'combattenti della libertà', formula che santifica tutti, indipendentemente dal passato, le personali responsabilità in quello che è stato il fascismo reale, le adesioni, i coinvolgimenti e gli scopi reali della loro azione attuale: primi fra tutti naturalmente i comunisti che si sono conquistati sul campo per attivismo, determinazione e con la 'propaganda delle armi' il ruolo di guida dell'antifascismo combattente, che ancora timido e incerto nelle altre componenti, comincia a muovere i primi passi nella resistenza armata. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.123-124)
'Eravamo giovani ed idealisti, per noi l'obbiettivo era soltanto la 'sovietizzazione' dell'Italia' confessava ricordando quei tempi l'ex capo partigiano Mendel a 'Il Giornale' l'8 settembre 1990. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.125)
Per i comunisti la guerra non era affatto finita, ed è questo il punto essenziale. Il conflitto, nello scacchiere europeo, si era concluso solo per le democrazie occidentali, per chi aveva lottato per sconfiggere la Germania nazista e ricreare le condizioni per il ripristino di sistemi parlamentari di democrazia borghese, non certo per chi doveva attuare la rivoluzione. Per tutto il corso della lotta partigiana, la preoccupazione centrale di comunisti e azionisti - come risulta chiaramente dagli scritti del più puro e nobile di loro, Dante Livio Bianco - è per il 'dopo': mantenere l'organizzazione costituitasi in montagna, coltivare lo spirito delle formazioni, e soprattutto raccogliere e occultare il maggior numero di armi per il 'dopo'. Con il crollo apocalittico della Germania per i comunisti si è toccata solo una tappa; la meta ultima è un'altra, è la presa del potere in nome del proletariato, l'abbattimento del sistema capitalista e l'instaurazione di un nuovo ordine collettivistico, quello che a macchia d'olio, nel giro di pochi anni, venne realizzato nei paesi dell'Est. Allora sarebbe un errore inaudito non cogliere quel momento così favorevole per togliere di mezzo coloro che, se lasciati in vita, domani, allo scoccare dell''ora x', di certo si sarebbero nuovamente parati contro a ostacolare proprio il balzo conclusivo. Come lasciarsi sfuggire quella opportunità di mani libere per compiere sbrigativamente e alla chetichella quell'operazione di pulizia che si era spasmodicamente attesa per mesi e che in quei giorni tumultuosi sarebbe stata coperta dal frastuono delle celebrazioni, giustificata dalle universali esecrazioni, e colpevolmente ignorata dalle paure dei moderati?. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.171)
Non si trattò di 'episodi', di 'frange estremiste', di 'schegge impazzite', come si è cercato di contrabbandare ogni volta che dagli armadi della Resistenza mucchi di scheletri che chiedevano una parola di pietà e di giustizia, sono rovinati fuori dai battenti socchiusi. C'era una precisa volontà politica, una chiara necessità rivoluzionaria che spingeva a quel massacro, alla quale faceva da sostrato un 'animus' diffuso, suscitato e coltivato da scritti, discorsi, messaggi più o meno palesi, e radicato in ben chiare premesse teoriche. 'Non basterà colpire l'idea: bisognerà colpire chi si è macchiato sentendo l'idea fascista e chi si macchierà di fascismo. Occorre epurare: colpire gli individui renitenti, distruggerli, eliminarli integralmente: disinfettare l'aria infetta [...]. L'eliminazione dovrà colpire migliaia di fascisti e i colpiti saranno sempre pochi [...]. Non arrestiamoci per sentimentalismi o per stanchezza [...]. Intere classi e categorie sociali vengono coinvolte nella condanna del fascismo: colpire il fascismo significa colpire queste classi, significa distruggerle. Borghesia reazionaria e feudale, parassiti sfruttatori, cialtroni e farabutti, plebe senza coscienza e senza dignità [...], tutta questa genia va colpita'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.174)
La combinazione tra lotta di liberazione e lotta di classe, che anima i combattenti comunisti, determina infatti la naturale accentuazione dell'aspetto epurativo, interpretato come movimento iniziale di un processo rivoluzionario che deve portare all'instaurazione di una società socialista. (da 'La resa dei conti', pag.123)
Per alcuni elementi di fede comunista, la lotta di liberazione deve proseguire nella lotta sociale contro 'padroni e sfruttatori' e gli strumenti sono quelli radicali matuati dall'esperienza bolscevica: di qui la violenza contro certi possidenti e sacerdoti. (da 'La resa dei conti', pag.132)
Nel corso di una riunione clandestina, il rappresentante del Pci triestino aveva chiesto che venisse accolto nel comitato anche un rappresentante del Partito comunista sloveno e che si proclamasse ufficialmente che la popolazione giuliana, italiani compresi, desiderava unirsi alla 'nuova Jugoslavia dì Tito'. La risposta del CLN non poteva che essere negativa e, di conseguenza, i comunisti triestini abbandonarono questo organismo per confluire nel Comitato di liberazione iugoslavo. L'episodio ebbe forti ripercussioni all'interno del CLN Alta Italia che dirigeva la lotta clandestina nel nostro paese, ma il Pci, che vi era rappresentato da Luigi Longo, non sconfessò i compagni triestini. Anzi, più tardi, con una lettera del suo Comitato Centrale (che doveva essere riservatissima, ma che gli iugoslavi si affrettarono a rendere pubblica) si impegnerà a riconoscere la necessità di porre tutte le formazioni partigiane italiane operanti nella regione giuliana sotto il comando slavo, e ad accettare 'l'annessione di Trieste e del Litorale alla Slovenia come un inevitabile fatto storico'. (da 'L'esodo - La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia', pag.54-55)
Da parte sua, il Pci si schierò apertamente per la linea jugoslava. In una direttiva redatta da Mauro Scoccimarro, allora membro del governo del Sud, si legge: 'La Venezia Giulia deve essere conquistata dai partigiani jugoslavi, e dai partigiani italiani che combattono con loro, prima dell'arrivo degli Alleati... I partigiani italiani che combattono con le formazioni jugoslave devono essere considerati a tutti gli effetti partigiani iugoslavi... Nella Venezia Giulia i soli patrioti sono quelli che combattono con gli jugoslavi'. Il Pci, grazie al suo ruolo egemone nella Resistenza italiana, ottenne anche che il CLN Alta Italia, benché consapevole che i comunisti avevano abbandonato il CLN triestino, rivolgesse alla popolazione giuliana il seguente invito: 'Date vita ai comitati antifascisti italo-sloveni e italo-croati i quali, oltre a organizzare la lotta contro i comuni oppressori, avranno Io scopo di armonizzare gli interessi dei due popoli. Il vostro dovere è quello di arruolarvi nei reparti italiani che combattono nella vostra regione, al comando del Maresciallo Tito, la comune guerra di liberazione. Le armate del Maresciallo Tito sono una parte dei grandi eserciti vittoriosi delle Nazioni Unite: voi lotterete al loro fianco come al fianco dei fratelli liberatori'. In uno slancio di 'solidarietà', il CLNAI concesse alle forze partigiane del Maresciallo Tito anche un prestito di tre milioni di lire (la metà del capitale di cui disponeva) che non sarà mai più rimborsato e che resterà privo di qualsiasi contropartita politica. (da 'L'esodo - La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia', pag.96-97)
Nel contempo imperversava una violenta campagna filotitina che negava l'esistenza delle foibe e considerava provocatori fascisti tutti coloro che sollevavano la questione giuliana o che cercavano di sensibilizzare gli esponenti della Resistenza per la difesa dell'italianità di Trieste e dell'Istria. A questo proposito è significativa una minacciosa lettera del ministro Palmiro Togliatti al capo del governo Ivanoe Bonomi rintracciata negli archivi dallo storico istriano Antonio Pitamitz. E' datata 7 febbraio 1945 e vi si legge: 'Mi è stato detto che da parte del collega Gasparotto sarebbe stata inviata al CLN Alta Italia una comunicazione in cui si invita il CLNAI a far sì che le nostre unità partigiane prendano sotto il loro controllo la Venezia Giulia, per impedire che in essa penetrino unità dell'esercito partigiarto jugoslavo. Voglio sperare che la cosa non sia vera perché, prima di tutto, una direttiva di questo genere non potrebbe essere data senza consultazione del Consiglio dei Ministri. Quanto alla situazione interna, si tratta di una direttiva di guerra civile, perché è assurdo pensare che il nostro partito accetti di impegnarsi in una lotta contro le forze anti-fasciste e democratiche di Tito. In questo senso, del resto, la nostra organizzazione di Trieste ha avuto personalmente da me istruzioni precise e la maggioranza del popolo di Trieste segue oggi il nostro partito. Non solo noi non vogliamo nessun conflitto con le forze di Tito e con le popolazioni jugoslave, ma riteniamo che la sola direttiva da darsi è che le nostre unità partigiane e gli italiani di Trieste e della Venezia Giulia collaborino nel modo più stretto con le unità di Tito nella lotta contro i tedeschi e contro i fascisti'. (da 'L'esodo - La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia', pag.103)
Oltre al IX Korpus sloveno, forte di uomini e di mezzi, operavano nella regione due divisioni italiane. La 'Garibaldi-Natisone' di chiara tendenza comunista e la 'Osoppo', composta in gran parte da alpini che portavano al collo un fazzoletto tricolore come palese testimonianza della loro scelta patriottica. Il contrasto fra le due formazioni non tardò a degenerare: i comunisti consideravano i 'bianchi' della 'Osoppo' alla stregua dei cetnici e dei domobranci. Li ostacolavano in tutti i modi. […] Era il 22 novembre del 1944. Pochi giorni prima, Palmiro Togliatti aveva scritto a Vincenzo Bianco ('colonnello Krieger'), rappresentante del Pci nel IX Korpus, una lettera in cui spiegava le motivazioni che avevano suggerito alla direzione del Pci l'emanazione di quell'ordine piuttosto scon certante. 'Noi consideriamo come un fatto positivo' scriveva il segretario del Pci 'di cui dobbiamo rallegrarci e che in tutti i modi dobbiamo favorire, l'occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del Maresciallo Tito. Questo significa infatti che in questa regione non vi sarà né un'occupazione inglese né una restaurazione dell'amministrazione reazionaria italiana, cioè si creerà una situazione profondamente diversa da quella che esiste nella parte libera dell'Italia. Si creerà insomma una situazione democratica.' L'ordine di integrarsi nell'esercito del Maresciallo Tìto non era stato accolto con particolare favore dai partigiani della 'Garibaldi-Natisone' ma in seguito, grazie all'intervento dello stesso 'colonnello Krieger' e dei dirigenti del Pci friulano, i tremilacinquecento uomini della divisione avevano deciso 'entusiasticamente' di passare agli ordini del IX Korpus sloveno. (da 'L'esodo - La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia', pag.104-105)
La mattina del 7 febbraio 1945, le sentinelle scorgono sul costone del monte Carnizza un gruppo di uomini armati che salgono alla spicciolata. Sono partigiani garibaldini con la stella rossa sul berretto e il fazzoletto rosso al collo. Li comanda il padovano Mario Toffanin, nome di battaglia 'Giacca'. Costui spiega alle sentinelle di essere scampato ad un rastrellamento e manifesta l'intenzione di passare coi suoi uomini, circa un centinaio, agli ordini di 'Bolla'. Quando lo avvertono dell'accaduto, 'Bolla' manda Valente a vedere cosa sta accadendo e più tardi, non vedendolo tornare, scende anche lui verso le postazioni delle sentinelle. È a questo punto che ha inizio una tragedia di cui non si conoscono i dettagli. 'Giacca', che ha già disarmato Valente, cattura anche 'Bolla' con facilità, poi ordina ai suoi uomini di fucilarli. I loro cadaveri saranno ritrovati sfigurati dalle percosse e dalle pugnalate. Subito dopo, 'Giacca' ordina ai suoi di dare la caccia agli altri partigiani 'bianchi' che nel frattempo stanno cercando scampo fra i castagni del Bosco Romagno. Uno dopo l'altro, cadono nella trappola tutti gli uomini di 'Bolla' tranne uno, l'ufficiale degli alpini Aldo Bricco il quale, benché ferito, riesce a salvarsi correndo a perdifiato giù dalla montagna. Per i prigionieri non c'è scampo: dopo essere stati percossi e sputacchiati, finiscono falciati dalle raffiche dei mitra. Fra gli uccisi ci sono anche Elda Turchetti e il fratello di Pier Paolo Pasolini. In tutto, i morti sono ventidue. […] Nel dopoguerra, 37 degli autori della carneficina furono identificati, arrestati e processati a Lucca. Condannati complessivamente a 800 anni di carcere, furono ben presto rimessi in libertà grazie all'amnistia voluta da Palmiro Togliatti. 'Vanni' e 'Giacca', condannati a trent'anni in contumacia, si erano nel frattempo rifugiati in Jugoslavia, poi si trasferirono in Cecoslovacchia. 'Vanni' è stato graziato nel 1959, 'Giacca' lo è stato nel 1978 per decisione del presidente Pertini. A quest'ultimo è stata anche riconosciuta, con relativi arretrati, una pensione militare di 670.000 lire mensili che l'INPS continua a versargli. Infatti, mentre scriviamo questo libro, Toffanin-'Giacca' vive ancora in Slovenia, a Scoffie, 500 metri dal confine italiano. Non ha mai ripudiato i suoi delitti e reclama dall'INPS anche la pensione della moglie defunta. (da 'L'esodo - La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia', pag.106-107)
Nei giorni 12 e 13 settembre 1943, i delegati del Partito Comunista Croato e quelli del Partito Comunista Italiano, riuniti a Pisono, avevano convenuto che l'Istria doveva far parte della Croazia [...] La prima conseguenza di questa decisione fu che tutto il movimento partigiano dell'Istria passò sotto il controllo del Partito Comunista Croato e del Movimento Popolare di Liberazione Croato, che consideravano i comunisti italiani dell'Istria come i rappresentanti d'una minoranza nazionale all'interno della futura Jugoslavia comunista. [...] A metà ottobre del 1944, nell'incontro con Edvard Kardelj, esponente dei partiti comunisti jugoslavi, Palmiro Togliatti, segretario del PCI, fece notare che sarebbe stato utile per la causa comunista che l'esercito jugoslavo di Tito occupasse tutta la Venezia Giulia [...] Per raggiungere questo obiettivo, in tutti i luoghi dove vivevano gli italiani, soprattutto a Trieste, il Partito Comunista Italiano avrebbe dovuto cooperare con i comunisti jugoslavi. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.138-139)
Il 7 gennaio 1945, sulle montagne del Friuli, avvenne l'eccidio di Porzus. Quello di Porzus fu soltanto l'episodio meglio conosciuto della lotta che vedeva i partigiani comunisti considerare nemici da annientare quanti, sia pur partigiani, erano anticomunisti e antislavi (o semplicemente non-comunisti) come i partigiani della brigata Osoppo. [...] Nelle malghe di Grondaz, ove i superstiti della Osoppo s'erano rifugiati, un centinaio di elementi scelti sia in una brigata GAP sia nella brigata Garibaldi-Natisone, eseguendo gli ordini del Partito Comunista, con un proditorio, inaspettato e improvviso attacco, circondarono e massacrarono, parte sul posto e parte più tardi, centinaia di partigiani della brigata 'nazionalistica'; fu ucciso, fra gli altri, anche il fratello dello scrittore Pier Paolo Pasolini. Fu una strage feroce, bestiale e rivoltante di italiani commessa da altri italiani che avevano adottato le stesse modalità efferate in uso nei Balcani. Per il PCI si trattò esclusivamente di un'azione con finalità politiche allo scopo di affermare il proprio potere assoluto e incontrastato nel Friuli-Venezia-Giulia, ai confini con l'Austria e la Jugoslavia, per favorire la penetrazione delle forze comuniste di Tito nell'intera regione. Il tricolore che sventolava sul tetto d'un rifugio venne strappato e distrutto. Il capitano De Gregori e i suoi vennero torturati, evirati, sfigurati, ad altri furono cavati gli occhi, e i superstiti, che sopravvissero al primo fulmineo attacco, uccisi nei modi più turpi e spaventosi, a colpi di bastone e di martello per risparmiare munizioni. Capo operativo dell'attacco e del massacro di Porzus fu il partigiano 'Giacca' che agì in obbedienza alle direttive del PCI impartite dal commissario delle Formazioni garibaldine del Friuli, detto 'Andrea' (al secolo Mario Lazzero che, nel dopoguerra, fu segretario della Federazione Comunista di Udine e, nel 1981, deputato al Parlamento italiano. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.159-160)
Insomma quei 'fascisti' e quegli 'antifascisti' si incontrano, discutono, si promettono aiuti reciproci, ai primi si forniscono addirittura indirizzi di persone ricercate che vivono in clandestinità. E chiaro che, da parte di chi si è ritratto in attesa, si vuole superare quel momento senza rotture drammatiche con chi invece ha scelto per il rifiuto dell'armistizio e intende ancora battersi contro il nemico di ieri. Si vuole vedere come evolvono le cose non essendo gli esiti del conflitto, dal quel punto di prospettiva e con le informazioni a disposizione, ancora completamente scontati, e comunque essendo convinti che tanto la liberazione quando avverrà non potrà essere che a opera delle armate alleate, all'arrivo delle quali i partiti che si vanno riformando potranno venire allo scoperto e riorganizzare la vita politica del paese, senza grossi traumi. Questo stato di cose è chiaramente evidenziato anche da parte antifascista da chi testimonia direttamente per esperienza personale. Ecco come Giovanni Pesce, responsabile dei GAP torinesi descrive una delle riunioni con gli esponenti dei partiti che stanno dando vita ai CLN, nella quale i moderati sono la quasi totalità e rifuggono da qualsiasi presa di posizione radicale che possa portare a conseguenze irreversibili. 'L'atmosfera è curiosa, quasi di cospirazione ottocentesca [...] l'orientamento generale sembra essere quello di prepararsi per il momento in cui gli alleati arriveranno. Mantenere i contatti reciproci, organizzare i rispettivi movimenti politici per ogni eventualità. Anche le intenzioni più concrete di qualcuno naufragano in questa atmosfera: tutto sta per approdare a un nulla di fatto. Tra poco ci congederemo con un 'buon appetito' e a presto [...]. Chiedo la parola [...]. Senza circonlocuzioni faccio capire chiaramente che l'ora dei discorsi è passata. È il momento di passare all'azione [...] le mie parole vennero accolte con evidente fastidio. Con cortesia mi fecero capire che avrebbero gradito come rappresentante del Partito Comunista un individuo più tranquillo. Lasciai quella sala convinto che bisognava cominciare ad agire perché gli antifascisti ci seguissero'. La diffidenza verso i comunisti e il rifiuto alle loro pressanti sollecitazioni ad 'agire', in quegli ambienti moderati, che per tutte le loro reticenze e riserve vengono bollati del marchio di 'attendisti', ha a fondamento la consapevolezza che i comunisti, sostenuti in quella scelta dalla pattuglia degli azionisti, si battono per un disegno, che va al di là della vittoria sulla Germania e che è per i primi il capovolgimento degli attuali assetti sociali, per l'attuazione della rivoluzione proletaria, e per gli altri una rigenerazione radicale e altrettanto sanguinosa della società in senso giacobino. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.113-114)
Insomma a poco più di due mesi dall'armistizio, la situazione sembra si stia avviando verso uno stato di non belligeranza tra i due schieramenti, di una fragile trepidante tregua nella quale dalla parte 'antifascista' c'è una maggioranza moderata che per varie motivazioni non ha alcuna intenzione di venire a una rottura cruenta, e da parte 'fascista', oltre a un'autentica aspirazione alla riconciliazione nazionale diffusa in vasti ambienti, ovviamente, tutto l'interesse, anche per la minoranza più radicale e revanchista, che la situazione si stabilizzi in modo da poter attuare il programma della ricostituzione di una forza armata da portare sulla linea del fronte a riscattare con le armi l'onta dell'8 settembre. [...] Per i comunisti infatti, che la situazione si 'normalizzi' su posizioni di tregua è un pericolo da scongiurare a tutti i costi. Essi non potrebbero mai accettare che la 'liberazione', come in sostanza si attendono i moderati e come e avvenuta nel sud d'Italia, si realizzi a opera degli eserciti alleati, affiancati dalle poche unità regolari del regio esercito salvatesi dal disastro, con l'ausilio tutt'al più (come prevedono i comandi anglo-americani) di una rete d'informazione e nuclei di sabotatori dietro le linee tedesche alle dipendenze dell'Intelligence alleata (sono queste in sostanza le originarie finalità della organizzazione 'Franchi' di Edgardo Sogno). Compito specifico del PC è realizzare il progetto rivoluzionario mondiale mentre una soluzione del genere condurrebbe nient'altro che a una sorta di restaurazione, poiché alle spalle di quegli eserciti, avanza e riprende gradualmente autorità il governo, che in via formale è il solo legittimo, nel quale, ovviamente, prevalgono i partiti 'borghesi', che rappresentano quei ceti che sono stati il reale sostegno del fascismo, i quali altro scopo non hanno che quello di conservare l'attuale assetto sociale con la sola variante di restituire al paese un sistema politico di democrazia parlamentare. Acconsentire a ciò sarebbe per il partito comunista buttar via un occasione unica: quella cioè di una nazione disgregata, dalle strutture statali in pezzi, con tutto il sistema dei valori borghesi in crisi profonda, in preda a sgomento e percorsa da fremiti di rivolta; una situazione da manuale (cui altro non poteva condurre la guerra capitalista e imperialista!), campo ideale in cui inserirsi prepotentemente, e gettare le basi strategiche, le posizioni di forza da cui operare a conflitto concluso in vista del traguardo della rivoluzione. Che è la sola reale meta dei comunisti, sia dei quadri intermedi e dei militanti, posseduti da una fede cieca nel prossimo avvento del comunismo, sia di una classe dirigente che si è formata e consolidata dentro le strutture organizzative del Comintern, ha partecipato alla elaborazione e alla esecuzione dei suoi progetti rivoluzionari planetari, è sopravvissuta alle purghe staliniane degli anni trenta ed è divenuta, senza esagerazioni, nient'altro che una delle più fedeli cinghie di trasmissione della strategia mondiale dell'URSS, alla quale è riconosciuto senza riserve il ruolo di paese guida del movimento mondiale. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.115-116)
Per i comunisti allora non c'è che un imperativo: vanificare quel progetto di ricomposizione, spingere alle estreme conseguenze quella situazione di latente guerra civile, 'far esplodere le contraddizioni' che si nascondono dietro quei tentativi di compromesso e di mediazione, perché la rivoluzione ovviamente non ha bisogno della composizione ma dello scontro, del taglio netto. [...] 'E ovvio poi che siano gli antifascisti a muoversi prima dei fascisti e che si muovano per primi i comunisti: tocca ad essi provare con le armi che ci sono degli italiani pronti a battersi, pronti a pagare il biglietto di ritorno alla democrazia; al neofascismo, si sa converrebbe la quiete interna a prova del consenso o della rassegnazione popolare'. [...] Gli antifascisti che partecipano agli incontri di Venezia, di Modena, di Firenze per fare opera di pacificazione, l'antifascismo, potremmo dire 'nostrano', quello che si è manifestato, anche nella sua ala sinistra nei Gianquinto e nei Concetto Marchesi (quando ancora si muove liberamente e non ha ricevuto alcun 'ordine' dalla direzione del suo partito), quelli che a Ferrara si incontrano con il federale Igino Ghisellini, gli esponenti del partito socialista dell'Emilia che prendono contatti con il federale di Bologna Eugenio Facchini, e tutti coloro che a vari livelli si muovono sulle stesse linee, tutti questi rifiutano la strada che una volta imboccata non può portare che a un'insanabile spaccatura del paese. Chi determina la svolta della guerra civile, la scelta delle armi e dello scontro senza esclusione di colpi, è la direzione del partito comunista che decide di dare immediatamente inizio a una campagna di attentati terroristici, di agguati a uomo, allo scopo di esasperare le reazioni dell'avversario, far esplodere la violenza latente, zittire ed emarginare i moderati, i conciliatori, far fallire, quindi, il progetto di normalizzazione. [...] La scelta del terrorismo urbano non è di quelle che si possano lasciare alle iniziative locali e infatti Paolo Spriano ci dice che fu presa dalla direzione del partito comunista 'prima di quella della costituzione dei distaccamenti Garibaldi'. Più chiaro di così. Non formazioni armate sui monti o nelle campagne per operazioni militari, sabotaggi a installazioni tedesche, colpi di mano a colonne, ponti, ferrovie, ma il terrorismo urbano, l'agguato contro i 'fascisti', soprattutto là dove si ventilano possibilità di intese, di convivenza tra le due parti. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.117-118)
Le uccisioni di Ferrara, di Milano, di Bologna, di Torino, che videro cadere uomini moderati e conciliatori, quali Igino Ghisellini, Aldo Resega, Eugenio Facchini, Ather Capelli, per citare solo i più noti di una foltissima schiera, sono tipiche azioni di provocazione terroristica. Compiute quasi senza alcun rischio da due o tre uomini, esse ebbero la capacità di suscitare puntualmente enormi risonanze e scatenare reazioni sproporzionate sia nella misura che nella violenza, come era nelle previsioni. A questo proposito, Carlo Silvestri, il socialista che aveva capeggiato la campagna di stampa contro Mussolini all'epoca del delitto Matteotti, il quale fu nel periodo delle RSI uno degli uomini più attivi nel tentativo di gettare un ponte tra le due parti, e al quale si deve il salvataggio di tanti antifascisti arrestati dalle SS o denunciati alle varie polizie fasciste, tra i quali Ferruccio Parri, Riccardo Lombardi, dichiarò: 'Affinché non vi siano ombre sulla mia chiarezza, testimonio ancora una volta, che tutte queste uccisioni furono volute col criterio di esasperare la situazione e rendere inevitabile la guerra civile secondo il desiderio di Londra e di Mosca'. [...] Alberto Franceschini, uno dei capi storici delle BR, il quale da ex partigiani comunisti, con la consegna delle vecchie armi di quelli, riceve l'investitura della continuità della Resistenza ('il filo rosso della rivoluzione'), ha dichiarato: 'La storia non si può negare. La mitologia del nucleo storico delle BR è fatta proprio di quegli episodi e di quei racconti [di ex gappisti]... Noi avevamo il mito dei GAP. A Milano alcuni entrarono nelle BR sull'onda dei racconti della Volante Rossa' ('La Stampa', 3 settembre 1990). (da 'I balilla andarono a Salò', pag.119-121)
Malgrado ciò, gli uomini più avvisati, Mussolini per primo, si sforzano di placare gli animi, ben consci degli scopi che la strategia dell'assassinio politico si propone: 'Mussolini è ben consapevole del rischio che la provocazione terroristica provoca. E invita a non rispondere a non lasciarsi trascinare nel gorgo della vendetta', scrive Giovanni Dolfin, suo segretario, che ne registra le parole: 'Gli avversari che hanno da tempo inaugurato l'assassinio politico come sistema di lotta, fanno evidentemente il possibile per portarci sullo stesso terreno. Sarebbe da parte nostra un grave errore il seguirli, facendo il loro giuoco'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.122)
E allora i moderati e i conciliatori, anche se si sforzeranno di continuare la loro opera per tutti i venti mesi della RSI, vengono attaccati dalla parte più dura e intransigente del fascismo repubblicano, dai violenti che altro non attendono che quella provocazione per scatenare sanguinose rappresaglie e smisurate vendette. Vengono screditati, smentiti dai 'fatti' stessi, emarginati, zittiti. L'offensiva terroristica ha sortito i suoi effetti. Il rischio dell'apaisement è scongiurato a colpi di rivoltella, seguiti dalle atroci ritorsioni, le esecuzioni sommarie. Gli estremisti del fascismo repubblicano sono caduti nella trappola della provocazione terroristica. [...] Il partito comunista ha vinto la sua prima importante battaglia. Ha inchiodato la RSI nell'atto feroce della rappresaglia 'stupida e bestiale', come l'ha giudicata lo stesso Mussolini, la quale suscita nella massa della popolazione immediate reazioni emotive di rifiuto, e negli ambienti ancora incerti prese di distanza sempre più nette e generalizzate. E ha tracciato la linea divisoria. [...] Di qua i 'combattenti della libertà', formula che santifica tutti, indipendentemente dal passato, le personali responsabilità in quello che è stato il fascismo reale, le adesioni, i coinvolgimenti e gli scopi reali della loro azione attuale: primi fra tutti naturalmente i comunisti che si sono conquistati sul campo per attivismo, determinazione e con la 'propaganda delle armi' il ruolo di guida dell'antifascismo combattente, che ancora timido e incerto nelle altre componenti, comincia a muovere i primi passi nella resistenza armata. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.123-124)
'Eravamo giovani ed idealisti, per noi l'obbiettivo era soltanto la 'sovietizzazione' dell'Italia' confessava ricordando quei tempi l'ex capo partigiano Mendel a 'Il Giornale' l'8 settembre 1990. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.125)
Per i comunisti la guerra non era affatto finita, ed è questo il punto essenziale. Il conflitto, nello scacchiere europeo, si era concluso solo per le democrazie occidentali, per chi aveva lottato per sconfiggere la Germania nazista e ricreare le condizioni per il ripristino di sistemi parlamentari di democrazia borghese, non certo per chi doveva attuare la rivoluzione. Per tutto il corso della lotta partigiana, la preoccupazione centrale di comunisti e azionisti - come risulta chiaramente dagli scritti del più puro e nobile di loro, Dante Livio Bianco - è per il 'dopo': mantenere l'organizzazione costituitasi in montagna, coltivare lo spirito delle formazioni, e soprattutto raccogliere e occultare il maggior numero di armi per il 'dopo'. Con il crollo apocalittico della Germania per i comunisti si è toccata solo una tappa; la meta ultima è un'altra, è la presa del potere in nome del proletariato, l'abbattimento del sistema capitalista e l'instaurazione di un nuovo ordine collettivistico, quello che a macchia d'olio, nel giro di pochi anni, venne realizzato nei paesi dell'Est. Allora sarebbe un errore inaudito non cogliere quel momento così favorevole per togliere di mezzo coloro che, se lasciati in vita, domani, allo scoccare dell''ora x', di certo si sarebbero nuovamente parati contro a ostacolare proprio il balzo conclusivo. Come lasciarsi sfuggire quella opportunità di mani libere per compiere sbrigativamente e alla chetichella quell'operazione di pulizia che si era spasmodicamente attesa per mesi e che in quei giorni tumultuosi sarebbe stata coperta dal frastuono delle celebrazioni, giustificata dalle universali esecrazioni, e colpevolmente ignorata dalle paure dei moderati?. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.171)
Non si trattò di 'episodi', di 'frange estremiste', di 'schegge impazzite', come si è cercato di contrabbandare ogni volta che dagli armadi della Resistenza mucchi di scheletri che chiedevano una parola di pietà e di giustizia, sono rovinati fuori dai battenti socchiusi. C'era una precisa volontà politica, una chiara necessità rivoluzionaria che spingeva a quel massacro, alla quale faceva da sostrato un 'animus' diffuso, suscitato e coltivato da scritti, discorsi, messaggi più o meno palesi, e radicato in ben chiare premesse teoriche. 'Non basterà colpire l'idea: bisognerà colpire chi si è macchiato sentendo l'idea fascista e chi si macchierà di fascismo. Occorre epurare: colpire gli individui renitenti, distruggerli, eliminarli integralmente: disinfettare l'aria infetta [...]. L'eliminazione dovrà colpire migliaia di fascisti e i colpiti saranno sempre pochi [...]. Non arrestiamoci per sentimentalismi o per stanchezza [...]. Intere classi e categorie sociali vengono coinvolte nella condanna del fascismo: colpire il fascismo significa colpire queste classi, significa distruggerle. Borghesia reazionaria e feudale, parassiti sfruttatori, cialtroni e farabutti, plebe senza coscienza e senza dignità [...], tutta questa genia va colpita'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.174)
La combinazione tra lotta di liberazione e lotta di classe, che anima i combattenti comunisti, determina infatti la naturale accentuazione dell'aspetto epurativo, interpretato come movimento iniziale di un processo rivoluzionario che deve portare all'instaurazione di una società socialista. (da 'La resa dei conti', pag.123)
Per alcuni elementi di fede comunista, la lotta di liberazione deve proseguire nella lotta sociale contro 'padroni e sfruttatori' e gli strumenti sono quelli radicali matuati dall'esperienza bolscevica: di qui la violenza contro certi possidenti e sacerdoti. (da 'La resa dei conti', pag.132)
Nel corso di una riunione clandestina, il rappresentante del Pci triestino aveva chiesto che venisse accolto nel comitato anche un rappresentante del Partito comunista sloveno e che si proclamasse ufficialmente che la popolazione giuliana, italiani compresi, desiderava unirsi alla 'nuova Jugoslavia dì Tito'. La risposta del CLN non poteva che essere negativa e, di conseguenza, i comunisti triestini abbandonarono questo organismo per confluire nel Comitato di liberazione iugoslavo. L'episodio ebbe forti ripercussioni all'interno del CLN Alta Italia che dirigeva la lotta clandestina nel nostro paese, ma il Pci, che vi era rappresentato da Luigi Longo, non sconfessò i compagni triestini. Anzi, più tardi, con una lettera del suo Comitato Centrale (che doveva essere riservatissima, ma che gli iugoslavi si affrettarono a rendere pubblica) si impegnerà a riconoscere la necessità di porre tutte le formazioni partigiane italiane operanti nella regione giuliana sotto il comando slavo, e ad accettare 'l'annessione di Trieste e del Litorale alla Slovenia come un inevitabile fatto storico'. (da 'L'esodo - La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia', pag.54-55)
Da parte sua, il Pci si schierò apertamente per la linea jugoslava. In una direttiva redatta da Mauro Scoccimarro, allora membro del governo del Sud, si legge: 'La Venezia Giulia deve essere conquistata dai partigiani jugoslavi, e dai partigiani italiani che combattono con loro, prima dell'arrivo degli Alleati... I partigiani italiani che combattono con le formazioni jugoslave devono essere considerati a tutti gli effetti partigiani iugoslavi... Nella Venezia Giulia i soli patrioti sono quelli che combattono con gli jugoslavi'. Il Pci, grazie al suo ruolo egemone nella Resistenza italiana, ottenne anche che il CLN Alta Italia, benché consapevole che i comunisti avevano abbandonato il CLN triestino, rivolgesse alla popolazione giuliana il seguente invito: 'Date vita ai comitati antifascisti italo-sloveni e italo-croati i quali, oltre a organizzare la lotta contro i comuni oppressori, avranno Io scopo di armonizzare gli interessi dei due popoli. Il vostro dovere è quello di arruolarvi nei reparti italiani che combattono nella vostra regione, al comando del Maresciallo Tito, la comune guerra di liberazione. Le armate del Maresciallo Tito sono una parte dei grandi eserciti vittoriosi delle Nazioni Unite: voi lotterete al loro fianco come al fianco dei fratelli liberatori'. In uno slancio di 'solidarietà', il CLNAI concesse alle forze partigiane del Maresciallo Tito anche un prestito di tre milioni di lire (la metà del capitale di cui disponeva) che non sarà mai più rimborsato e che resterà privo di qualsiasi contropartita politica. (da 'L'esodo - La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia', pag.96-97)
Nel contempo imperversava una violenta campagna filotitina che negava l'esistenza delle foibe e considerava provocatori fascisti tutti coloro che sollevavano la questione giuliana o che cercavano di sensibilizzare gli esponenti della Resistenza per la difesa dell'italianità di Trieste e dell'Istria. A questo proposito è significativa una minacciosa lettera del ministro Palmiro Togliatti al capo del governo Ivanoe Bonomi rintracciata negli archivi dallo storico istriano Antonio Pitamitz. E' datata 7 febbraio 1945 e vi si legge: 'Mi è stato detto che da parte del collega Gasparotto sarebbe stata inviata al CLN Alta Italia una comunicazione in cui si invita il CLNAI a far sì che le nostre unità partigiane prendano sotto il loro controllo la Venezia Giulia, per impedire che in essa penetrino unità dell'esercito partigiarto jugoslavo. Voglio sperare che la cosa non sia vera perché, prima di tutto, una direttiva di questo genere non potrebbe essere data senza consultazione del Consiglio dei Ministri. Quanto alla situazione interna, si tratta di una direttiva di guerra civile, perché è assurdo pensare che il nostro partito accetti di impegnarsi in una lotta contro le forze anti-fasciste e democratiche di Tito. In questo senso, del resto, la nostra organizzazione di Trieste ha avuto personalmente da me istruzioni precise e la maggioranza del popolo di Trieste segue oggi il nostro partito. Non solo noi non vogliamo nessun conflitto con le forze di Tito e con le popolazioni jugoslave, ma riteniamo che la sola direttiva da darsi è che le nostre unità partigiane e gli italiani di Trieste e della Venezia Giulia collaborino nel modo più stretto con le unità di Tito nella lotta contro i tedeschi e contro i fascisti'. (da 'L'esodo - La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia', pag.103)
Oltre al IX Korpus sloveno, forte di uomini e di mezzi, operavano nella regione due divisioni italiane. La 'Garibaldi-Natisone' di chiara tendenza comunista e la 'Osoppo', composta in gran parte da alpini che portavano al collo un fazzoletto tricolore come palese testimonianza della loro scelta patriottica. Il contrasto fra le due formazioni non tardò a degenerare: i comunisti consideravano i 'bianchi' della 'Osoppo' alla stregua dei cetnici e dei domobranci. Li ostacolavano in tutti i modi. […] Era il 22 novembre del 1944. Pochi giorni prima, Palmiro Togliatti aveva scritto a Vincenzo Bianco ('colonnello Krieger'), rappresentante del Pci nel IX Korpus, una lettera in cui spiegava le motivazioni che avevano suggerito alla direzione del Pci l'emanazione di quell'ordine piuttosto scon certante. 'Noi consideriamo come un fatto positivo' scriveva il segretario del Pci 'di cui dobbiamo rallegrarci e che in tutti i modi dobbiamo favorire, l'occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del Maresciallo Tito. Questo significa infatti che in questa regione non vi sarà né un'occupazione inglese né una restaurazione dell'amministrazione reazionaria italiana, cioè si creerà una situazione profondamente diversa da quella che esiste nella parte libera dell'Italia. Si creerà insomma una situazione democratica.' L'ordine di integrarsi nell'esercito del Maresciallo Tìto non era stato accolto con particolare favore dai partigiani della 'Garibaldi-Natisone' ma in seguito, grazie all'intervento dello stesso 'colonnello Krieger' e dei dirigenti del Pci friulano, i tremilacinquecento uomini della divisione avevano deciso 'entusiasticamente' di passare agli ordini del IX Korpus sloveno. (da 'L'esodo - La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia', pag.104-105)
La mattina del 7 febbraio 1945, le sentinelle scorgono sul costone del monte Carnizza un gruppo di uomini armati che salgono alla spicciolata. Sono partigiani garibaldini con la stella rossa sul berretto e il fazzoletto rosso al collo. Li comanda il padovano Mario Toffanin, nome di battaglia 'Giacca'. Costui spiega alle sentinelle di essere scampato ad un rastrellamento e manifesta l'intenzione di passare coi suoi uomini, circa un centinaio, agli ordini di 'Bolla'. Quando lo avvertono dell'accaduto, 'Bolla' manda Valente a vedere cosa sta accadendo e più tardi, non vedendolo tornare, scende anche lui verso le postazioni delle sentinelle. È a questo punto che ha inizio una tragedia di cui non si conoscono i dettagli. 'Giacca', che ha già disarmato Valente, cattura anche 'Bolla' con facilità, poi ordina ai suoi uomini di fucilarli. I loro cadaveri saranno ritrovati sfigurati dalle percosse e dalle pugnalate. Subito dopo, 'Giacca' ordina ai suoi di dare la caccia agli altri partigiani 'bianchi' che nel frattempo stanno cercando scampo fra i castagni del Bosco Romagno. Uno dopo l'altro, cadono nella trappola tutti gli uomini di 'Bolla' tranne uno, l'ufficiale degli alpini Aldo Bricco il quale, benché ferito, riesce a salvarsi correndo a perdifiato giù dalla montagna. Per i prigionieri non c'è scampo: dopo essere stati percossi e sputacchiati, finiscono falciati dalle raffiche dei mitra. Fra gli uccisi ci sono anche Elda Turchetti e il fratello di Pier Paolo Pasolini. In tutto, i morti sono ventidue. […] Nel dopoguerra, 37 degli autori della carneficina furono identificati, arrestati e processati a Lucca. Condannati complessivamente a 800 anni di carcere, furono ben presto rimessi in libertà grazie all'amnistia voluta da Palmiro Togliatti. 'Vanni' e 'Giacca', condannati a trent'anni in contumacia, si erano nel frattempo rifugiati in Jugoslavia, poi si trasferirono in Cecoslovacchia. 'Vanni' è stato graziato nel 1959, 'Giacca' lo è stato nel 1978 per decisione del presidente Pertini. A quest'ultimo è stata anche riconosciuta, con relativi arretrati, una pensione militare di 670.000 lire mensili che l'INPS continua a versargli. Infatti, mentre scriviamo questo libro, Toffanin-'Giacca' vive ancora in Slovenia, a Scoffie, 500 metri dal confine italiano. Non ha mai ripudiato i suoi delitti e reclama dall'INPS anche la pensione della moglie defunta. (da 'L'esodo - La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia', pag.106-107)
Primavera di sangue
Per qualche mese, nel 1945, il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia) ebbe mano libera nell'Italia settentrionale, e fu una carneficina. Non solo le formazioni partigiane si battevano fra loro, ma saccheggiavano liberamente e massacravano chiunque fosse sospettato di essere fascista. Le pattuglie militari alleate, e persino quelle miste che includevano unità tedesche, poterono fare ben poco per ristabilire l'ordine fino a quando non si placò la sete di sangue. Oggi le autorità italiane ammettono che i morti furono ufficialmente 17.322, ma si calcola che la cifra reale oscilli intorno alle 100.000 persone fra uomini, donne e bambini. [...] In molti casi furono sterminate intere famiglie, compresi i bambini più piccoli; le case furono saccheggiate e completamente depredate inclusi mobili e indumenti, perché non restasse la minima traccia [...] Esponenti di centro e di destra ritengono che la maggior parte delle atrocità sia stata commessa dai comunisti, che agivano per conto di Mosca. Recenti testimonianze confermano tale tesi. (da 'La guerra inutile', pag.15)
Durante la mattina erano scomparsi un cuciniere e quattro legionari del presidio di Mazzo. [...] Ma nelle prime ore del pomeriggio erano stati trovati nella cantina di una casa di Sernio: massacrati a colpi di pugnale, con gli occhi strappati e gli organi genitali in bocca. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.35)
Tedeschi, allora, insorse gridando che io ragionavo così perché non avevo i miei cari in quel dannato paese; che i partigiani erano capaci di catturarli come ostaggi e farli camminare davanti a loro durante l'attacco. Casi del genere, sostenne, si erano già verificati. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.40)
Nemmeno io pensavo che gli potessero fare del male. Era un brav'uomo, me l'avevano detto tutti che si era iscritto al Fascio repubblicano mosso solo da un amore infinito per la sua Patria. Invece, quando lo salutai, non gli restavano nemmeno due giorni di vita. Nel pomeriggio del 29 aprile, infatti, dopo le forze fasciste a Tirano, alcuni partigiani lo prelevarono da casa sotto gli occhi della moglie e dei figli. Poi lo costrinsero a correre davanti a loro per le vie della cittadina, sparandogli tra le gambe. Alla fine lo gettarono contro un muro e l'ammazzarono come un cane tirandogli addosso una scarica di bombe a mano. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.66)
E poi la notte. Ci stiparono in una settantina dentro un aula. Con noi c'erano delle ausiliarie. I partigiani continuarono ad entrare per ore e ore, ubriachi, pazzi di furore. Ci puntavano i mitra contro lo stomaco: 'Tutti gli uomini contro il muro. Guardate, adesso, che cosa facciamo alle vostre ausiliarie. Venite qui, sgualdrine; venite qui luride mignotte'. Ho sempre cercato di dimenticare quello che vidi quella notte. Ma non ci sono mai riuscito. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.76)
Novemila metri. Ogni metro un insulto. Ogni metro una valanga di mazzate su di noi. Toccarono a tutti. Io, per quanto possa sembrare incredibile, riuscii a schivarle. Per un motivo molto semplice. Mi ero accorto che gli occhi di tutti quei forsennati si posavano sempre sul pistolone da carabiniere che mi ero sistemato alla cintura. Dopo qualche centinaia di metri, allora, aprii la custodia dell'arma e continuai a marciare tenendo la destra sul calcio della pistola. Non ci fu nessuno che osasse più venirmi addosso. Vigliacchi fino all'inverosimile, avevano ancora paura che potessi sparare. [...] Vidi il capitano Martino Cazzola cadere a terra con la testa fracassata. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.77-78)
Uno di noi domandò: 'E che cos'è il tribunale del popolo?'. Io lo sapevo bene, che cos'era, ma non volli dirlo. Ne avevo sentito parlare durante le mie missioni oltre le linee, nei paesi già liberati. Lo componevano, di solito, i più fanatici tra i capi partigiani comunisti. La procedura la inventavano lì per lì. L'unica pena prevista era la pena di morte. E la sentenza veniva eseguita subito: al massimo, entro le ventiquattro ore successive. [...] Allora non riuscii più a tacere: 'Non fatevi illusioni', dissi 'quei tribunali lì giudicano esclusivamente sotto il profilo politico. A loro basta provare che l'imputato é un fascista. E lo mandano al muro. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.85)
Toccò al capitano Cattaneo, anche lui, come Marchetti, della 3 Legione confinaria. Lo condannarono a morte la sera del 1 maggio; lo fucilarono la mattina dopo. Poi le esecuzioni si infittirono e fu il massacro. Di quelle ore, di quei giorni, dodici complessivamente, durante i quali tutti noi vivemmo nell'attesa della morte, ho conservato dei ricordi a volte confusi, a volte nitidissimi. I ricordi di un incubo, comunque, che ancora oggi, a tanti anni di distanza, non sono riuscito a dissipare del tutto. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.86)
Era ormai evidente che i patti di resa non sarebbero stati rispettati e che i capi del CLN erano complici nelle uccisioni in corso dovunque. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.87)
Il tribunale del popolo era composto da una decina di capi banda, quasi tutti comunisti. I giudici sedevano sul palcoscenico del teatrino della ex Casa del Balilla. Il pubblico, formato in maggioranza di partigiani, si assiepava nello spazio riservato, normalmente, agli spettatori. Il processo era stato rapidissimo. Un capo partigiano aveva pronunciato la requisitoria. Marchetti era imputato di essere fascista, di aver prestato servizio nella Confinaria, di aver partecipato a rastrellamenti e di essere un torturatore di patrioti. Marchetti si era difeso con estremo coraggio. Aveva confermato la sua fede fascista e negato di avere mai torturato nessuno: 'Portatemi qui questi patrioti torturati', aveva gridato 'li voglio vedere in faccia'. [...] Poi, quel tale che fungeva da presidente si era rivolto al pubblico e aveva gridato: 'Lo volete vivo o lo volete morto?'. 'Morto': era stata la risposta. 'Il criminale di guerra capitano Marchetti', aveva allora sentenziato il tribunale 'é condannato a morte. L'esecuzione avverrà domattina'. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.87-88)
Quel pomeriggio del 1 maggio i partigiani entrarono a frotte nel carcere. Capi e gregari. Ci guardavano come si guardano solitamente le belve in gabbia. Ghignavano felici. Per tanti mesi avevano dovuto battere i tacchi davanti a noi. Ora, finalmente, ci avevano in pugno. Potevano farci quello che volevano. Per godersi meglio lo spettacolo avevano ordinato agli agenti di custodia di tenere spalancate le porte. [...] E si vendicavano. A me, che ero giunto in Valtellina solo il 20 aprile, uno urlò che mi riconosceva, che mi aveva notato due mesi prima, in un paese che ora non ricordo, mentre giravo mostrando a tutti un barattolo pieno di occhi sinistri di partigiani. Giuro che non sto inventando una sola parola: disse proprio un barattolo pieno di occhi sinistri di partigiani, strappati, naturalmente, da me. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.89-90)
Toccò invece al capitano Cattaneo. Accusarono anche lui di torture, sevizie, massacri. Tutto inventato di sana pianta. Rifiutò di difendersi. Quando il tribunale emise il verdetto di morte, gridò con quanto fiato aveva in gola: 'Vigliacchi, viva l'Italia'. Lo fucilarono la mattina dopo. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.90)
Si trovavano tutti d'accordo, in quei giorni, comunisti, socialisti, democristiani, e il risultato fu che circa cinquecento dei nostri pagarono con la vita, tra il 1 e il 13 maggio, la loro fedeltà a Mussolini e all'Italia. La mia testimonianza diretta, infatti, riguarda solo ciò che vidi accadere nel carcere di Sondrio. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.93)
'Ma di cosa ti hanno accusato ?', trovò la forza di domandare Martino Cazzola. Paganella scrollò le spalle: 'Di niente', rispose con un sorriso 'mi hanno incolpato di essere un fascista. Poi mi hanno mostrato una lettera con la quale, mesi or sono, avevo risposto negativamente a uno di loro che mi invitava a raggiungere i partigiani in montagna. Hanno concluso che sono un criminale e un farabutto. Amen'. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.94)
I nostri tre camerati, infatti, erano stati condannati a morte da un tribunale del popolo, ma l'ordine di esecuzione era stato sospeso perché si attendeva una risposta alle domande di grazia inoltrate al comando generale delle formazioni partigiane a Milano. Ciononostante li avevano ugualmente assassinati. Era fin troppo chiaro, quindi, che nulla e nessuno potevano impedire alle squadre degli assassini rossi, appositamente organizzate dal PCI per seminare quel terrore che ancora oggi permane in tante località dell'Italia del Nord, di agire liberamente. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.97)
Gli otto, nessuno dei quali era stato condannato dal tribunale del popolo, vennero prelevati con una scusa qualsiasi e trasportati ad Ardenno. Lì furono mitragliati dopo essere stati costretti a scavarsi la fossa. Ma la ferocia disumana degli assassini si manifestò in quella occasione con un episodio veramente agghiacciante. I partigiani infatti si erano presentati alla ex Casa del Fascio con un elenco che comprendeva otto vittime designate: sette riuscirono a rintracciarle subito. L'ottava era irreperibile. Tra l'altro non si é mai saputo di chi si trattasse. Allora, per fare il numero, i giustizieri misero le mani sul primo che passò loro accanto, il tenente Enzo Barbini, un pistoiese, e lo ammazzarono insieme agli altri. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.98)
Martino Cazzola, il capitano valtellinese delle brigate nere cui i partigiani avevano rotto la testa durante la marcia da Ponte a Sondrio e che divideva la cella con noi, ricevette la citazione a comparire quella sera davanti al tribunale del popolo. [...] Avere in tasca la citazione per comparire davanti al tribunale del popolo, significava avere in tasca il passaporto per l'aldilà. [...] Martino Cazzola tornò dopo due ore. Sembrava impazzito. L'avevano assolto. Proprio così: assolto. Ce lo ripeté, incredulo, felice. Ci disse che alcuni partigiani del suo paese l'avevano difeso, che nessuno aveva potuto accusarlo di nulla. [...] La mattina seguente lo vennero a prendere poco prima dell'ora di aria. [...] Lo ammazzarono tre ore dopo. Lo misero insieme ad altri quattordici fascisti prelevati dalla ex Casa del Fascio. [...] Arrivati a metà strada, però, furono obbligati a scendere. Dovettero scavarsi la fossa. Poi dovettero ammucchiarsi dentro. Vorrei non doverlo raccontare: i partigiani li mitragliarono alle gambe e, mentre quegli sventurati urlavano implorando il colpo di grazia, li irrorarono con decine di litri di benzina. Li bruciarono vivi. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.102-104)
Ogni fascista era un criminale. Anzi, il termine fascista era ormai considerato un autentico insulto, un oltraggio. Le descrizioni che si facevano di noi erano semplicemente orripilanti. Avevamo tutti lo sguardo bieco, l'espressione dura e cinica, le nostre pupille erano fosche. Nella migliore e nella più benevola delle interpretazioni venivamo considerati dei poveri dementi traviati. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.117)
Le Corti d'Assise straordinarie, istituite con un decreto che portava la firma del Luogotenente generale del Regno, il principe Umberto, contemplavano una tale serie di reati per cui, a pensarci bene, tre quarti del popolo italiano avrebbe dovuto finire in galera, a cominciare da Umberto. Anche l'essere stati figli della Lupa poteva essere considerato un reato: la legge, infatti, era retroattiva. Puniva cioè dei fatti e delle azioni che, quando si erano verificati, fruttavano elogi, decorazioni e promozioni. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.118)
Se i massacri e gli eccidi erano infatti a mano a mano diminuiti fino a cessare del tutto, almeno in Valtellina, avevano però cominciato a funzionare le Corti d'Assise straordinarie. E ogni giorno fioccavano le condanne a morte, gli ergastoli, i trenta, i venti anni di galera. I processi si svolgevano, a Sondrio, in una grande aula del Tribunale ed erano presieduti da un magistrato. Ma la giuria popolare, scelta tra cittadini di provata fede antifascista, e il clima in cui si svolgevano i dibattimenti trasformavano i processi in autentici linciaggi. Il pubblico era composto quasi esclusivamente di partigiani o di fanatici di tutti i coloro che urlavano e inveivano contro gli imputati gridando 'A morte!'. Gli avvocati difensori, nella grande maggioranza, invece di battersi veramente per evitare ai loro clienti le terribili condanne chieste dal Pubblico Ministero, si abbandonavano a lunghi sproloqui durante i quali si preoccupavano, soprattutto, di fare comprendere che, loro, fascisti non erano mai stati. A Sondrio, comunque, non si giunse mai agli estremi cui si abbandonarono i partigiani in altre città, vale a dire a strappare gli imputati dalle gabbie ed ammazzarli per la strada. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.152)
Per tutto l'inverno, infatti, le Corti d'Assise straordinarie continuarono a lavorare a pieno ritmo, giudicando decine di migliaia di fascisti. Da un calcolo approssimativo effettuato nell'aprile del 1946 riuscimmo a stabilire che, senza considerare le numerosissime sentenze di morte, i giudici antifascisti, nel volgere di circa un anno, avevano emanato condanne per un totale di circa centocinquantamila anni di galera. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.255)
Ma le notizie che più ci tenevano in ansia erano quelle che riguardavano le nostre famiglie: anche se i nostri cari facevano di tutto per nasconderci la realtà delle loro situazioni, riuscivamo quasi sempre a capire, leggendo tra le righe, in quali difficoltà si dibattessero. L'epurazione aveva portata nelle nostre case la miseria più completa, una miseria che le condizioni tragiche in cui versava il Paese rendevano ancor più soffocante. Si era arrivati al punto che alcuni di noi conservavano le scaglie delle saponette inglesi per regalarle ai familiari che venivano a trovarci. Di più non potevamo fare. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.255-256)
Il maggiore Visconti raduna i suoi uomini nell'edificio scolastico di Gallarate. Non vuole arrendersi ai partigiani, che non riconosce come corpo combattente, ma a degli ufficiali che rappresentassero la Regia Aeronautica. Cominciano lunghe trattative che finalmente approdano la sera del 28 aprile ad un accordo per la resa alle seguenti condizioni: onore delle armi, salvacondotto a militari e sottufficiali, diritto alla pistola per gli ufficiali e loro trasferimento a Milano per essere consegnati alle autorità militari regolari. [...] Il mattino del 29 aprile Visconti e un gruppo di ufficiali sono trasferiti nella caserma milanese del Savoia cavalleria. Cominciano gli interrogatori. Mentre attraversa il cortile della caserma, Visconti viene riconosciuto da alcuni partigiani: una raffica di colpi lo uccide a tradimento'. (da 'I disperati', pag.309-310)
Alla stazione ferroviaria di Valmozzola, piccolo centro della provincia di Parma, il 12 marzo 1944 un gruppo di partigiani fermava un treno in transito facendo scendere tutti coloro che indossavano una divisa militare. Tra questi due ufficiali del 'Lupo' (il battaglione che si era costituito il 10 gennaio al comando del capitano di corvetta Corrado De Martino). I due ufficiali, Carlotti e Pieropan, erano in breve licenza. Messi al muro con altri otto militari (tra cui due carabinieri) furono uccisi a colpi di mitra. La loro colpa? Indossavano l'uniforme dell'Esercito italiano della RSI. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.108)
[...] Bardelli, reduce dal fronte di Nettuno, cadeva in un vile agguato e dopo strenua lotta veniva barbaramente ucciso con nove dei suoi uomini. Furono ritrovati i loro corpi spogliati degli indumenti e dei valori personali, strappati gli anelli dalle dita e i denti d'oro dalle bocche piene di terra e di erba in segno di sfregio. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.110)
I delitti gratuiti compiuti durante la Resistenza [...] furono voluti e compiuti dai comunisti. Si pose un velo su di essi perché non si ebbe la possibilità, o il coraggio di impedirli, né di punirli né di sconfessarli (Don Luigi Sturzo, L'ultima crociata, La Nuova Cultura, 1956). (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.117)
Avvalendosi in modo disinvolto della copertura e dell'appoggio del CLN e del CVL, il Comitato insurrezionale, non avendo alcun potere costituito contro il quale insorgere in armi, indicò come nemico, primario quanto generico, i fascisti che dovevano essere tutti ammazzati senza processo perché ... 'fuori legge'. Ed ecco, dattiloscritto su carta intestata Comitato di Liberazione Nazionale, il testo di una 'Circolare segreta': 'Disposizioni sul trattamento da usarsi contro il nemico. [...] Gli appartenenti alle Brigate Nere, alla Folgore, Nembo, X Mas e tutte le truppe volontarie, sono considerati fuorilegge e condannati a morte. Uguale trattamento sia usato anche ai feriti di tali reparti [...] In caso che si debbano fare dei prigionieri per interrogatori ecc., il prigioniero non deve essere tenuto in vita oltre le tre ore'. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.209-210)
A Clusone (in Lombardia) un reparto di giovanissimi ufficiali della Guardia Nazionale, spontaneamente disarmatosi dietro promessa della libertà, fu interamente massacrato. A Oderzo (nel Veneto) la compagnia anziani del battaglione Bologna, cui era stata garantita la vita all'atto del loro pacifico disarmo, furono freddamente trucidati sulle stesse vecchie trincee del Piave. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.211)
In molti casi i partigiani entrarono negli ospedali militari, trascinarono giù dal letto i feriti e li fucilarono nei cortili o sulla strada davanti ai parenti che li assistevano. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.212)
A Torino, teatro di massacri che non hanno forse nulla da invidiare a quelli della stessa Milano, decine di famiglie, compresi le donne e i bambini, furono gettate dalle finestre dei palazzi. E, tra l'altro, furono trucidate numerose ausiliarie. 'Il trattamento al quale furono sottoposte le donne fasciste, o presunte tali, dalla furia sanguinaria dei giustizieri rossi, rappresenta una delle pagine più vergognose della storia d'Italia [...] Le fototeche e la stampa a rotocalco degli anni immediatamente successivi sono piene di immagini di donne portate alla berlina e anche al supplizio, con i capelli rasati a zero, coperte di lividi ed ecchimosi sanguinanti, tra armigeri ghignanti. [...] Migliaia di uccisioni, spesso precedute da stupri e da sevizie d'ogni genere [...] Mandrie inbufalite di bruti su poveri esseri indifesi, colpevoli soprattutto di essere donne [...] e quindi preda facile e vulnerabile per i violenti [...] Il Po fu per molti giorni rosso di sangue e gonfio di cadaveri [...] In un canalone presso la salita del Cansiglio, tra il territorio delle provincie di Treviso e Vicenza, furono buttati non meno di millecinquecento giustiziati. [...] Bologna, con i suoi duemila trucidati dei primi giorni, dette il 'la' alle efferate numerosissime uccisioni dell'Emilia e della Romagna. Vercelli, Novara, Cuneo, Genova, Alessandria, Brescia, Varese, Savona, Como furono testimoni di scene selvagge; i morti si contavano a migliaia. Ogni villaggio, ogni borgo, dalla Toscana al Veneto, alla Lombardia, alla Liguria, al Piemonte, ebbe linciaggi e numerosi fatti di sangue [...] E nessuna offesa fu risparmiata né ai morti né ai vivi. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.212-213)
Valga questo altro esempio. Il 28 aprile 1945 a Rovetta, in provincia di Bergamo, vennero fucilati da partigiani comunisti tutti i componenti del presidio del passo della Presolana, composto da 43 militi di una compagnia della legione Tagliamento, i quali, rimasti isolati dal grosso del reparto, alla notizia dell'avvenuto crollo della RSI, secondo le disposizioni del CLNAI si erano arresi e avevano onsegnato le armi; ma una formazione di partigiani comunisti scesi dai monti si impose con le armi al CLN locale, ruppe i patti e passò per le armi tutti quei prigionieri. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.22)
Sull''Indipendente' dell'11 novembre 1993, Giampiero Mughini scriveva: 'Ma diciamolo francamente, quella di Mussolini e della sua donna fu un'opera di macelleria. E ancor più lo era stato il massacro davanti al muretto di Dongo di gente in camicia nera che non aveva nulla di cui essere imputata'. Infatti quel massacro, affidato al lapis del colonnello Valerio che andava spuntando con una crocetta su una lista i nomi di coloro che dovevano essere liquidati, fu opera di macelleria, che vide cadere, gli uni accanto agli altri, grandi invalidi, ex combattenti, decorati al valore, funzionari, amministratori, poeti, ex comunisti, molti dei quali senza colpa e senza peccato, accompagnata da tutto il corredo di ferocia, di inutile brutalità (Barracu che come medaglia d'oro pretende di essere fucilato nel petto viene costretto a pugni e a calci a voltare le spalle) e, per Mussolini e Claretta, di sordida fretta, di ambigua clandestinità. Ma fu anche qualcosa di molto molto più. Quella esecuzione sbrigativa e ancora per tanti versi oscura nelle modalità con cui si svolse e nella persona dei suoi esecutori, fu lo scippo da parte di una fazione, attuato con le armi in pugno in modo arbitrario e violento, di un atto il cui diritto di compierlo o no spettava solo e interamente a tutto il popolo italiano. [...] Un atto della stessa identica natura arbitraria di quelli di cui si faceva responsabile il regime e il tempo che con esso si pretendeva di liquidare, per instaurarne un altro di legalità e di sovranità popolare. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.163-164)
Fascisti o 'presunti tali' furono portati davanti a plotoni d'esecuzione, appesi a un cappio, linciati. Uomini adulti, ragazzi, donne, vecchi, civili e militari, mutilati, ciechi di guerra, giovani ausiliarie denudate e violentate, preti, giornalisti, poeti, attori. Una sagra di odio e di furore. Le strade delle città, gli argini dei fiumi, il terreno scabro sotto il muro di cimiteri di imbrattò di sangue e l'aria si riempì di grida disperate e del crepitare delle armi automatiche. Li si andava a prelevare nelle case, li si rincorreva per le vie a seguito di un semplice presunto riconoscimento: 'E lui! E un fascista! È una spia!'. Li si riconosceva alla fermata di un tram: 'Aspetta, aspetta, ma tu non sei quello?...'. Presidi e interi reparti militari che si arresero, consegnarono le armi dopo regolari trattative con i CLN, in totale spregio ai patti stipulati, vennero passati per le armi dopo inenarrabili sevizie. Gente fu prelevata a forza dalle prigioni e scomparve nel nulla, per una rassomiglianza, un accusa senza alcun fondamento. Il generale Teruzzi, venne fucilato tre volte: tre innocenti, per il semplice fatto di portare una barba simile alla sua furono trucidati, implorando pietà e proclamando la loro reale identità. Lui morì nel suo letto molti anni dopo. Giorgio Bocca ha dato una cifra approssimativa tra i dodici e i quindicimila uccisi. No, il suo cuore partigiano lo ha spinto a indulgere, diminuire le proporzioni del massacro, edulcorandolo ulteriormente con l'espressione eufemistica: 'soluzione rivoluzionaria'. In realtà si trattò di molti di più. Già 'L'Opinione' del luglio 1945 riportava la notizia di ventimila 'fascisti o presunti tali' eliminati, tra i quali 3.000 donne. Nel 1951 il giornalista Ferruccio Lanfranchi, testimone dei fatti, secondo i suoi calcoli, su 'Il Tempo' (13 agosto) avanzava l'ipotesi di 50/60.000 uccisi. E Silvio Betoldi nel settembre 1990 sul 'Corriere della Sera' riferiva che in un colloquio con Ferruccio Parri, poco prima della sua morte, questi, che era stato comandante dei volontari della Libertà, gli aveva confidato che si era trattato di 'più di trentamila morti'. E infatti, di 'più di trentamila' si trattò. Come risulta dai dati forniti nel 1994, dopo anni di ricerche, di analisi di elenchi nominativi e di testimonianze, dal gruppo di lavoro all'uopo costituito dall'Istituto Storico della RSI. Escludendo gli uccisi nella Venezia Giulia ad opera dei partigiani titini (23.000) è stato stabilito che, fra militari e civili, gli eliminati dal 25 aprile al 31 maggio 1945, furono 42.000!. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.168-170)
Si uccideva, si 'giustiziava'. Nella 'prigione del popolo' in cui venni tenuto con altri tre camerati in quei giorni di furore, dove, dopo essere stati più volte portati contro il muro, per la ferma opposizione di un giovane capo partigiano con cui avevamo trattato la nostra resa, avevamo ogni volta scampato la vita, uno dei giovani patrioti che ci facevano la guardia e con il quale, passati i momenti dell'ira, eravamo entrati in confidenza, ci raccontava come la sera quando era libero dal servizio, con i suoi compagni andava ad assistere ai 'processi' che si svolgevano in luoghi simili a quello in cui eravamo prigionieri, cantine, rimesse, e ci riferiva le scene di orrore e di violenza, il terrore degli 'imputati', che finivano regolarmente per essere messi a morte. Un mattino lo vedemmo arrivare particolarmente scosso per essersi imbattuto, venendo lì, nel cadavere nudo di un 'fascista' cui era stata 'segata' la testa, che 'stava laggiù all'altro angolo della strada'. [...] Tutto ciò, ovviamente, è rimasto coperto, offuscato, non c'è stata una letteratura a diffusione nazionale, recensita sui grandi quotidiani o commentata in televisione, come quella sterminata che illustra le stragi e i massacri attuati dai 'fascisti', che ne abbia trattato; solo qualche 'buco' qua e là nella cappa di silenzi e di omertà che ha coperto quei giorni e quei fatti e sepolto subito da valanghe d mole di 'comprensione' e di 'giustificazione'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.176-177)
Quarantaduemila morti ammazzati, tra i quali giovani entusiasti, puri patrioti, idealisti e uomini responsabili, quando ormai la guerra era finita e le sorti definitivamente tratte! Quarantaduemila uomini, donne, giovani ausiliarie col baschetto sulle ventitrè e quell'aria di balde 'piccole italiane' denudate, oltraggiate e uccise, anziani, invalidi di guerra trucidati, senza processo, senza possibilità di difesa, senza accertamento di prove! In quelle condizioni di violenza e di degradazione fisica e morale. Esposti alla furia di bande sanguinarie, cariche di odio e di vendetta, aizzate da tutto un coro di voci! [...] Non posso chiudere questo scritto senza ricordare il sacrificio di 43 miei giovani camerati, molti dei quali conoscevo personalmente, e i cui volti adolescenti sono ancora qui davanti ai miei occhi, di cui ho fatto menzione nelle prime pagine di questo libro, fucilati il 28 aprile 1945 da una banda di partigiani comunisti a Rovetta, un paesino posto sotto il passo della Presolana, in provincia di Bergamo. La loro fine mi fu raccontata dalla madre di uno di essi, Alvaro Porcarelli, in un pomeriggio di tanti anni fa in un nudo appartamento all'ultimo piano di un palazzone che guardava sul piazzale del Colosseo a Roma. [...] La madre di quel compagno d'arme, una donna sui cinquant'anni, già vedova, era rimasta completamente sola, essendo stati i suoi due 'ragazzi, che da quella stessa finestra avevano assistito a tante sfilate e parate militari', uccisi ambedue in quei giorni di sangue. Uno fucilato in quell'eccidio a Rovetta e l'altro 'impiccato con il filo spinato', come con la sua voce atona mormorò, in una località delle Langhe. Quei miei giovani commilitoni, comandati da un sottotenente di ventidue anni, molti dei quali convalescenti da ferite e malattie, rimasti isolati di presidio al passo della Presolana, avuta la notizia della fine della RSI e della morte di Mussolini, su pressioni del parroco e di altri maggiorenti del paese si erano arresi al locale CLN e avevano consegnato le armi, come disposto nei bandi affissi dalle nuove autorità. Il giorno successivo, una formazione partigiana comunista era scesa in paese dai monti e, impostasi con le armi al CLN, aveva rotto i patti e deciso di fucilare tutti quei militi. Furono portati davanti al muro del cimitero, fu fatta loro scavare la fossa e vennero fucilati cinque per volta. Ognuna di quelle cinquine, cadendo sotto le raffiche, gridava: 'Viva l'Italia'. Un'altra cinquina veniva prelevata dal gruppo li in attesa, la facevano schierare davanti ai corpi ancora scalcianti di quelli già abbattuti, e nuovamente quando partiva la salva quei 'figli di stronza' gridavano il nome della madre: 'Viva l'Italia'. Per otto volte, come le donne del paese, che chiuse nelle loro case, terrorizzate tendevano le orecchie a quegli spari e a quelle grida, raccontarono alle madri di quei martiri, quando alcuni anni dopo si recarono lassù a riesumare i resti dei figli, per otto volte, sotto quei monti, nel silenzio agghiacciato di quel giorno, sentirono le voci di quei ragazzi gridare: 'Viva l'Italia'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.178-180)
Il 19 aprile è la volta del proclama 'Arrendersi o perire !', rivolto a militari e funzioni della Repubblica sociale e dell'apparato di occupazione germanico. Il testo merita di essere analizzato nel dettaglio perchè riflette le volontà politiche e le emozioni del clima insurrezionale. Partendo dalla considerazione che 'la battaglia finale contro la Germania hitleriana volge rapidamente alla sua conclusione con la vittoria delle Nazioni Unite', il proclama denuncia 'la cricca hitleriana e fascista che vuole trascinare nella rovina estrema le forze che restano'. La continuazione della lotta è inutile e non può che trasformarsi in un suicidio collettivo delle forze nazifasciste. Per i soldati tedeschi e i militi di Salò, l'unica strada percorribile è la resa incondizionata, con la consegna immediata delle armi: 'Una sola via di scampo e di salvezza resta, ancora, ai tedeschi che calpestano il nostro suolo e a quanti, italiani, hanno tradito la patria, sostenuto il fascismo, servito i tedeschi: abbassare le armi, consegnarle alle formazioni patriottiche, arrendersi al Comitato di liberazione'. Chi si arrende subito 'avrà salva la vita, se non si sarà macchiato personalmente di più gravi delitti': ma 'chi non si arrende, sarà sterminato'. La conclusione del proclama, di cui si raccomanda la massima diffusione, è lapidaria: 'Oggi, subito: arrendersi o perire! Che nessuno possa dire che, sull'orlo della tomba, non è stato avvertito e non gli è stata offerta un'estrema ed ultima via di salvezza'. Lo stesso giorno, il Clnai ribadisce il proprio orientamento emanando uno specifico decreto sulla resa delle formazioni nazifasciste. All'atto della resa, tutti i gruppi armati della Repubblica sociale devono essere sciolti e disarmati e i militi raccolti in campi di internamento in attesa di giudizio: 'Gli individui già appartenenti alle formazioni militari fasciste, i quali, dopo lo scioglimento di esse, vengono catturati armati, vanno passati per le armi'; gli ufficiali e i soldati tedeschi che si arrendono vanno invece 'trattati come prigionieri di guerra e consegnati agli alleati appena possibile'. (da 'La resa dei conti', pag.94-95)
Analoghi spunti emergono da una relazione sulla situazione di Milano di inizio maggio. Dopo la disposizione prefettizia del 30 aprile che ordina la sospensione immediata delle fucilazioni arbitrarie e del funzionamento dei tribunali di guerra e la consegna degli arrestati alla Commissione di giustizia, si constatano le resistenze ad ottemperare all'ordine, nonostante esso sia stato diramato dalle autorità resistenziali [...] 'Data la fuga precipitosa dei nazisti, rimanevano in città molti fascisti repubblicani e collaboratori del nemico occupante, che non avevano il tempo per allontanarsi. Pertanto oltre un migliaio di questi venivano sommariamente giustiziati dal popolo, che si rovesciava nelle strade alla loro caccia'. A Modena il 26 aprile Alessandro Coppi e Arturo Galavotti, rispettivamente presidente e segretario del Comitato di liberazione provinciale, diramano un appello in cui è fatto 'assoluto divieto, se non dietro espressa autorizzazione del Cln, di procedere ad arresti ed esecuzioni'; la gravità della situazione e la necessità di porre un freno alla repressione sono confermate il giorno seguente, quando viene diramata a tutti i Cln della provincia modenese una circolare dello stesso tenore. (da 'La resa dei conti', pag.104-105)
Nelle fabbriche, dove la conoscenza diretta rende immediata l'individuazione, l'azione repressiva è ancora più radicale: così alla Fiat Mirafiori, alla Fiat Lingotto, all'Innocenti di Lambrate, alla Pirelli, all'Alfa Romeo. Si colpiscono i fascisti dichiarati, ma, nell'intreccio tra giustizia politica e giustizia di classe, spesso cadono anche i capisquadra più odiosi, i responsabili di reparto che hanno tagliato i tempi di produzione, i quadri che hanno determinato licenziamenti, i capi e i capetti che hanno fatto pesare la propria autorità nelle forme più ruvide ed offensive. (da 'La resa dei conti', pag.111)
Benito Mussolini fu ucciso - anche nel timore, non infondato, che da lì a pochi anni sarebbe potuto ritornare al potere - ma la sua uccisione non fu un atto rivoluzionario, poiché essa non ebbe luogo subito dopo la cattura, da parte dei partigiani che l'avevano scoperto. Non fu un atto rivoluzionario anche perché il Duce non fu subito linciato da una folla inferocita, o da un gruppo, o da un singolo. Non fu infine un atto rivoluzionario perché in Italia... non era in corso una rivoluzione! Si trattò piuttosto di un omicidio a sangue freddo, premeditato, in base ad una sentenza illegale emessa da un organo, il CLNAI, che il 16 agosto 1944 si era arbitrariamente arrogato il diritto di emettere sentenze. Ma soprattutto si trattò di un atto antidemocratico, poiché in una democrazia anche il peggiore assassino - proprio per differenziarsi da lui - ha diritto a difendersi in un processo dove vengono garantiti i crismi della legalità. Il CLNAI terminava dunque la sua attività con un atto che dimostrava la sua eccezionale mancanza di spirito democratico. (da 'In nome della resa', pag.430)
Carlo Simiani, un perseguitato del fascismo e poi partigiano non dell'ultima ora, ha condotto subito dopo la guerra una rigorosa indagine sul numero delle vittime provocate dalla 'caccia al fascista' che, iniziata alla fine d'aprile, durò diverso tempo. Secondo le sue ricerche le vittime furono 40.000 (tra di esse gli attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida che furono fucilati a Milano, in Via Poliziano 13, il 30 aprile 1945). Ecco come Simiani descrive l'atmosfera che regnava a Milano in quelle sanguinose giornate del tardo aprile del 1945: […] 'Già al 26 aprile si parlava di centinaia di fascisti uccisi e di altre migliaia sotto 'processo'. Ma quali processi? Gruppi di irresponsabili intendevano far giustizia da sé e processare con tutte le garanzie stabilite dai codici significava perdere tempo prezioso'. […] 'I partiti si davano un gran da fare per impossessarsi dei posti chiave, distribuendo cariche a persone che non erano all'altezza del compito loro affidato'. 'Si era al corrente di molti giustiziati che nulla avevano avuto a che vedere con il fascismo, il più delle volte vittime o delle loro ricchezze o di vendette personali'. 'Si ebbero anche casi di persone prelevate per carpire loro il denaro e, rilasciate, anche se meritevoli di punizione, mediante l'esborso di cifre notevoli. In mezzo a questo stato di cose che andava generalizzandosi, migliaia di persone incontravano la morte senza subire giudizi, senza essersi potute appellare, quasi sempre prive di conforti religiosi, raramente col permesso di inviare un estremo saluto ai familiari'. […] Sì calcola infatti che dal 25 aprile al 30 maggio i morti furono, nel capoluogo lombardo, 3.400. Tra le vittime anche 6 partigiani: il conte Federico Barbiano Belgioioso e cinque suoi compagni, uccisi perché furono scambiati per 'fascisti', in quanto avevano un aspetto 'troppo distinto' per poter essere dei partigiani! Nel Bolognese operavano, ancora al momento del crollo della 'Linea Gotica', circa 1.500 partigiani, di cui 300 in città. Orbene, dopo la liberazione dall'occupazione tedesca, compiuta dalle truppe regolari italiane, i partigiani divennero improvvisamente oltre 20.000 e nel capoluogo emiliano esplose una violenza indescrivibile che colpiva tutti: fascisti ed antifascisti, vecchi e giovani, ricchi e poveri. Una delegazione sovietica, di passaggio in città, che pure proveniva da un paese dove ne capitavano di tutti i colori, rimase impressionata dalla violenza che potremmo anche definire 'alla fascista' di cui erano capaci gli italiani. In tutto 1.300 persone vennero liquidate in città (e di esse 800 rimasero non identificate). In Romagna le vittime furono 450: una cifra non solo inferiore a Bologna, ma anche 'moderata' per una regione comunemente considerata di 'teste calde'. Lo stesso dicasi per il Veneto e la Liguria. In Piemonte le vittime furono in tutto 8.000 (nessuna in Valle d'Aosta) e di esse solo 200 nell'Ossola, che pure aveva visto il maggior trionfo militare partigiano. Gli americani avevano ritardato apposta, dice Simiani, l'occupazione del Piemonte per permettere ai partigiani di liquidare tutti coloro che ritenevano, cosa che loro, una volta arrivati, non avrebbero più potuto permettere. In questa atmosfera i partigiani poterono compiere indisturbati, nella zona di Saluzzo, la liquidazione di circa 500 soldati della divisione Monterosa (dell'esercito regolare della Repubblica Sociale Italiana e non necessariamente formata da neofascisti), dopo che la grande unità si era arresa. Assai diverso fu il comportamento dei brasiliani che, il 29 aprile 1945, a Fellegara (Parma), concessero l'onore delle armi a quegli alpini della Monterosa che ebbero la fortuna di cadere nelle loro mani. Anche se il più appariscente, il massacro degli alpini non fu una eccezione. Innumerevoli soldati della RSI, in moltissimi casi colpevoli solo di aver combattuto contro gli Alleati e, al massimo, di essersi difesi dagli attacchi dei partigiani (ma senza mai aver partecipato a rastrellamenti e tantomeno a rappresaglie) vennero orribilmente massacrati da questi ultimi, mentre, se si fossero arresi agli Alleati, avrebbero probabilmente ricevuto l'onore delle armi, cosa che infatti fu concessa (non solo dai brasiliani) a parecchi reparti. (da 'In nome della resa', pag.446-448)
Per qualche mese, nel 1945, il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia) ebbe mano libera nell'Italia settentrionale, e fu una carneficina. Non solo le formazioni partigiane si battevano fra loro, ma saccheggiavano liberamente e massacravano chiunque fosse sospettato di essere fascista. Le pattuglie militari alleate, e persino quelle miste che includevano unità tedesche, poterono fare ben poco per ristabilire l'ordine fino a quando non si placò la sete di sangue. Oggi le autorità italiane ammettono che i morti furono ufficialmente 17.322, ma si calcola che la cifra reale oscilli intorno alle 100.000 persone fra uomini, donne e bambini. [...] In molti casi furono sterminate intere famiglie, compresi i bambini più piccoli; le case furono saccheggiate e completamente depredate inclusi mobili e indumenti, perché non restasse la minima traccia [...] Esponenti di centro e di destra ritengono che la maggior parte delle atrocità sia stata commessa dai comunisti, che agivano per conto di Mosca. Recenti testimonianze confermano tale tesi. (da 'La guerra inutile', pag.15)
Durante la mattina erano scomparsi un cuciniere e quattro legionari del presidio di Mazzo. [...] Ma nelle prime ore del pomeriggio erano stati trovati nella cantina di una casa di Sernio: massacrati a colpi di pugnale, con gli occhi strappati e gli organi genitali in bocca. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.35)
Tedeschi, allora, insorse gridando che io ragionavo così perché non avevo i miei cari in quel dannato paese; che i partigiani erano capaci di catturarli come ostaggi e farli camminare davanti a loro durante l'attacco. Casi del genere, sostenne, si erano già verificati. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.40)
Nemmeno io pensavo che gli potessero fare del male. Era un brav'uomo, me l'avevano detto tutti che si era iscritto al Fascio repubblicano mosso solo da un amore infinito per la sua Patria. Invece, quando lo salutai, non gli restavano nemmeno due giorni di vita. Nel pomeriggio del 29 aprile, infatti, dopo le forze fasciste a Tirano, alcuni partigiani lo prelevarono da casa sotto gli occhi della moglie e dei figli. Poi lo costrinsero a correre davanti a loro per le vie della cittadina, sparandogli tra le gambe. Alla fine lo gettarono contro un muro e l'ammazzarono come un cane tirandogli addosso una scarica di bombe a mano. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.66)
E poi la notte. Ci stiparono in una settantina dentro un aula. Con noi c'erano delle ausiliarie. I partigiani continuarono ad entrare per ore e ore, ubriachi, pazzi di furore. Ci puntavano i mitra contro lo stomaco: 'Tutti gli uomini contro il muro. Guardate, adesso, che cosa facciamo alle vostre ausiliarie. Venite qui, sgualdrine; venite qui luride mignotte'. Ho sempre cercato di dimenticare quello che vidi quella notte. Ma non ci sono mai riuscito. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.76)
Novemila metri. Ogni metro un insulto. Ogni metro una valanga di mazzate su di noi. Toccarono a tutti. Io, per quanto possa sembrare incredibile, riuscii a schivarle. Per un motivo molto semplice. Mi ero accorto che gli occhi di tutti quei forsennati si posavano sempre sul pistolone da carabiniere che mi ero sistemato alla cintura. Dopo qualche centinaia di metri, allora, aprii la custodia dell'arma e continuai a marciare tenendo la destra sul calcio della pistola. Non ci fu nessuno che osasse più venirmi addosso. Vigliacchi fino all'inverosimile, avevano ancora paura che potessi sparare. [...] Vidi il capitano Martino Cazzola cadere a terra con la testa fracassata. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.77-78)
Uno di noi domandò: 'E che cos'è il tribunale del popolo?'. Io lo sapevo bene, che cos'era, ma non volli dirlo. Ne avevo sentito parlare durante le mie missioni oltre le linee, nei paesi già liberati. Lo componevano, di solito, i più fanatici tra i capi partigiani comunisti. La procedura la inventavano lì per lì. L'unica pena prevista era la pena di morte. E la sentenza veniva eseguita subito: al massimo, entro le ventiquattro ore successive. [...] Allora non riuscii più a tacere: 'Non fatevi illusioni', dissi 'quei tribunali lì giudicano esclusivamente sotto il profilo politico. A loro basta provare che l'imputato é un fascista. E lo mandano al muro. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.85)
Toccò al capitano Cattaneo, anche lui, come Marchetti, della 3 Legione confinaria. Lo condannarono a morte la sera del 1 maggio; lo fucilarono la mattina dopo. Poi le esecuzioni si infittirono e fu il massacro. Di quelle ore, di quei giorni, dodici complessivamente, durante i quali tutti noi vivemmo nell'attesa della morte, ho conservato dei ricordi a volte confusi, a volte nitidissimi. I ricordi di un incubo, comunque, che ancora oggi, a tanti anni di distanza, non sono riuscito a dissipare del tutto. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.86)
Era ormai evidente che i patti di resa non sarebbero stati rispettati e che i capi del CLN erano complici nelle uccisioni in corso dovunque. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.87)
Il tribunale del popolo era composto da una decina di capi banda, quasi tutti comunisti. I giudici sedevano sul palcoscenico del teatrino della ex Casa del Balilla. Il pubblico, formato in maggioranza di partigiani, si assiepava nello spazio riservato, normalmente, agli spettatori. Il processo era stato rapidissimo. Un capo partigiano aveva pronunciato la requisitoria. Marchetti era imputato di essere fascista, di aver prestato servizio nella Confinaria, di aver partecipato a rastrellamenti e di essere un torturatore di patrioti. Marchetti si era difeso con estremo coraggio. Aveva confermato la sua fede fascista e negato di avere mai torturato nessuno: 'Portatemi qui questi patrioti torturati', aveva gridato 'li voglio vedere in faccia'. [...] Poi, quel tale che fungeva da presidente si era rivolto al pubblico e aveva gridato: 'Lo volete vivo o lo volete morto?'. 'Morto': era stata la risposta. 'Il criminale di guerra capitano Marchetti', aveva allora sentenziato il tribunale 'é condannato a morte. L'esecuzione avverrà domattina'. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.87-88)
Quel pomeriggio del 1 maggio i partigiani entrarono a frotte nel carcere. Capi e gregari. Ci guardavano come si guardano solitamente le belve in gabbia. Ghignavano felici. Per tanti mesi avevano dovuto battere i tacchi davanti a noi. Ora, finalmente, ci avevano in pugno. Potevano farci quello che volevano. Per godersi meglio lo spettacolo avevano ordinato agli agenti di custodia di tenere spalancate le porte. [...] E si vendicavano. A me, che ero giunto in Valtellina solo il 20 aprile, uno urlò che mi riconosceva, che mi aveva notato due mesi prima, in un paese che ora non ricordo, mentre giravo mostrando a tutti un barattolo pieno di occhi sinistri di partigiani. Giuro che non sto inventando una sola parola: disse proprio un barattolo pieno di occhi sinistri di partigiani, strappati, naturalmente, da me. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.89-90)
Toccò invece al capitano Cattaneo. Accusarono anche lui di torture, sevizie, massacri. Tutto inventato di sana pianta. Rifiutò di difendersi. Quando il tribunale emise il verdetto di morte, gridò con quanto fiato aveva in gola: 'Vigliacchi, viva l'Italia'. Lo fucilarono la mattina dopo. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.90)
Si trovavano tutti d'accordo, in quei giorni, comunisti, socialisti, democristiani, e il risultato fu che circa cinquecento dei nostri pagarono con la vita, tra il 1 e il 13 maggio, la loro fedeltà a Mussolini e all'Italia. La mia testimonianza diretta, infatti, riguarda solo ciò che vidi accadere nel carcere di Sondrio. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.93)
'Ma di cosa ti hanno accusato ?', trovò la forza di domandare Martino Cazzola. Paganella scrollò le spalle: 'Di niente', rispose con un sorriso 'mi hanno incolpato di essere un fascista. Poi mi hanno mostrato una lettera con la quale, mesi or sono, avevo risposto negativamente a uno di loro che mi invitava a raggiungere i partigiani in montagna. Hanno concluso che sono un criminale e un farabutto. Amen'. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.94)
I nostri tre camerati, infatti, erano stati condannati a morte da un tribunale del popolo, ma l'ordine di esecuzione era stato sospeso perché si attendeva una risposta alle domande di grazia inoltrate al comando generale delle formazioni partigiane a Milano. Ciononostante li avevano ugualmente assassinati. Era fin troppo chiaro, quindi, che nulla e nessuno potevano impedire alle squadre degli assassini rossi, appositamente organizzate dal PCI per seminare quel terrore che ancora oggi permane in tante località dell'Italia del Nord, di agire liberamente. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.97)
Gli otto, nessuno dei quali era stato condannato dal tribunale del popolo, vennero prelevati con una scusa qualsiasi e trasportati ad Ardenno. Lì furono mitragliati dopo essere stati costretti a scavarsi la fossa. Ma la ferocia disumana degli assassini si manifestò in quella occasione con un episodio veramente agghiacciante. I partigiani infatti si erano presentati alla ex Casa del Fascio con un elenco che comprendeva otto vittime designate: sette riuscirono a rintracciarle subito. L'ottava era irreperibile. Tra l'altro non si é mai saputo di chi si trattasse. Allora, per fare il numero, i giustizieri misero le mani sul primo che passò loro accanto, il tenente Enzo Barbini, un pistoiese, e lo ammazzarono insieme agli altri. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.98)
Martino Cazzola, il capitano valtellinese delle brigate nere cui i partigiani avevano rotto la testa durante la marcia da Ponte a Sondrio e che divideva la cella con noi, ricevette la citazione a comparire quella sera davanti al tribunale del popolo. [...] Avere in tasca la citazione per comparire davanti al tribunale del popolo, significava avere in tasca il passaporto per l'aldilà. [...] Martino Cazzola tornò dopo due ore. Sembrava impazzito. L'avevano assolto. Proprio così: assolto. Ce lo ripeté, incredulo, felice. Ci disse che alcuni partigiani del suo paese l'avevano difeso, che nessuno aveva potuto accusarlo di nulla. [...] La mattina seguente lo vennero a prendere poco prima dell'ora di aria. [...] Lo ammazzarono tre ore dopo. Lo misero insieme ad altri quattordici fascisti prelevati dalla ex Casa del Fascio. [...] Arrivati a metà strada, però, furono obbligati a scendere. Dovettero scavarsi la fossa. Poi dovettero ammucchiarsi dentro. Vorrei non doverlo raccontare: i partigiani li mitragliarono alle gambe e, mentre quegli sventurati urlavano implorando il colpo di grazia, li irrorarono con decine di litri di benzina. Li bruciarono vivi. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.102-104)
Ogni fascista era un criminale. Anzi, il termine fascista era ormai considerato un autentico insulto, un oltraggio. Le descrizioni che si facevano di noi erano semplicemente orripilanti. Avevamo tutti lo sguardo bieco, l'espressione dura e cinica, le nostre pupille erano fosche. Nella migliore e nella più benevola delle interpretazioni venivamo considerati dei poveri dementi traviati. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.117)
Le Corti d'Assise straordinarie, istituite con un decreto che portava la firma del Luogotenente generale del Regno, il principe Umberto, contemplavano una tale serie di reati per cui, a pensarci bene, tre quarti del popolo italiano avrebbe dovuto finire in galera, a cominciare da Umberto. Anche l'essere stati figli della Lupa poteva essere considerato un reato: la legge, infatti, era retroattiva. Puniva cioè dei fatti e delle azioni che, quando si erano verificati, fruttavano elogi, decorazioni e promozioni. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.118)
Se i massacri e gli eccidi erano infatti a mano a mano diminuiti fino a cessare del tutto, almeno in Valtellina, avevano però cominciato a funzionare le Corti d'Assise straordinarie. E ogni giorno fioccavano le condanne a morte, gli ergastoli, i trenta, i venti anni di galera. I processi si svolgevano, a Sondrio, in una grande aula del Tribunale ed erano presieduti da un magistrato. Ma la giuria popolare, scelta tra cittadini di provata fede antifascista, e il clima in cui si svolgevano i dibattimenti trasformavano i processi in autentici linciaggi. Il pubblico era composto quasi esclusivamente di partigiani o di fanatici di tutti i coloro che urlavano e inveivano contro gli imputati gridando 'A morte!'. Gli avvocati difensori, nella grande maggioranza, invece di battersi veramente per evitare ai loro clienti le terribili condanne chieste dal Pubblico Ministero, si abbandonavano a lunghi sproloqui durante i quali si preoccupavano, soprattutto, di fare comprendere che, loro, fascisti non erano mai stati. A Sondrio, comunque, non si giunse mai agli estremi cui si abbandonarono i partigiani in altre città, vale a dire a strappare gli imputati dalle gabbie ed ammazzarli per la strada. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.152)
Per tutto l'inverno, infatti, le Corti d'Assise straordinarie continuarono a lavorare a pieno ritmo, giudicando decine di migliaia di fascisti. Da un calcolo approssimativo effettuato nell'aprile del 1946 riuscimmo a stabilire che, senza considerare le numerosissime sentenze di morte, i giudici antifascisti, nel volgere di circa un anno, avevano emanato condanne per un totale di circa centocinquantamila anni di galera. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.255)
Ma le notizie che più ci tenevano in ansia erano quelle che riguardavano le nostre famiglie: anche se i nostri cari facevano di tutto per nasconderci la realtà delle loro situazioni, riuscivamo quasi sempre a capire, leggendo tra le righe, in quali difficoltà si dibattessero. L'epurazione aveva portata nelle nostre case la miseria più completa, una miseria che le condizioni tragiche in cui versava il Paese rendevano ancor più soffocante. Si era arrivati al punto che alcuni di noi conservavano le scaglie delle saponette inglesi per regalarle ai familiari che venivano a trovarci. Di più non potevamo fare. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.255-256)
Il maggiore Visconti raduna i suoi uomini nell'edificio scolastico di Gallarate. Non vuole arrendersi ai partigiani, che non riconosce come corpo combattente, ma a degli ufficiali che rappresentassero la Regia Aeronautica. Cominciano lunghe trattative che finalmente approdano la sera del 28 aprile ad un accordo per la resa alle seguenti condizioni: onore delle armi, salvacondotto a militari e sottufficiali, diritto alla pistola per gli ufficiali e loro trasferimento a Milano per essere consegnati alle autorità militari regolari. [...] Il mattino del 29 aprile Visconti e un gruppo di ufficiali sono trasferiti nella caserma milanese del Savoia cavalleria. Cominciano gli interrogatori. Mentre attraversa il cortile della caserma, Visconti viene riconosciuto da alcuni partigiani: una raffica di colpi lo uccide a tradimento'. (da 'I disperati', pag.309-310)
Alla stazione ferroviaria di Valmozzola, piccolo centro della provincia di Parma, il 12 marzo 1944 un gruppo di partigiani fermava un treno in transito facendo scendere tutti coloro che indossavano una divisa militare. Tra questi due ufficiali del 'Lupo' (il battaglione che si era costituito il 10 gennaio al comando del capitano di corvetta Corrado De Martino). I due ufficiali, Carlotti e Pieropan, erano in breve licenza. Messi al muro con altri otto militari (tra cui due carabinieri) furono uccisi a colpi di mitra. La loro colpa? Indossavano l'uniforme dell'Esercito italiano della RSI. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.108)
[...] Bardelli, reduce dal fronte di Nettuno, cadeva in un vile agguato e dopo strenua lotta veniva barbaramente ucciso con nove dei suoi uomini. Furono ritrovati i loro corpi spogliati degli indumenti e dei valori personali, strappati gli anelli dalle dita e i denti d'oro dalle bocche piene di terra e di erba in segno di sfregio. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.110)
I delitti gratuiti compiuti durante la Resistenza [...] furono voluti e compiuti dai comunisti. Si pose un velo su di essi perché non si ebbe la possibilità, o il coraggio di impedirli, né di punirli né di sconfessarli (Don Luigi Sturzo, L'ultima crociata, La Nuova Cultura, 1956). (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.117)
Avvalendosi in modo disinvolto della copertura e dell'appoggio del CLN e del CVL, il Comitato insurrezionale, non avendo alcun potere costituito contro il quale insorgere in armi, indicò come nemico, primario quanto generico, i fascisti che dovevano essere tutti ammazzati senza processo perché ... 'fuori legge'. Ed ecco, dattiloscritto su carta intestata Comitato di Liberazione Nazionale, il testo di una 'Circolare segreta': 'Disposizioni sul trattamento da usarsi contro il nemico. [...] Gli appartenenti alle Brigate Nere, alla Folgore, Nembo, X Mas e tutte le truppe volontarie, sono considerati fuorilegge e condannati a morte. Uguale trattamento sia usato anche ai feriti di tali reparti [...] In caso che si debbano fare dei prigionieri per interrogatori ecc., il prigioniero non deve essere tenuto in vita oltre le tre ore'. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.209-210)
A Clusone (in Lombardia) un reparto di giovanissimi ufficiali della Guardia Nazionale, spontaneamente disarmatosi dietro promessa della libertà, fu interamente massacrato. A Oderzo (nel Veneto) la compagnia anziani del battaglione Bologna, cui era stata garantita la vita all'atto del loro pacifico disarmo, furono freddamente trucidati sulle stesse vecchie trincee del Piave. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.211)
In molti casi i partigiani entrarono negli ospedali militari, trascinarono giù dal letto i feriti e li fucilarono nei cortili o sulla strada davanti ai parenti che li assistevano. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.212)
A Torino, teatro di massacri che non hanno forse nulla da invidiare a quelli della stessa Milano, decine di famiglie, compresi le donne e i bambini, furono gettate dalle finestre dei palazzi. E, tra l'altro, furono trucidate numerose ausiliarie. 'Il trattamento al quale furono sottoposte le donne fasciste, o presunte tali, dalla furia sanguinaria dei giustizieri rossi, rappresenta una delle pagine più vergognose della storia d'Italia [...] Le fototeche e la stampa a rotocalco degli anni immediatamente successivi sono piene di immagini di donne portate alla berlina e anche al supplizio, con i capelli rasati a zero, coperte di lividi ed ecchimosi sanguinanti, tra armigeri ghignanti. [...] Migliaia di uccisioni, spesso precedute da stupri e da sevizie d'ogni genere [...] Mandrie inbufalite di bruti su poveri esseri indifesi, colpevoli soprattutto di essere donne [...] e quindi preda facile e vulnerabile per i violenti [...] Il Po fu per molti giorni rosso di sangue e gonfio di cadaveri [...] In un canalone presso la salita del Cansiglio, tra il territorio delle provincie di Treviso e Vicenza, furono buttati non meno di millecinquecento giustiziati. [...] Bologna, con i suoi duemila trucidati dei primi giorni, dette il 'la' alle efferate numerosissime uccisioni dell'Emilia e della Romagna. Vercelli, Novara, Cuneo, Genova, Alessandria, Brescia, Varese, Savona, Como furono testimoni di scene selvagge; i morti si contavano a migliaia. Ogni villaggio, ogni borgo, dalla Toscana al Veneto, alla Lombardia, alla Liguria, al Piemonte, ebbe linciaggi e numerosi fatti di sangue [...] E nessuna offesa fu risparmiata né ai morti né ai vivi. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.212-213)
Valga questo altro esempio. Il 28 aprile 1945 a Rovetta, in provincia di Bergamo, vennero fucilati da partigiani comunisti tutti i componenti del presidio del passo della Presolana, composto da 43 militi di una compagnia della legione Tagliamento, i quali, rimasti isolati dal grosso del reparto, alla notizia dell'avvenuto crollo della RSI, secondo le disposizioni del CLNAI si erano arresi e avevano onsegnato le armi; ma una formazione di partigiani comunisti scesi dai monti si impose con le armi al CLN locale, ruppe i patti e passò per le armi tutti quei prigionieri. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.22)
Sull''Indipendente' dell'11 novembre 1993, Giampiero Mughini scriveva: 'Ma diciamolo francamente, quella di Mussolini e della sua donna fu un'opera di macelleria. E ancor più lo era stato il massacro davanti al muretto di Dongo di gente in camicia nera che non aveva nulla di cui essere imputata'. Infatti quel massacro, affidato al lapis del colonnello Valerio che andava spuntando con una crocetta su una lista i nomi di coloro che dovevano essere liquidati, fu opera di macelleria, che vide cadere, gli uni accanto agli altri, grandi invalidi, ex combattenti, decorati al valore, funzionari, amministratori, poeti, ex comunisti, molti dei quali senza colpa e senza peccato, accompagnata da tutto il corredo di ferocia, di inutile brutalità (Barracu che come medaglia d'oro pretende di essere fucilato nel petto viene costretto a pugni e a calci a voltare le spalle) e, per Mussolini e Claretta, di sordida fretta, di ambigua clandestinità. Ma fu anche qualcosa di molto molto più. Quella esecuzione sbrigativa e ancora per tanti versi oscura nelle modalità con cui si svolse e nella persona dei suoi esecutori, fu lo scippo da parte di una fazione, attuato con le armi in pugno in modo arbitrario e violento, di un atto il cui diritto di compierlo o no spettava solo e interamente a tutto il popolo italiano. [...] Un atto della stessa identica natura arbitraria di quelli di cui si faceva responsabile il regime e il tempo che con esso si pretendeva di liquidare, per instaurarne un altro di legalità e di sovranità popolare. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.163-164)
Fascisti o 'presunti tali' furono portati davanti a plotoni d'esecuzione, appesi a un cappio, linciati. Uomini adulti, ragazzi, donne, vecchi, civili e militari, mutilati, ciechi di guerra, giovani ausiliarie denudate e violentate, preti, giornalisti, poeti, attori. Una sagra di odio e di furore. Le strade delle città, gli argini dei fiumi, il terreno scabro sotto il muro di cimiteri di imbrattò di sangue e l'aria si riempì di grida disperate e del crepitare delle armi automatiche. Li si andava a prelevare nelle case, li si rincorreva per le vie a seguito di un semplice presunto riconoscimento: 'E lui! E un fascista! È una spia!'. Li si riconosceva alla fermata di un tram: 'Aspetta, aspetta, ma tu non sei quello?...'. Presidi e interi reparti militari che si arresero, consegnarono le armi dopo regolari trattative con i CLN, in totale spregio ai patti stipulati, vennero passati per le armi dopo inenarrabili sevizie. Gente fu prelevata a forza dalle prigioni e scomparve nel nulla, per una rassomiglianza, un accusa senza alcun fondamento. Il generale Teruzzi, venne fucilato tre volte: tre innocenti, per il semplice fatto di portare una barba simile alla sua furono trucidati, implorando pietà e proclamando la loro reale identità. Lui morì nel suo letto molti anni dopo. Giorgio Bocca ha dato una cifra approssimativa tra i dodici e i quindicimila uccisi. No, il suo cuore partigiano lo ha spinto a indulgere, diminuire le proporzioni del massacro, edulcorandolo ulteriormente con l'espressione eufemistica: 'soluzione rivoluzionaria'. In realtà si trattò di molti di più. Già 'L'Opinione' del luglio 1945 riportava la notizia di ventimila 'fascisti o presunti tali' eliminati, tra i quali 3.000 donne. Nel 1951 il giornalista Ferruccio Lanfranchi, testimone dei fatti, secondo i suoi calcoli, su 'Il Tempo' (13 agosto) avanzava l'ipotesi di 50/60.000 uccisi. E Silvio Betoldi nel settembre 1990 sul 'Corriere della Sera' riferiva che in un colloquio con Ferruccio Parri, poco prima della sua morte, questi, che era stato comandante dei volontari della Libertà, gli aveva confidato che si era trattato di 'più di trentamila morti'. E infatti, di 'più di trentamila' si trattò. Come risulta dai dati forniti nel 1994, dopo anni di ricerche, di analisi di elenchi nominativi e di testimonianze, dal gruppo di lavoro all'uopo costituito dall'Istituto Storico della RSI. Escludendo gli uccisi nella Venezia Giulia ad opera dei partigiani titini (23.000) è stato stabilito che, fra militari e civili, gli eliminati dal 25 aprile al 31 maggio 1945, furono 42.000!. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.168-170)
Si uccideva, si 'giustiziava'. Nella 'prigione del popolo' in cui venni tenuto con altri tre camerati in quei giorni di furore, dove, dopo essere stati più volte portati contro il muro, per la ferma opposizione di un giovane capo partigiano con cui avevamo trattato la nostra resa, avevamo ogni volta scampato la vita, uno dei giovani patrioti che ci facevano la guardia e con il quale, passati i momenti dell'ira, eravamo entrati in confidenza, ci raccontava come la sera quando era libero dal servizio, con i suoi compagni andava ad assistere ai 'processi' che si svolgevano in luoghi simili a quello in cui eravamo prigionieri, cantine, rimesse, e ci riferiva le scene di orrore e di violenza, il terrore degli 'imputati', che finivano regolarmente per essere messi a morte. Un mattino lo vedemmo arrivare particolarmente scosso per essersi imbattuto, venendo lì, nel cadavere nudo di un 'fascista' cui era stata 'segata' la testa, che 'stava laggiù all'altro angolo della strada'. [...] Tutto ciò, ovviamente, è rimasto coperto, offuscato, non c'è stata una letteratura a diffusione nazionale, recensita sui grandi quotidiani o commentata in televisione, come quella sterminata che illustra le stragi e i massacri attuati dai 'fascisti', che ne abbia trattato; solo qualche 'buco' qua e là nella cappa di silenzi e di omertà che ha coperto quei giorni e quei fatti e sepolto subito da valanghe d mole di 'comprensione' e di 'giustificazione'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.176-177)
Quarantaduemila morti ammazzati, tra i quali giovani entusiasti, puri patrioti, idealisti e uomini responsabili, quando ormai la guerra era finita e le sorti definitivamente tratte! Quarantaduemila uomini, donne, giovani ausiliarie col baschetto sulle ventitrè e quell'aria di balde 'piccole italiane' denudate, oltraggiate e uccise, anziani, invalidi di guerra trucidati, senza processo, senza possibilità di difesa, senza accertamento di prove! In quelle condizioni di violenza e di degradazione fisica e morale. Esposti alla furia di bande sanguinarie, cariche di odio e di vendetta, aizzate da tutto un coro di voci! [...] Non posso chiudere questo scritto senza ricordare il sacrificio di 43 miei giovani camerati, molti dei quali conoscevo personalmente, e i cui volti adolescenti sono ancora qui davanti ai miei occhi, di cui ho fatto menzione nelle prime pagine di questo libro, fucilati il 28 aprile 1945 da una banda di partigiani comunisti a Rovetta, un paesino posto sotto il passo della Presolana, in provincia di Bergamo. La loro fine mi fu raccontata dalla madre di uno di essi, Alvaro Porcarelli, in un pomeriggio di tanti anni fa in un nudo appartamento all'ultimo piano di un palazzone che guardava sul piazzale del Colosseo a Roma. [...] La madre di quel compagno d'arme, una donna sui cinquant'anni, già vedova, era rimasta completamente sola, essendo stati i suoi due 'ragazzi, che da quella stessa finestra avevano assistito a tante sfilate e parate militari', uccisi ambedue in quei giorni di sangue. Uno fucilato in quell'eccidio a Rovetta e l'altro 'impiccato con il filo spinato', come con la sua voce atona mormorò, in una località delle Langhe. Quei miei giovani commilitoni, comandati da un sottotenente di ventidue anni, molti dei quali convalescenti da ferite e malattie, rimasti isolati di presidio al passo della Presolana, avuta la notizia della fine della RSI e della morte di Mussolini, su pressioni del parroco e di altri maggiorenti del paese si erano arresi al locale CLN e avevano consegnato le armi, come disposto nei bandi affissi dalle nuove autorità. Il giorno successivo, una formazione partigiana comunista era scesa in paese dai monti e, impostasi con le armi al CLN, aveva rotto i patti e deciso di fucilare tutti quei militi. Furono portati davanti al muro del cimitero, fu fatta loro scavare la fossa e vennero fucilati cinque per volta. Ognuna di quelle cinquine, cadendo sotto le raffiche, gridava: 'Viva l'Italia'. Un'altra cinquina veniva prelevata dal gruppo li in attesa, la facevano schierare davanti ai corpi ancora scalcianti di quelli già abbattuti, e nuovamente quando partiva la salva quei 'figli di stronza' gridavano il nome della madre: 'Viva l'Italia'. Per otto volte, come le donne del paese, che chiuse nelle loro case, terrorizzate tendevano le orecchie a quegli spari e a quelle grida, raccontarono alle madri di quei martiri, quando alcuni anni dopo si recarono lassù a riesumare i resti dei figli, per otto volte, sotto quei monti, nel silenzio agghiacciato di quel giorno, sentirono le voci di quei ragazzi gridare: 'Viva l'Italia'. (da 'I balilla andarono a Salò', pag.178-180)
Il 19 aprile è la volta del proclama 'Arrendersi o perire !', rivolto a militari e funzioni della Repubblica sociale e dell'apparato di occupazione germanico. Il testo merita di essere analizzato nel dettaglio perchè riflette le volontà politiche e le emozioni del clima insurrezionale. Partendo dalla considerazione che 'la battaglia finale contro la Germania hitleriana volge rapidamente alla sua conclusione con la vittoria delle Nazioni Unite', il proclama denuncia 'la cricca hitleriana e fascista che vuole trascinare nella rovina estrema le forze che restano'. La continuazione della lotta è inutile e non può che trasformarsi in un suicidio collettivo delle forze nazifasciste. Per i soldati tedeschi e i militi di Salò, l'unica strada percorribile è la resa incondizionata, con la consegna immediata delle armi: 'Una sola via di scampo e di salvezza resta, ancora, ai tedeschi che calpestano il nostro suolo e a quanti, italiani, hanno tradito la patria, sostenuto il fascismo, servito i tedeschi: abbassare le armi, consegnarle alle formazioni patriottiche, arrendersi al Comitato di liberazione'. Chi si arrende subito 'avrà salva la vita, se non si sarà macchiato personalmente di più gravi delitti': ma 'chi non si arrende, sarà sterminato'. La conclusione del proclama, di cui si raccomanda la massima diffusione, è lapidaria: 'Oggi, subito: arrendersi o perire! Che nessuno possa dire che, sull'orlo della tomba, non è stato avvertito e non gli è stata offerta un'estrema ed ultima via di salvezza'. Lo stesso giorno, il Clnai ribadisce il proprio orientamento emanando uno specifico decreto sulla resa delle formazioni nazifasciste. All'atto della resa, tutti i gruppi armati della Repubblica sociale devono essere sciolti e disarmati e i militi raccolti in campi di internamento in attesa di giudizio: 'Gli individui già appartenenti alle formazioni militari fasciste, i quali, dopo lo scioglimento di esse, vengono catturati armati, vanno passati per le armi'; gli ufficiali e i soldati tedeschi che si arrendono vanno invece 'trattati come prigionieri di guerra e consegnati agli alleati appena possibile'. (da 'La resa dei conti', pag.94-95)
Analoghi spunti emergono da una relazione sulla situazione di Milano di inizio maggio. Dopo la disposizione prefettizia del 30 aprile che ordina la sospensione immediata delle fucilazioni arbitrarie e del funzionamento dei tribunali di guerra e la consegna degli arrestati alla Commissione di giustizia, si constatano le resistenze ad ottemperare all'ordine, nonostante esso sia stato diramato dalle autorità resistenziali [...] 'Data la fuga precipitosa dei nazisti, rimanevano in città molti fascisti repubblicani e collaboratori del nemico occupante, che non avevano il tempo per allontanarsi. Pertanto oltre un migliaio di questi venivano sommariamente giustiziati dal popolo, che si rovesciava nelle strade alla loro caccia'. A Modena il 26 aprile Alessandro Coppi e Arturo Galavotti, rispettivamente presidente e segretario del Comitato di liberazione provinciale, diramano un appello in cui è fatto 'assoluto divieto, se non dietro espressa autorizzazione del Cln, di procedere ad arresti ed esecuzioni'; la gravità della situazione e la necessità di porre un freno alla repressione sono confermate il giorno seguente, quando viene diramata a tutti i Cln della provincia modenese una circolare dello stesso tenore. (da 'La resa dei conti', pag.104-105)
Nelle fabbriche, dove la conoscenza diretta rende immediata l'individuazione, l'azione repressiva è ancora più radicale: così alla Fiat Mirafiori, alla Fiat Lingotto, all'Innocenti di Lambrate, alla Pirelli, all'Alfa Romeo. Si colpiscono i fascisti dichiarati, ma, nell'intreccio tra giustizia politica e giustizia di classe, spesso cadono anche i capisquadra più odiosi, i responsabili di reparto che hanno tagliato i tempi di produzione, i quadri che hanno determinato licenziamenti, i capi e i capetti che hanno fatto pesare la propria autorità nelle forme più ruvide ed offensive. (da 'La resa dei conti', pag.111)
Benito Mussolini fu ucciso - anche nel timore, non infondato, che da lì a pochi anni sarebbe potuto ritornare al potere - ma la sua uccisione non fu un atto rivoluzionario, poiché essa non ebbe luogo subito dopo la cattura, da parte dei partigiani che l'avevano scoperto. Non fu un atto rivoluzionario anche perché il Duce non fu subito linciato da una folla inferocita, o da un gruppo, o da un singolo. Non fu infine un atto rivoluzionario perché in Italia... non era in corso una rivoluzione! Si trattò piuttosto di un omicidio a sangue freddo, premeditato, in base ad una sentenza illegale emessa da un organo, il CLNAI, che il 16 agosto 1944 si era arbitrariamente arrogato il diritto di emettere sentenze. Ma soprattutto si trattò di un atto antidemocratico, poiché in una democrazia anche il peggiore assassino - proprio per differenziarsi da lui - ha diritto a difendersi in un processo dove vengono garantiti i crismi della legalità. Il CLNAI terminava dunque la sua attività con un atto che dimostrava la sua eccezionale mancanza di spirito democratico. (da 'In nome della resa', pag.430)
Carlo Simiani, un perseguitato del fascismo e poi partigiano non dell'ultima ora, ha condotto subito dopo la guerra una rigorosa indagine sul numero delle vittime provocate dalla 'caccia al fascista' che, iniziata alla fine d'aprile, durò diverso tempo. Secondo le sue ricerche le vittime furono 40.000 (tra di esse gli attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida che furono fucilati a Milano, in Via Poliziano 13, il 30 aprile 1945). Ecco come Simiani descrive l'atmosfera che regnava a Milano in quelle sanguinose giornate del tardo aprile del 1945: […] 'Già al 26 aprile si parlava di centinaia di fascisti uccisi e di altre migliaia sotto 'processo'. Ma quali processi? Gruppi di irresponsabili intendevano far giustizia da sé e processare con tutte le garanzie stabilite dai codici significava perdere tempo prezioso'. […] 'I partiti si davano un gran da fare per impossessarsi dei posti chiave, distribuendo cariche a persone che non erano all'altezza del compito loro affidato'. 'Si era al corrente di molti giustiziati che nulla avevano avuto a che vedere con il fascismo, il più delle volte vittime o delle loro ricchezze o di vendette personali'. 'Si ebbero anche casi di persone prelevate per carpire loro il denaro e, rilasciate, anche se meritevoli di punizione, mediante l'esborso di cifre notevoli. In mezzo a questo stato di cose che andava generalizzandosi, migliaia di persone incontravano la morte senza subire giudizi, senza essersi potute appellare, quasi sempre prive di conforti religiosi, raramente col permesso di inviare un estremo saluto ai familiari'. […] Sì calcola infatti che dal 25 aprile al 30 maggio i morti furono, nel capoluogo lombardo, 3.400. Tra le vittime anche 6 partigiani: il conte Federico Barbiano Belgioioso e cinque suoi compagni, uccisi perché furono scambiati per 'fascisti', in quanto avevano un aspetto 'troppo distinto' per poter essere dei partigiani! Nel Bolognese operavano, ancora al momento del crollo della 'Linea Gotica', circa 1.500 partigiani, di cui 300 in città. Orbene, dopo la liberazione dall'occupazione tedesca, compiuta dalle truppe regolari italiane, i partigiani divennero improvvisamente oltre 20.000 e nel capoluogo emiliano esplose una violenza indescrivibile che colpiva tutti: fascisti ed antifascisti, vecchi e giovani, ricchi e poveri. Una delegazione sovietica, di passaggio in città, che pure proveniva da un paese dove ne capitavano di tutti i colori, rimase impressionata dalla violenza che potremmo anche definire 'alla fascista' di cui erano capaci gli italiani. In tutto 1.300 persone vennero liquidate in città (e di esse 800 rimasero non identificate). In Romagna le vittime furono 450: una cifra non solo inferiore a Bologna, ma anche 'moderata' per una regione comunemente considerata di 'teste calde'. Lo stesso dicasi per il Veneto e la Liguria. In Piemonte le vittime furono in tutto 8.000 (nessuna in Valle d'Aosta) e di esse solo 200 nell'Ossola, che pure aveva visto il maggior trionfo militare partigiano. Gli americani avevano ritardato apposta, dice Simiani, l'occupazione del Piemonte per permettere ai partigiani di liquidare tutti coloro che ritenevano, cosa che loro, una volta arrivati, non avrebbero più potuto permettere. In questa atmosfera i partigiani poterono compiere indisturbati, nella zona di Saluzzo, la liquidazione di circa 500 soldati della divisione Monterosa (dell'esercito regolare della Repubblica Sociale Italiana e non necessariamente formata da neofascisti), dopo che la grande unità si era arresa. Assai diverso fu il comportamento dei brasiliani che, il 29 aprile 1945, a Fellegara (Parma), concessero l'onore delle armi a quegli alpini della Monterosa che ebbero la fortuna di cadere nelle loro mani. Anche se il più appariscente, il massacro degli alpini non fu una eccezione. Innumerevoli soldati della RSI, in moltissimi casi colpevoli solo di aver combattuto contro gli Alleati e, al massimo, di essersi difesi dagli attacchi dei partigiani (ma senza mai aver partecipato a rastrellamenti e tantomeno a rappresaglie) vennero orribilmente massacrati da questi ultimi, mentre, se si fossero arresi agli Alleati, avrebbero probabilmente ricevuto l'onore delle armi, cosa che infatti fu concessa (non solo dai brasiliani) a parecchi reparti. (da 'In nome della resa', pag.446-448)
Le rappresaglie tedesche
A Roma, il colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo aveva già organizzato un Fronte Militare Clandestino della Resistenza drasticamente in opposizione col Corpo Volontari della Libertà organizzato dal Partito Comunista Italiano. Il motivo dell'opposizione era il seguente: '[...] perché politicamente dipendente da una potenza straniera, l'Unione Sovietica, che, proprio e ad esclusivo vantaggio di quella, intendeva fomentare la guerra civile in Italia'. Improvvisamente, sia Montezemolo sia il suo stato maggiore, insieme con altri esponenti di gruppi politici non-comunisti (oltre un centinaio di appartenenti all'Esercito, alla Marina, all'Aeronautica e all'Arma dei Carabinieri), praticamente tutti coloro che impedivano ai comunisti di aver mano libera, furono tutti arrestati dai tedeschi. Ed è molto strano che gli unici a non restare travolti dalla fulminea azione di polizia del colonnello Kappler, siano stati proprio i componenti del Corpo Volontari della Libertà. Il momento era propizio. Infatti il 23 marzo 1944, dato il fatto che tutti i capi della Resistenza non-comunista erano in mano ai tedeschi, per ordini superiori (ordini di chi? Del CLN no di certo: è stato accertato. Allora di chi? E' evidente: di Vysinskij e Togliatti) i gruppi comunisti che agivano a Roma (i GAP) prepararono e condussero a termine l'attentato terroristico di via Rasella che avrebbe sicuramente provocato, come da causa ad effetto, la prevedibile (anzi prevista e ben calcolata dai comunisti) durissima rappresaglia tedesca delle Fosse Ardeatine sugli ostaggi che avevano in mano. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.118)
La risiera di San Sabba fu veramente l'unico campo di sterminio nazista funzionante in Italia? Certamente non lo fu nel senso atroce e apocalittico che questo termine ha assunto nella memoria collettiva. E comunque non entrò mai in funzione. […] Nella risiera tuttavia non esisteva un impianto di gassazione e non risulta che al suo interno si siano verifìcate esecuzioni di massa. […] Nella risiera furono compiute solo esecuzioni individuali e i cadaveri venivano poi bruciati nell'annesso forno crematorio, il quale fu anche usato per incenerire i resti di prigionieri deceduti per cause naturali e quelli di ostaggi o partigiani fucilati altrove. (da 'L'esodo - La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia', pag.88-89)
Nell'immediato dopoguerra, sull'onda di voci popolari, si diffuse l'opinione che la risiera fosse stato un campo di sterminio come quelli di Treblinka, Auschwitz o Mauthausen. Ma tale voce non trovò conferma al processo di Lubiana intentato dal Tribunale militare jugoslavo contro il Gauleiter Rainer che poi si concluderà con la sua condanna alla pena capitale. […] Nei numerosi capi d'accusa rivolti contro Rainer non sì fa infatti alcun riferimento al 'campo di sterminio' della risiera. Anzi, nella sentenza si legge che i campi di sterminio verso i quali venivano deportati i partigiani e i politici catturati nel Litorale Adriatico erano quelli di Dachau, Auschwitz e Mauthausen. (da 'L'esodo - La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia', pag.91)
Oltre a 'Pippo' e agli indiscriminati bombardamenti anglo-americani, la popolazione della RSI dovette guardarsi anche dagli arbitrari rastrellamenti delle SS. I rastrellamenti produssero circa 43.000 deportati in Germania: di essi solo 3.000 furono i superstiti. Queste cifre sono forse imprecise, ma ciò non toglie che vi fosse, nella Repubblica Sociale Italiana, un clima di terrore, nel quale lo stesso Mussolini doveva assistere impotente al fatto che perfino suoi stretti collaboratori venissero arrestati e deportati ed i parenti di suoi sostenitori finissero vittime di rappresaglie. (da 'In nome della resa', pag.423)
Ma vogliamo andare oltre. Per essere obiettivi occorre esaminare lo stato d'animo delle truppe tedesche in Italia. Come gli italiani hanno sempre visto i popoli di lingua tedesca come un pericolo incombente, cosi i tedeschi, come tutti i popoli nordici, hanno sempre giudicato i popoli mediterranei, di sangue caldo ed imprevedibili. Con simili premesse non fu difficile per loro vedere in ogni italiano un possibile nemico pronto ad accoltellarli o a coglierli con un colpo di lupara. Si sentirono soli, in una terra straniera e dalle usanze sconosciute e, benché non mancarono anche innumerevoli casi di ottimi rapporti con la popolazione locale, si sentirono circondati di un'ostilità che cresceva, più l'occupazione del territorio italiano (voluta dai loro capi e non da loro) durava nel tempo, poiché, data la situazione militare, tedesco era divenuto sinonimo di 'guerra' e angloamericano di 'pace'. Occorrerebbe perciò farci un esame di coscienza e domandarci che cosa sarebbe accaduto se le nostre truppe si fossero trovate in una situazione analoga in Germania, dopo un'ipotetica caduta di Hitler ed un armistizio separato. Probabilmente anche i nostri soldati avrebbero visto dietro ogni casa un possibile agguato, in ogni volto una faccia infida e in ogni tedesco uno che, improvvisamente, ha fatto causa comune con il nemico, anche se, fino a non molto tempo prima, si era combattuto assieme. Una situazione psicologica che porta automaticamente ad avere il 'grilletto facile'. (da 'In nome della resa', pag.440)
A Roma, il colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo aveva già organizzato un Fronte Militare Clandestino della Resistenza drasticamente in opposizione col Corpo Volontari della Libertà organizzato dal Partito Comunista Italiano. Il motivo dell'opposizione era il seguente: '[...] perché politicamente dipendente da una potenza straniera, l'Unione Sovietica, che, proprio e ad esclusivo vantaggio di quella, intendeva fomentare la guerra civile in Italia'. Improvvisamente, sia Montezemolo sia il suo stato maggiore, insieme con altri esponenti di gruppi politici non-comunisti (oltre un centinaio di appartenenti all'Esercito, alla Marina, all'Aeronautica e all'Arma dei Carabinieri), praticamente tutti coloro che impedivano ai comunisti di aver mano libera, furono tutti arrestati dai tedeschi. Ed è molto strano che gli unici a non restare travolti dalla fulminea azione di polizia del colonnello Kappler, siano stati proprio i componenti del Corpo Volontari della Libertà. Il momento era propizio. Infatti il 23 marzo 1944, dato il fatto che tutti i capi della Resistenza non-comunista erano in mano ai tedeschi, per ordini superiori (ordini di chi? Del CLN no di certo: è stato accertato. Allora di chi? E' evidente: di Vysinskij e Togliatti) i gruppi comunisti che agivano a Roma (i GAP) prepararono e condussero a termine l'attentato terroristico di via Rasella che avrebbe sicuramente provocato, come da causa ad effetto, la prevedibile (anzi prevista e ben calcolata dai comunisti) durissima rappresaglia tedesca delle Fosse Ardeatine sugli ostaggi che avevano in mano. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.118)
La risiera di San Sabba fu veramente l'unico campo di sterminio nazista funzionante in Italia? Certamente non lo fu nel senso atroce e apocalittico che questo termine ha assunto nella memoria collettiva. E comunque non entrò mai in funzione. […] Nella risiera tuttavia non esisteva un impianto di gassazione e non risulta che al suo interno si siano verifìcate esecuzioni di massa. […] Nella risiera furono compiute solo esecuzioni individuali e i cadaveri venivano poi bruciati nell'annesso forno crematorio, il quale fu anche usato per incenerire i resti di prigionieri deceduti per cause naturali e quelli di ostaggi o partigiani fucilati altrove. (da 'L'esodo - La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia', pag.88-89)
Nell'immediato dopoguerra, sull'onda di voci popolari, si diffuse l'opinione che la risiera fosse stato un campo di sterminio come quelli di Treblinka, Auschwitz o Mauthausen. Ma tale voce non trovò conferma al processo di Lubiana intentato dal Tribunale militare jugoslavo contro il Gauleiter Rainer che poi si concluderà con la sua condanna alla pena capitale. […] Nei numerosi capi d'accusa rivolti contro Rainer non sì fa infatti alcun riferimento al 'campo di sterminio' della risiera. Anzi, nella sentenza si legge che i campi di sterminio verso i quali venivano deportati i partigiani e i politici catturati nel Litorale Adriatico erano quelli di Dachau, Auschwitz e Mauthausen. (da 'L'esodo - La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia', pag.91)
Oltre a 'Pippo' e agli indiscriminati bombardamenti anglo-americani, la popolazione della RSI dovette guardarsi anche dagli arbitrari rastrellamenti delle SS. I rastrellamenti produssero circa 43.000 deportati in Germania: di essi solo 3.000 furono i superstiti. Queste cifre sono forse imprecise, ma ciò non toglie che vi fosse, nella Repubblica Sociale Italiana, un clima di terrore, nel quale lo stesso Mussolini doveva assistere impotente al fatto che perfino suoi stretti collaboratori venissero arrestati e deportati ed i parenti di suoi sostenitori finissero vittime di rappresaglie. (da 'In nome della resa', pag.423)
Ma vogliamo andare oltre. Per essere obiettivi occorre esaminare lo stato d'animo delle truppe tedesche in Italia. Come gli italiani hanno sempre visto i popoli di lingua tedesca come un pericolo incombente, cosi i tedeschi, come tutti i popoli nordici, hanno sempre giudicato i popoli mediterranei, di sangue caldo ed imprevedibili. Con simili premesse non fu difficile per loro vedere in ogni italiano un possibile nemico pronto ad accoltellarli o a coglierli con un colpo di lupara. Si sentirono soli, in una terra straniera e dalle usanze sconosciute e, benché non mancarono anche innumerevoli casi di ottimi rapporti con la popolazione locale, si sentirono circondati di un'ostilità che cresceva, più l'occupazione del territorio italiano (voluta dai loro capi e non da loro) durava nel tempo, poiché, data la situazione militare, tedesco era divenuto sinonimo di 'guerra' e angloamericano di 'pace'. Occorrerebbe perciò farci un esame di coscienza e domandarci che cosa sarebbe accaduto se le nostre truppe si fossero trovate in una situazione analoga in Germania, dopo un'ipotetica caduta di Hitler ed un armistizio separato. Probabilmente anche i nostri soldati avrebbero visto dietro ogni casa un possibile agguato, in ogni volto una faccia infida e in ogni tedesco uno che, improvvisamente, ha fatto causa comune con il nemico, anche se, fino a non molto tempo prima, si era combattuto assieme. Una situazione psicologica che porta automaticamente ad avere il 'grilletto facile'. (da 'In nome della resa', pag.440)
Alleati, partigiani e popolazione
Nel maggio 1945, sebbene la guerra fosse finita, i paracadutisti (tedeschi) non si erano arresi. Gunther Drossinger, i suoi commilitoni e gli uomini di altre formazioni veterane si unirono alle truppe americane che pattugliavano le zone a nord del lago di Caldonazzo. Gli Alleati avevano finito la loro guerra e non avevano intenzione di rischiare la pelle per intervenire nelle complicate vicende politiche di un popolo che disprezzavano [...] Ma i giovani tedeschi, che conoscevano solo il mestiere delle armi, erano disposti a continuare questa attività per tre buoni pasti al giorno: una sistemazione più allettante rispetto alla prospettiva di finire in un campo di prigionia. Il compito loro assegnato consisteva nel sorvegliare e proteggere le proprietà private e le grandi tenute agricole da un nemico comune: il partigiano italiano. (da 'La guerra inutile', pag.13)
Lucky Luciano era un boss mafioso che stava scontando una condanna a trent'anni per racket nel carcere di Dannemosa, negli Stati Uniti, allo scoppio della seconda guerra mondiale. A quanto pare, il governo americano gli offrì la libertà purché contribuisse a creare un efficiente movimento di resistenza in Sicilia poco prima dell'invasione dell'isola [...] Vi sono molte leggende a proposito del modo in cui Luciano entrò in contatto con il nuovo 'capo di tutti i capi', don Calogero Vizzini, che viveva nella natia Villalba. Sembra comunque che Vizzini si lasciasse indurre a schierarsi con gli Alleati e ad assicurare loro la collaborazione della mafia. Con l'aiuto di Genco Russo di Mussomeli, un altro importante capo mafioso, poté garantire l'intera Sicilia occidentale alle forze americane, contribuendo a facilitare la fulminea avanzata di Patton verso Palermo. Non esistono prove concrete che confermino o confutino queste affermazioni. Vi sono state persino commissioni d'inchiesta del Senato che non hanno concluso nulla, e secondo i sostenitori della teoria della cospirazione questo serve a dimostrare la potenza della mafia. Il fatto che Lucky Luciano venisse rimesso in libertà sulla parola nel 1946 per l'ampio e prezioso aiuto dato alla marina durante la guerra e si trasferisse in Italia, sembra dar ragione a quanti credono che gli Stati Uniti fossero scesi a patti con la mafia [...] Molti mafiosi, rilasciati dal carcere quando le loro città furono liberate dagli Alleati, poterono spacciarsi per prigionieri politici antifascisti. Le autorità fasciste furono estromesse e il loro posto fu preso da noti esponenti della mafia. Per esempio, gli americani insediarono Vizzini come sindaco di Villalba e lo nominarono colonnello onorario! [...] Il risultato non dà adito a dubbi. Pochi giorni dopo gli sbarchi alleati la mafia aveva ricostruito la sua rete e in breve tempo fu in grado di controllare un fiorente mercato nero che all'inizio trafficava in vini locali, viveri e materiali militari. (da 'La guerra inutile', pag.46-47)
Gli Alleati erano accolti a braccia aperte nelle città italiane, se non altro perché il loro arrivo significava la fine delle sofferenze, delle bombe e dei cannoneggiamenti. Molto presto, però, l'entusiasmo si guastava, non appena la popolazione locale cominciava a subire saccheggi sistematici, invariabilmente a opera della seconda ondata e delle formazioni di retroguardia (dato che i combattenti di prima linea avevano meno occasioni di fare altrettanto). Le vittime non ottenevano molta comprensione da parte delle autorità militari, che trattavano gli italiani come una popolazione assoggettata con la forza e, in assenza di ogni sanzione, i saccheggi e gli abusi erano piuttosto diffusi. (da 'La guerra inutile', pag.232)
Le forze britanniche furono attaccate anche dalla popolazione locale. I commando subirono perdite a causa del tiro dei cecchini che cessarono solo quando il tenente colonnello John Dinford Slater radunò la popolazione maschile e minacciò per rappresaglia un'esecuzione di massa. Più tardi scrisse che il suo intervento li aveva fatti tornare a casa con una mentalità più disposta alla cooperazione. Ciò può dare l'idea di quanto fosse vera la teoria che voleva gli Alleati accolti come liberatori. (da 'La guerra inutile', pag.241)
Nella valle dell'Itro, mentre la resistenza tedesca diventava più frammentaria e irregolare, i goums commisero terribili atrocità. Donne e bambine, adolescenti e bambini, furono violentati per la strada e molti di loro morirono. Gli uomini che tentavano di intervenire furono uccisi. La popolazione italiana accusò i goums, i marocchini, ma le atrocità furono commesse da tutte le forze coloniali francesi [...] Si diceva che sodomizzassero i prigionieri e castrassero gli ufficiali catturati [...] A Esperia i goums si scatenarono e gli ufficiali non riuscirono a controllarli. Donne di ogni età, bambini e giovani furono violentati, e il paese venne saccheggiato [...] In un villaggio presso Pico un battaglione del 351 fanteria americano arrivò nella piazza principale mentre i marocchini violentavano donne, giovani e bambini. Infuriati, i soldati americani avanzarono per salvare le vittime, ma il comandante della compagnia intervenne e dichiarò che erano li per combattere contro i tedeschi, non contro i goums. Un tenente americano che conosceva un po' il francese trovò un capitano che beveva vino all'osteria; quello alzò le spalle di fronte alla reazione indignata dell'americano e gli chiese se voleva ascoltare qualcuna delle atrocità commesse dalle truppe americane contro le donne arabe in Algeria. (da 'La guerra inutile', pag.374)
A Marradi, la notizia si diffuse come un incendio. Gli Alleati erano vicinissimi, nella valle: la liberazione doveva essere questione di ore. L'annuncio ispirò paura, non gioia. Gli abitanti avevano saputo dai partigiani che la loro cittadina si trovava sul percorso delle truppe indiane, e tutti sapevano cos'erano gli indiani. Tutti avevano parenti più a sud. I liberatori indiani erano come le truppe coloniali francesi: stupravano, saccheggiavano e uccidevano. (da 'La guerra inutile', pag.423)
Non tutti gli italiani erano entusiasti di venire chiamati alle armi da un governo screditato. E non volevano neppure combattere per gli Alleati, che occupavano il loro paese provocando tanta frustrazione e tanta rabbia. In Sicilia la reazione a una chiamata alle armi nel dicembre 1944 provocò violenti disordini [...] Separatisti e comunisti fecero causa comune e fino a metà gennaio disordini imperversarono in tutta l'isola. (da 'La guerra inutile', pag.452-453)
Perciò i numeri indicano che gli Alleati, in nome della liberazione, uccisero più italiani di quanti ne abbiano uccisi i tedeschi. (da 'La guerra inutile', pag.492)
Non ci misi molto ad accorgermi, per esempio, che gli inglesi non potevano sopportare i partigiani. Se ne erano serviti e ora li disprezzavano. Il tenente del controspionaggio di Sondrio li definiva, senza tanti complimenti, carne venduta. Quando poi il discorso cadeva sui partigiani comunisti, allora si infuriava davvero. Diceva che, se fosse dipeso da lui, li avrebbe schiaffati tutti in galera al nostro posto; li accusava di avere nascosto ingenti quantitativi di armi in vista di una prossima rivoluzione bolscevica. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.151)
Nulla sapendo di quanto i vivi e i morti avevano sofferto, gli Inglesi e gli Americani entrarono in Roma come nella capitale di un nemico sconfitto. L'elettricità era scarsa; si disse perciò: No Electricity for Italians! (Niente elettricità per gli Italiani). Questo stato di cose durò per tutto l'inverno, mentre le innumerevoli sale da ballo, gli alberghi e le case requisite - la requisizione era fatta con un preavviso di tre ore, come si usa nei paesi nemici occupati militarmente - erano inondati di luce elettrica a tutte le ore del giorno. (da 'Una vita per l'Italia', pag.195)
Tra le operazioni di guerra, il generale francese Alphonse Juin fece stampare in arabo volantini, da distribuire alle sue truppe, su cui era scritto: 'Miei cari soldati, oltre quei monti c'è una terra grande, ricca di donne, di vino e di case. Se riuscirete ad arrivarci, tutto sarà vostro, per cinquanta ore'. 'Elettrizzati dall'ignobile volantino, i marocchini superarono i Monti Aurunci e il 14 maggio sbucarono a Esperia di fronte a Montecassino, a cento chilometri da Roma'. I tedeschi si ritirarono. 'I marocchini dilagarono per tutti i centri abitati della zona e fecero quel che pochi sanno, che per pudore si è taciuto, e i libri di storia non riportano. Avuta via libera da Juin, dal 17 a 25 maggio stuprarono migliaia di bambine, donne e vecchie che li avevano accolti come liberatori'. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.94)
[...] seguiamo la testimonianza giurata del capitano di vascello Agostino Calosi resa nel corso del processo contro Borghese. 'Come capo dell'ufficio informazioni della Marina del Sud, feci passare le linee a molte persone con incarichi militari; al Borghese, però, inviai degli emissari di mia iniziativa e senza il consenso degli anglo-americani, i quali, per questo fatto, minacciarono di rinchiudermi in un campo di concentramento. Gli anglo-americani solevano far passare le linee ad elementi di estrema sinistra o comunisti, talché io mi vidi costretto a far figurare i miei uomini come militanti o simpatizzanti dei partiti di sinistra al fine di poterli inviare al Nord. Da tale situazione di fatto deriva la logica conseguenza che la lotta partigiana è stata provocata e accesa da elementi interessati al fine di inviperire vieppiù la guerra fratricida tra italiani e italiani'. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.130-131)
La ricchezza di dati e le esatte osservazioni dell'OSS erano il prodotto della collaborazione tra i servizi segreti statunitensi e la Mafia italo-americana, un episodio contingente che peserà irrimediabilmente sul futuro della vita italiana e, per alcuni settori, come la droga, dei paesi del blocco occidentale. (da 'In nome della resa', pag.264)
Quando all'inizio del 1943 si delineò il piano di sbarco in Sicilia, gli americani si preoccuparono di preparare alle loro truppe nell'isola un terreno favorevole, un'atmosfera amichevole, una popolazione che li accogliesse da liberatori. Inoltre necessitava loro qualcuno che sapesse prendere in pugno la situazione e assumesse cariche pubbliche una volta consolidata l'occuparne. Il problema fu affidato a Lucky Luciano che, come si vedrà, lo risolse da par suo, ricevendone in cambio una pubblica dichiarazione di revisione del processo e, a guerra finita, la libertà. (da 'In nome della resa', pag.267)
Anche nel 1943 essa fece un buon lavoro. Dopo il sì agli agenti americani, Lucky Luciano, a gennaio, aveva messo in movimento il feudatario di Villalba, Don Calogero Vizzini. 'Don Calò' in breve tempo divenne il tramite principale tra politica, separatismo siciliano e clero. Nipote di due vescovi e con due fratelli preti, nonostante fosse implicato in 51 omicidi, accolto con grandi onori in tutte le case nobiliari, gli era stato facile far avere a Lucky Luciano non soltanto una lista di 850 persone 'sicure', ma anche organizzare le azioni di sabotaggio che ebbero luogo nel Palermitano e nel Trapanese, cioè nelle zone più mafiose dell'isola, e culminanti con l'attacco l'aeroporto di Gerbini, sede della caccia tedesca. Come fa notare Franco Bandini, tre settimane prima dello sbarco alleato, inoltre, un gruppo di circa duecento uomini era stato sbarcato in uniforme con l'incarico di attentare alle spalle dei capisaldi italiani al momento dell'inizio delle operazioni. Furono questi uomini che eliminarono il giorno dell'invasione una buona parte delle sentinelle e distrussero i centri di comunicazione, di illuminazione e di direzione del tiro sulle coste interessate. Furono ancora essi, parlando un siciliano purissimo, a guidare per le stradine più comode e sicure, verso l'interno, le colonne americane che avevano preso terra. (da 'In nome della resa', pag.277)
In Sicilia, comunque, c'erano due suoi luogotenenti: Vito Genovese, la cui fede fascista si era squagliata col calare delle fortune del regime e Albert Anastasia, in divisa nelle file dei 'liberatori'. A Palermo gli americani non accontentarono i sogni separatistici ed installarono nel capoluogo una loro amministrazione militare, la AMGOT (creata il 17 luglio), ponendovi a capo Charles Poletti, colonnello dei servizi informativi, oriundo italiano, più o meno legato agli ambienti mafiosi che ricevette per giunta entro la fine dell'anno una laurea ad honorem dall'Università di Palermo. Damiano Lumia, nipote di Don Calogero Vizzini, divenne membro dell'AMGOT e Vito Genovese l'interprete ufficiale. Vizzini stesso assunse la carica di sindaco di Villalba; Genco Russo, sua mano destra, quella di sindaco di Mussomeli e altri loro amici andarono ad amministrare 62 dei 76 comuni della provincia di Palermo. […] II giorno dopo la caduta di Palermo, il 23 luglio, la 82a divisione Airborne prese Trapani, assolutamente senza perdite, visto che né il contrammiraglio Giuseppe Manfredi, comandante della piazza, né la 208a divisione costiera (generale Giovanni Marciani) opposero la benché minima resistenza, ammesso poi che quest'ultima esistesse ancora, visto che spesso interi reparti costieri si dissolsero, raggiungendo volontariamente i campi di prigionia americani! (da 'In nome della resa', pag.278)
Lo stesso 23 luglio gli americani raggiunsero Termini Imerese e il 24 Nicosia. Sempre il 24 luglio i britannici si impadronirono definitivamente di Leonforte e nell'occasione dei soldati canadesi liquidarono degli inservienti tedeschi di una batteria, dopo che questi si erano arresi. […] Durante le operazioni in Sicilia, anche la 45a divisione di fanteria statunitense si macchiò, per colpa di alcuni suoi elementi, di gravi crimini di guerra. Alexander Clifford, corrispondente britannico, afferma, infatti, di aver visto un soldato di questa divisione falciare con una mitragliatrice pesante, all'aeroporto di Comiso, un camion carico di prigionieri tedeschi (ne rimasero in vita solo due o tre) e poi un gruppo di altri 60 prigionieri, stavolta italiani. Clark Lee, corrispondente americano, afferma che il 14 luglio, presso Gela, il sergente Berry West uccise 36 prigionieri e lo stesso giorno, presso Butera, il capitano Jerry Compton ne uccise altri 43. (da 'In nome della resa', pag.279)
Sotto questo timore e in considerazione del fatto che, scaduto il teatro di guerra italiano a fronte secondario, un movimento armato nella Penisola era divenuto militarmente inutile, essi ridussero gli aiuti, li sospesero alle formazioni a loro meno gradite e, successivamente, provvidero a cautelarsi contro tutto il movimento. Il 13 novembre 1944, Alexander emanò allo scopo un proclama a tutti i partigiani, invitandoli a ridurre la loro attività alle sole azioni di sabotaggio ed a cercare nascondigli e rifugi per l'inverno, in attesa della ripresa dell'offensiva generale in primavera. A questa specie di 'congedo', il 7 dicembre, gli Alleati fecero seguire un provvedimento più rilevante. Convocati a Roma quattro delegati del Comitato di Liberazione dell'Alta Italia (CLNAI), imposero loro la stipulazione di un accordo col quale venne stabilito: 1. Il Comando Supremo alleato desidera che fra gli elementi che svolgono la loro attività nel movimento di resistenza, si stabilisca e si mantenga la più stretta cooperazione militare... 2. Durante l'occupazione nemica il Comando Generale dei Volontari della Libertà (CVL) dovrà eseguire tutte le istruzioni date dal Comando Supremo alleato... 3. Il comandante militare del CVL deve essere un ufficiale accettato dal comando alleato. 4. Quando il nemico si ritirerà dai territori occupati, il CLNAI farà ogni sforzo per mantenere l'ordine e la legge e per continuare a salvaguardare le risorse economiche del paese, in attesa che si costituisca il Governo Militare Alleato (AMG). Il CLNAI si impegna a riconoscere il Governo Militare Alleato ed a trasmettergli tutti i poteri di governo locale ed amministrativi di cui abbia disposto in precedenza. Al momento della ritirata nemica, tutti i membri del CVL passeranno alle dirette dipendenze del comandante delle forze alleate: essi saranno tenuti ad eseguire tutti gli ordini che riceveranno, anche quello di consegnare le armi e di sciogliere le bande. Era in pratica l'accettazione della 'resa incondizionata' da parte del movimento partigiano. A questo Diktat, il 26 dicembre, ne segui un altro fra il CLNAI ed il governo italiano di Roma, nel quale era detto: 'II governo italiano riconosce il CLNAI quale organo dei partiti antifascisti sul territorio occupato dal nemico. Il governo italiano delega il CLNAI a rappresentarlo nella lotta che i patrioti hanno impegnato contro i fascisti ed i tedeschi nell'Italia ancora liberata. Il CLNAI accetta di agire a tal fine come delegato del governo italiano, il quale è riconosciuto dai governi alleati come successore del governo che ò le condizioni di armistizio ed è la sola autorità legittima in quella parte d'Italia è già stata o sarà in seguito restituita al governo italiano dal Governo Militare Alleato'. Gli impegni di Roma misero ordine nel disordine della guerriglia, ma, l'obbligando il CLNAI a riconoscere il governo regio, erede della dittatura badogliana, come il solo legittimo; lo slancio rivoluzionario che animava la lotta partigiana venne imbrigliato. Questo era lo scotto da pagare per non aver voluto, saputo o potuto fare della lotta partigiana un movimento nazional-rivoluzionario contro i nemici vecchi e nuovi (e non solo nuovi) e soprattutto contro i due governi loro vassalli (e non solo contro uno dei due). Poiché solo questa era la via per creare un'Italia 'nuova'. Quest'Italia, però, non sarebbe stata una democrazia, bensì una dittatura poliziesca e intollerante di tipo stalinista. Ma, per un paradosso, proprio Stalin, alleato di Londra e di Washington, lo impedì, poiché egli appoggiava, attraverso Palmiro Togliatti, il governo regio, uno dei due governi vassalli. E che Togliatti fosse contro la lotta partigiana, lo riferisce anche Giorgio Bocca. Leo Valiani afferma addirittura che il movimento partigiano gli 'rompesse le scatole' e che, per di più, il segretario del PCI considerasse i partigiani dei guastafeste. Anche Pietro Nenni lo conferma. È il caso perciò di dire che la scelta del nome di 'Garibaldi', il battistrada dei Carignano, si rivelò per i partigiani comunisti una scelta sintomatica e di cattivo augurio! (da 'In nome della resa', pag.444-445)
Indubbiamente gli Alleati non avevano fiducia nei nuovi cobelligeranti che, ancora due mesi prima, erano membri a tutti gli effetti del Patto Tripartito. Chi poteva loro garantire che le divisioni italiane, una volta impegnate al fronte, non avessero improvvisamente riconosciuto il governo di Gargnano, oppure non avessero 'mollato', com'era avvenuto a Sidi el-Barrani, o se la fossero squagliata, come in Sicilia? I loro dubbi non erano del tutto privi di fondamento e, soprattutto, non sbagliavano quando ritenevano che le forze armate italiane fossero demoralizzate. (da 'In nome della resa', pag.467)
L'importante compito svolto nella battaglia dalle truppe marocchine fu infangato dal loro bestiale comportamento nei confronti della popolazione di quelle contrade italiane. I goumiers erano infatti provetti guerrieri, ma anche rozzi montanari provenienti dalle catene montuose dell'Atlante, il cui aspetto primitivo e la cui mentalità retriva li avrebbero resi sgraditi anche ai marocchini di Casablanca o di Tangeri. Nei paesi italiani tolti ai tedeschi, i goumiers commisero tremende atrocità, seminando il terrore per due settimane. Essi saccheggiarono, violentarono ed uccisero senza pietà. Ad Ausonia e ad Esperia, i due villaggi più colpiti, le vìttime furono oltre cinquecento. Per queste loro azioni, il generale Mark W. Clark, malgrado l'opposizione del comandante del CEF, maresciallo Alphonse Juin, ne impose l'allontanamento, che ebbe luogo nei giorni 21-23 luglio. L'esperienza italiana non bastò comunque ai comandanti alleati, che reimpiegarono la 2a divisione marocchina nella Foresta Nera, con il risultato che a Freudenstadt, nell'aprile del 1945, si verificarono episodi analoghi a quelli accaduti da noi. (da 'In nome della resa', pag.490-491)
I vertici militari ormai si fidavano appieno dei mafiosi, dei loro metodi, dei loro complici. Gli Anastasia avevano sventato la minaccia di uno sciopero a oltranza sui moli che avrebbe danneggiato gli aiuti in partenza per la Gran Bretagna e l'Unione Sovietica. […] Ma nel tardo autunno del '42 Haffenden e i suoi colleghi non si ponevano simili interrogativi. Si chiedevano piuttosto se Luciano, Costello, Lansky, Adonis e la loro combriccola non potessero apportare lo stesso aiuto nella nuova missione: l'invasione della Sicilia. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.68)
Il bacino cui rivolgersi sono gli italiani d'America. Tra prima e seconda generazione assommano a sei milioni, ma la cospicua maggioranza di essi è ancora legata al fascismo, all'idea di uno Stato forte e rispettato diffusa da Mussolini nel decennio precedente. Gli unici che ritengono, invece, di avere un conto da chiudere sono i siciliani costretti dal regime a lasciare la propria terra. E alle loro porte che bussano gli uomini dell'OSS. Propongono l'ingaggio, accompagnato dalla promessa di un congruo stipendio, a quanti non abbiano ancora in Sicilia i genitori. I soldi sono tanti: 250 dollari a settimana, più una diaria giornaliera di 10. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.74)
Il 16 dicembre, nel corso di una sofferta riunione del gabinetto di guerra, Churchill giunge alla conclusione che l'invasione della Francia ipotizzata dagli americani andrà spostata di un anno e che il 1943 sarà l'anno dell'invasione dell'Italia e che essa avverrà in Sicilia. Perché l'Italia? Perché gli inglesi sono ormai convinti che Vittorio Emanuele per far cadere il fascismo ha bisogno di uno sbarco nemico sulla penisola. Perché in Sicilia? Perché gli indipendentisti, cioè i nobili e i grandi proprietari terrieri, sono già all'opera per preparare il terreno. Fra l'Italia e i suoi nemici si è stabilito un filo diretto. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.92-93)
Le autorità statunitensi puntarono forte su questa carta e stabilirono che bisognava creare un buon rapporto con quanti fossero in grado d'influenzare l'opinione pubblica. Rivolgersi ai mafiosi d'America divenne un passo quasi obbligato. Loro erano stati perseguitati dal fascismo, loro avevano dovuto abbandonare la Sicilia, da loro sarebbe venuto l'aiuto necessario per un felice esito dello sbarco. […] Attraverso la catena mafiosa vennero allacciati contatti con quanti erano rientrati nell'isola poco prima della guerra: molti di essi avevano conti in sospeso con la giustizia degli Stati Uniti, molti temevano che i genitori, i fratelli, le sorelle, i figli e le mogli rimasti negli USA potessero patire le conseguenze di un rifiuto. Vennero scovati italiani che non avevano mai chiesto la cittadinanza a o la cui domanda era stata respinta: fu promessa la regolarizzazione in cambio delle solite informazioni. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.103)
Al coinvolgimento di massa faceva da contraltare il reclutamento sotterraneo di personaggi che avevano conservato in Sicilia una ragnatela di contatti e amicizie. Ecco la testimonianza di Lansky dinanzi alla commissione Herlands, incaricata nel 1954 di far luce sulla commistione tra la marina e la mafia: 'Mi risultava dell'esistenza di certe persone fuggite dall'Italia a causa della loro appartenenza alla massoneria e, tra esse, di un tale che era stato sindaco di una delle maggiori città siciliane. I contatti con lui furono presi da quei signori che si recavano a visitare Charlie Luciano, i quali gli chiesero di prestare la propria opera. L'ex sindaco si dichiarò ben lieto e disposto reclutare anche altri'. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.104)
A compiere l'atto di clemenza non poteva che essere il governatore dello Stato di New York. Dal 1 gennaio era Thomas Dewey, colui che da procuratore aveva inchiodato Luciano e che ora si sentiva pronto per ben altri traguardi. […] Lucky si era detto dispostissimo, aveva indicato il golfo di Castellammare come il luogo adatto, garantiva di poter convincere parecchi compaesani ad appoggiare l'arrivo degli americani e di poter fornire in prima persona notizie utili sulle infrastrutture militari e sulle fortificazioni. […] Ma se Luciano non fu arruolato sul campo, molti altri lo furono. Nell'inverno del '43 cominciarono a essere inviati in Sicilia parecchi immigrati che avevano conservato la cittadinanza italiana. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.105-106)
Nell'inverno '43 la 'sezione Italia' dell'OSS mise le tende al Club des Pins di Algeri. Scamporino e Anfuso vi effettuarono veloci puntate dagli Stati Uniti lasciando a Corvo la responsabilità operativa. E il giovane Max in primavera cominciò a fare avanti e indietro dalla Sicilia con la sua squadra. All'inizio venivano sbarcati in prossimità delle coste dai sottomarini, che ormai scorrazzavano nel Mediterraneo, poi presero a salire sui pescherecci siciliani, si confondevano coi marinai, scendevano nei porticcioli, studiavano le insenature e le spiagge sulle quali si sarebbe iniziata l'invasione. I capitani e gli equipaggi che li accoglievano a bordo erano legatissimi a Cosa Nostra: prima della guerra avevano trasportato droga, latitanti, ragazze per i bordelli di Tripoli, Tunisi, Algeri, emigranti clandestini da stipare nelle bagnarole dal Marocco e dalla Tunisia verso gli USA. […] In tal modo, agli Amici e ai Bravi Ragazzi, gli Alleati si assicurarono un passaggio continuo e un incalcolabile patrimonio d'informazioni. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.109)
Veniva diffusa una propaganda sottile e inesauribile: s'infiltrava in ogni ganglio della società e la minava dall'interno. Le citta, i paesi, i villaggi sapevano che gli yankee sarebbero arrivati ed erano pronti a spalancare le porte e le braccia com'erano avvezzi a fare da secoli nell'accogliere i tanti invasori della Sicilia. Le famiglie consideravano la guerra già conclusa: l'aveva persa il fascismo, di conseguenza che fosse esso ed esso soltanto a pagarne le conseguenze. Le madri raccomandavano ai figli costretti a servire nelle divisioni del regio esercito di non rischiare la vita, buttare il fucile e di alzare le mani non appena il primo americano si fosse profilato all'orizzonte. E i militari siciliani costituivano il 75 per cento delle truppe adibite alla difesa permanente della costa (cinque divisioni, due brigate, un reggimento) e di due delle quattro divisioni di fanteria (Napoli e Aosta). (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.110-111)
[…] molto più semplice e veloce fu il tragitto del colonnello inglese Hancock, inviato in Sicilia per definire gli obiettivi militari assegnati al gruppo di Canepa e per stringere gli ultimi accordi con i rappresentanti del movimento indipendentista. Il 16 aprile Hancock fu depositato da un sottomarino su una spiaggia vicino Gela, preso in consegna dai mafiosi e accompagnato nella villa dell'ex deputato Verderame, esponente di spicco del MIS. Da qui, sempre protetto da Cosa Nostra, Hancock fu trasferito a Palermo in un palazzo di via Mariano Stabile, dove aveva lo studio l'avvocato Antonio Ramirez. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.113)
Il buon esito delle missioni di Hancock e di Poletti persuase definitivamente i vertici militari anglo-americani che all'asse Mafia-Chiesa poteva essere assegnata la cogestione della Sicilia dopo l'invasione. Per la prima volta, infatti, gli Alleati si trovavano nella condizione di dover installare una nuova forma di governo su un territorio straniero. Era chiaro che essi avrebbero mantenuto il controllo civile e militare dell'isola, tuttavia per la soluzione dei problemi pratici, per la trasmissione degli ordini serviva un interlocutore locale. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.114)
Povero duce, non sapeva neppure un decimo. Ignorava ad esempio che gli uomini dell'OSS razzolavano in ogni luogo. Il maggiore Francis Toscano sovrintendeva ai lavori di fortificazione di Monte Lungo, vicino Licata, zona cruciale per lo sbarco della 7a armata di Patton. L'11 luglio Toscano e quindici operai della sua squadra si mostreranno con la divisa statunitense ai licatesi, con i quali per oltre un mese avevano mangiato, bevuto e giocato a tressette. […] All'aeroporto militare di Ponte Olivo faceva l'operaio il capitano Asquini. Era ritenuto una persona affidabile e fu selezionato per il gruppo che collocò le mine anticarro sulla spiaggia di Gela. A Rosolini l'11 luglio scopriranno che l'ufficiale incaricato di sovrintendere all'amministrazione civile, il tenente maltese James Asphar, era il popolare Gaspare. Nei mesi precedenti tutti l'avevano visto girovagare con il carrettino di frutta e verdura. Gaspare si esprimeva soltanto in dialetto, la sua merce aveva prezzi invitanti, accettava sempre un bicchiere di vino ed era disponibile ad ascoltare ogni discorso. Per vender i suoi prodotti faceva il giro delle postazioni più isolate: spesso lo invitavano a trattenersi. Così poteva dare un'occhiata ai bunker, ai camminamenti sulla spiaggia, segnarsi i turni di guardia. Il tenente Asphar racconterà ai conoscenti di Rosolini che teneva la ricetrasmittente sotto le cassette dei pomodori e delle melanzane. […] In un'intervista concessa nel 1959, Lucky Luciano svelò che nella primavera del '43 era stato ingaggiato un giovane laureato in legge di Patti, il ventitreenne Michele Sindona. Faceva l'impiegato presso l'ufficio imposte di Messina e rimpinguava il modesto stipendio con un redditizio commercio di agrumi. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.119-120)
Titolo e Alfieri cercavano i siciliani indicati da zio Lucky. Erano quelli rientrati fra il '40 e il '41 dagli Stati Uniti e avevano ricevuto l'avviso di tenersi pronti. Da mesi raccoglievano notizie e le riversarono, usando il non dimenticato broccolino, sui paisà d'oltreoceano. Marsloe spiegherà alla commissione Herlands che l'apporto di quei mafiosi era stato prezioso. […] La mattinata fu infiocchettata dal colpo gobbo di Alfieri. Una settimana prima dell'invasione era giunta al quartier generale della marina statunitense a Tunisi un'indicazione precisa: una villa vicino Gela circondata da uno splendido parco è la sede segreta del comando navale italiano; i piani, i documenti, i codici stanno dentro la cassaforte nella stanza attigua allo studio dell'ammiraglio. L'incarico di prelevare quelle carte ritenute determinanti per il prosieguo dell'avanzata fu assegnato ad Alfieri, l'esperto di serrature e di combinazioni. E dai mafiosi rintracciati nei dintorni di Gela Alfieri si fece indicare l'esatta ubicazione della villa. […] con una carica di esplosivo fece saltare lo sportello. Cifrati, mappe, fascicoli con su scritto riservato, buste da aprire in caso di particolari ordini facevano bella mostra di sé. […] Secondo Marsloe i documenti recuperati da Alfieri contribuirono ad accelerare la resa dell'Italia. Manca una lista esatta della spesa, tuttavia pare che le carte non riguardassero soltanto la Sicilia, ma anche la dislocazione dell'aviazione tedesca nel Mediterraneo e gli ordini riservati per le divisioni della Wehrmacht nella penisola. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.204-205)
Gli statunitensi lamentarono parecchie perdite e s'invelenirono per l'inaspettata resistenza. Catturati 36 soldati italiani, alcuni dei quali in abiti civili, il capitano John Compton, comandante della compagnia C, ordinò di fucilarli immediatamente. Era soltanto l'inizio della mattanza ignorata per oltre mezzo secolo in Italia e ricostruita da Ezio Costanze in Sicilia 1943. Altri 48 prigionieri, 3 dei quali tedeschi, erano nelle mani della compagnia A. Il sergente Horace West doveva scortare 37 italiani nelle retrovie, affinché fossero interrogati, invece li fece schierare lungo un fosso, s'impossessò di un fucile mitragliatore Thompson e aprì il fuoco. Ne caddero 36, uno provò a fuggire e fu abbattuto da un caporale, dietro preciso ordine di West. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.236-237)
Talune foto, talune sequenze dei Combat-Film sono strazianti. Su un lato della strada colonne di prigionieri italiani assistono sbigottiti all'esultanza con cui vengono accolti i nemici contro i quali hanno combattuto fino a pochi minuti prima. L'incessante opera di proselitismo svolta dagli agenti del Naval Intelligence e della 'sezione Italia' dell'OSS dette da subito risultati eccellenti. Alfieri, Titolo, Corvo, Fiorilla ricevettero l'appoggio dei capibastone, dei latifondisti, della borghesia. Da questi contatti germinò l'idea di concedere un veloce ritorno a casa a tutti i soldati siciliani che avessero disertato o si fossero arresi. Quelli dell'OSS ne parlarono a Bradley. Il freddo Omar colse al volo i tanti aspetti positivi del progetto. Gli americani avevano già 22.000 prigionieri italiani e non sapevano che cosa farne e dove metterli. Un quarto di questi erano locali, Bradley disse ai suoi che il miglior impiego sarebbe stato di mandarli a raccogliere il grano, la frutta, l'uva, le olive in modo da non far pesare integralmente sull'intendenza USA il compito di sfamare la popolazione. Così, all'insaputa dello stesso Patton, prese il via l'operazione che avrebbe alla fine liberato quasi 35.000 soldati siciliani e che accelerò lo sfaldamento delle divisioni di Guzzoni. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.240)
In quelle lande desolate i mafiosi assunsero il compito che era stato delle guide indiane nella colonizzazione del selvaggio West. Aprivano la strada in tutti i sensi. Nei centri del Vallone, a Villalba, Mussomeli, a Valledolmo, a Vallelunga, a Montedoro i reparti dell'esercito consegnarono le armi direttamente nelle mani dei boss. La campagna d'arruolamento dell'OSS procedette spedita. Corvo e Scamporino avevano in pochissimi giorni ricreato e spedito in mare i pescherecci. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.243)
Dal molo della città partì una squadra della 'sezione Italia'. I ragazzi di Scamporino e Corvo avevano una delicata missione da compiere. Liberare nell'isola di Favignana il centinaio di mafiosi che il regime aveva rinchiuso. Una delle tante operazioni sotterranee, su cui si è sempre preferito tacere. Probabilmente faceva parte del patto stipulato fra l'OSS, i Bravi Ragazzi di Luciano e la mafia siciliana. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.248)
Il 27 luglio era stato designato sindaco di Villalba Calogero Vizzini: il tenente Beher del Civil Affair aveva dovuto scandire l'atto di nomina a voce alta per venire incontro alla difficoltà del neo sindaco con la lettura di vocali e consonanti. Don Calò raccontava agli estimatori che nella lieta circostanza era anche avvenuto il suo arruolamento nell'esercito USA con il grado di colonnello ad honorem. A Vizzini e ai suoi Bravi Ragazzi era stato concesso il porto d'armi per difendersi dai fascisti, che, poveracci, non li avevano infastiditi neppure quando detenevano il potere. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.285)
Giuseppe Genco Russo ebbe la sovrintendenza dell'ente comunale di assistenza di Mussomeli. A Montedoro i rappresentanti dell'AMG si presentarono dal medico condotto, Calogero Volpe, stupendosi di vederlo pure d'estate con una coppola nera: sapevano che senza il suo assenso era difficile persino che venisse impastato il pane. […] A Villabate l'OSS arruolò Giuseppe Cottone jr, figlio del rispettato 'capofamiglia' Giuseppe sr. Max Mugnaini, che tra le due guerre si era conquistato la fama di principale trafficante internazionale di stupefacenti ed era ricercato da una dozzina di polizie, ebbe in consegna il deposito dei medicinali della 7a armata: la morfina andò letteralmente a ruba. D'altronde su Palermo cominciava a gravitare Vito Genovese. Per la giustizia statunitense era un latitante con a carico un processo per omicidio e la possibile condanna alla sedia elettrica. Eppure entrò nella cerchia degli intimi di Poletti, lo arruolarono e gli misero indosso una divisa militare. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.286)
Nel maggio 1945, sebbene la guerra fosse finita, i paracadutisti (tedeschi) non si erano arresi. Gunther Drossinger, i suoi commilitoni e gli uomini di altre formazioni veterane si unirono alle truppe americane che pattugliavano le zone a nord del lago di Caldonazzo. Gli Alleati avevano finito la loro guerra e non avevano intenzione di rischiare la pelle per intervenire nelle complicate vicende politiche di un popolo che disprezzavano [...] Ma i giovani tedeschi, che conoscevano solo il mestiere delle armi, erano disposti a continuare questa attività per tre buoni pasti al giorno: una sistemazione più allettante rispetto alla prospettiva di finire in un campo di prigionia. Il compito loro assegnato consisteva nel sorvegliare e proteggere le proprietà private e le grandi tenute agricole da un nemico comune: il partigiano italiano. (da 'La guerra inutile', pag.13)
Lucky Luciano era un boss mafioso che stava scontando una condanna a trent'anni per racket nel carcere di Dannemosa, negli Stati Uniti, allo scoppio della seconda guerra mondiale. A quanto pare, il governo americano gli offrì la libertà purché contribuisse a creare un efficiente movimento di resistenza in Sicilia poco prima dell'invasione dell'isola [...] Vi sono molte leggende a proposito del modo in cui Luciano entrò in contatto con il nuovo 'capo di tutti i capi', don Calogero Vizzini, che viveva nella natia Villalba. Sembra comunque che Vizzini si lasciasse indurre a schierarsi con gli Alleati e ad assicurare loro la collaborazione della mafia. Con l'aiuto di Genco Russo di Mussomeli, un altro importante capo mafioso, poté garantire l'intera Sicilia occidentale alle forze americane, contribuendo a facilitare la fulminea avanzata di Patton verso Palermo. Non esistono prove concrete che confermino o confutino queste affermazioni. Vi sono state persino commissioni d'inchiesta del Senato che non hanno concluso nulla, e secondo i sostenitori della teoria della cospirazione questo serve a dimostrare la potenza della mafia. Il fatto che Lucky Luciano venisse rimesso in libertà sulla parola nel 1946 per l'ampio e prezioso aiuto dato alla marina durante la guerra e si trasferisse in Italia, sembra dar ragione a quanti credono che gli Stati Uniti fossero scesi a patti con la mafia [...] Molti mafiosi, rilasciati dal carcere quando le loro città furono liberate dagli Alleati, poterono spacciarsi per prigionieri politici antifascisti. Le autorità fasciste furono estromesse e il loro posto fu preso da noti esponenti della mafia. Per esempio, gli americani insediarono Vizzini come sindaco di Villalba e lo nominarono colonnello onorario! [...] Il risultato non dà adito a dubbi. Pochi giorni dopo gli sbarchi alleati la mafia aveva ricostruito la sua rete e in breve tempo fu in grado di controllare un fiorente mercato nero che all'inizio trafficava in vini locali, viveri e materiali militari. (da 'La guerra inutile', pag.46-47)
Gli Alleati erano accolti a braccia aperte nelle città italiane, se non altro perché il loro arrivo significava la fine delle sofferenze, delle bombe e dei cannoneggiamenti. Molto presto, però, l'entusiasmo si guastava, non appena la popolazione locale cominciava a subire saccheggi sistematici, invariabilmente a opera della seconda ondata e delle formazioni di retroguardia (dato che i combattenti di prima linea avevano meno occasioni di fare altrettanto). Le vittime non ottenevano molta comprensione da parte delle autorità militari, che trattavano gli italiani come una popolazione assoggettata con la forza e, in assenza di ogni sanzione, i saccheggi e gli abusi erano piuttosto diffusi. (da 'La guerra inutile', pag.232)
Le forze britanniche furono attaccate anche dalla popolazione locale. I commando subirono perdite a causa del tiro dei cecchini che cessarono solo quando il tenente colonnello John Dinford Slater radunò la popolazione maschile e minacciò per rappresaglia un'esecuzione di massa. Più tardi scrisse che il suo intervento li aveva fatti tornare a casa con una mentalità più disposta alla cooperazione. Ciò può dare l'idea di quanto fosse vera la teoria che voleva gli Alleati accolti come liberatori. (da 'La guerra inutile', pag.241)
Nella valle dell'Itro, mentre la resistenza tedesca diventava più frammentaria e irregolare, i goums commisero terribili atrocità. Donne e bambine, adolescenti e bambini, furono violentati per la strada e molti di loro morirono. Gli uomini che tentavano di intervenire furono uccisi. La popolazione italiana accusò i goums, i marocchini, ma le atrocità furono commesse da tutte le forze coloniali francesi [...] Si diceva che sodomizzassero i prigionieri e castrassero gli ufficiali catturati [...] A Esperia i goums si scatenarono e gli ufficiali non riuscirono a controllarli. Donne di ogni età, bambini e giovani furono violentati, e il paese venne saccheggiato [...] In un villaggio presso Pico un battaglione del 351 fanteria americano arrivò nella piazza principale mentre i marocchini violentavano donne, giovani e bambini. Infuriati, i soldati americani avanzarono per salvare le vittime, ma il comandante della compagnia intervenne e dichiarò che erano li per combattere contro i tedeschi, non contro i goums. Un tenente americano che conosceva un po' il francese trovò un capitano che beveva vino all'osteria; quello alzò le spalle di fronte alla reazione indignata dell'americano e gli chiese se voleva ascoltare qualcuna delle atrocità commesse dalle truppe americane contro le donne arabe in Algeria. (da 'La guerra inutile', pag.374)
A Marradi, la notizia si diffuse come un incendio. Gli Alleati erano vicinissimi, nella valle: la liberazione doveva essere questione di ore. L'annuncio ispirò paura, non gioia. Gli abitanti avevano saputo dai partigiani che la loro cittadina si trovava sul percorso delle truppe indiane, e tutti sapevano cos'erano gli indiani. Tutti avevano parenti più a sud. I liberatori indiani erano come le truppe coloniali francesi: stupravano, saccheggiavano e uccidevano. (da 'La guerra inutile', pag.423)
Non tutti gli italiani erano entusiasti di venire chiamati alle armi da un governo screditato. E non volevano neppure combattere per gli Alleati, che occupavano il loro paese provocando tanta frustrazione e tanta rabbia. In Sicilia la reazione a una chiamata alle armi nel dicembre 1944 provocò violenti disordini [...] Separatisti e comunisti fecero causa comune e fino a metà gennaio disordini imperversarono in tutta l'isola. (da 'La guerra inutile', pag.452-453)
Perciò i numeri indicano che gli Alleati, in nome della liberazione, uccisero più italiani di quanti ne abbiano uccisi i tedeschi. (da 'La guerra inutile', pag.492)
Non ci misi molto ad accorgermi, per esempio, che gli inglesi non potevano sopportare i partigiani. Se ne erano serviti e ora li disprezzavano. Il tenente del controspionaggio di Sondrio li definiva, senza tanti complimenti, carne venduta. Quando poi il discorso cadeva sui partigiani comunisti, allora si infuriava davvero. Diceva che, se fosse dipeso da lui, li avrebbe schiaffati tutti in galera al nostro posto; li accusava di avere nascosto ingenti quantitativi di armi in vista di una prossima rivoluzione bolscevica. (da 'La generazione che non si é arresa', pag.151)
Nulla sapendo di quanto i vivi e i morti avevano sofferto, gli Inglesi e gli Americani entrarono in Roma come nella capitale di un nemico sconfitto. L'elettricità era scarsa; si disse perciò: No Electricity for Italians! (Niente elettricità per gli Italiani). Questo stato di cose durò per tutto l'inverno, mentre le innumerevoli sale da ballo, gli alberghi e le case requisite - la requisizione era fatta con un preavviso di tre ore, come si usa nei paesi nemici occupati militarmente - erano inondati di luce elettrica a tutte le ore del giorno. (da 'Una vita per l'Italia', pag.195)
Tra le operazioni di guerra, il generale francese Alphonse Juin fece stampare in arabo volantini, da distribuire alle sue truppe, su cui era scritto: 'Miei cari soldati, oltre quei monti c'è una terra grande, ricca di donne, di vino e di case. Se riuscirete ad arrivarci, tutto sarà vostro, per cinquanta ore'. 'Elettrizzati dall'ignobile volantino, i marocchini superarono i Monti Aurunci e il 14 maggio sbucarono a Esperia di fronte a Montecassino, a cento chilometri da Roma'. I tedeschi si ritirarono. 'I marocchini dilagarono per tutti i centri abitati della zona e fecero quel che pochi sanno, che per pudore si è taciuto, e i libri di storia non riportano. Avuta via libera da Juin, dal 17 a 25 maggio stuprarono migliaia di bambine, donne e vecchie che li avevano accolti come liberatori'. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.94)
[...] seguiamo la testimonianza giurata del capitano di vascello Agostino Calosi resa nel corso del processo contro Borghese. 'Come capo dell'ufficio informazioni della Marina del Sud, feci passare le linee a molte persone con incarichi militari; al Borghese, però, inviai degli emissari di mia iniziativa e senza il consenso degli anglo-americani, i quali, per questo fatto, minacciarono di rinchiudermi in un campo di concentramento. Gli anglo-americani solevano far passare le linee ad elementi di estrema sinistra o comunisti, talché io mi vidi costretto a far figurare i miei uomini come militanti o simpatizzanti dei partiti di sinistra al fine di poterli inviare al Nord. Da tale situazione di fatto deriva la logica conseguenza che la lotta partigiana è stata provocata e accesa da elementi interessati al fine di inviperire vieppiù la guerra fratricida tra italiani e italiani'. (da 'J.V.Borghese e la X MAS', pag.130-131)
La ricchezza di dati e le esatte osservazioni dell'OSS erano il prodotto della collaborazione tra i servizi segreti statunitensi e la Mafia italo-americana, un episodio contingente che peserà irrimediabilmente sul futuro della vita italiana e, per alcuni settori, come la droga, dei paesi del blocco occidentale. (da 'In nome della resa', pag.264)
Quando all'inizio del 1943 si delineò il piano di sbarco in Sicilia, gli americani si preoccuparono di preparare alle loro truppe nell'isola un terreno favorevole, un'atmosfera amichevole, una popolazione che li accogliesse da liberatori. Inoltre necessitava loro qualcuno che sapesse prendere in pugno la situazione e assumesse cariche pubbliche una volta consolidata l'occuparne. Il problema fu affidato a Lucky Luciano che, come si vedrà, lo risolse da par suo, ricevendone in cambio una pubblica dichiarazione di revisione del processo e, a guerra finita, la libertà. (da 'In nome della resa', pag.267)
Anche nel 1943 essa fece un buon lavoro. Dopo il sì agli agenti americani, Lucky Luciano, a gennaio, aveva messo in movimento il feudatario di Villalba, Don Calogero Vizzini. 'Don Calò' in breve tempo divenne il tramite principale tra politica, separatismo siciliano e clero. Nipote di due vescovi e con due fratelli preti, nonostante fosse implicato in 51 omicidi, accolto con grandi onori in tutte le case nobiliari, gli era stato facile far avere a Lucky Luciano non soltanto una lista di 850 persone 'sicure', ma anche organizzare le azioni di sabotaggio che ebbero luogo nel Palermitano e nel Trapanese, cioè nelle zone più mafiose dell'isola, e culminanti con l'attacco l'aeroporto di Gerbini, sede della caccia tedesca. Come fa notare Franco Bandini, tre settimane prima dello sbarco alleato, inoltre, un gruppo di circa duecento uomini era stato sbarcato in uniforme con l'incarico di attentare alle spalle dei capisaldi italiani al momento dell'inizio delle operazioni. Furono questi uomini che eliminarono il giorno dell'invasione una buona parte delle sentinelle e distrussero i centri di comunicazione, di illuminazione e di direzione del tiro sulle coste interessate. Furono ancora essi, parlando un siciliano purissimo, a guidare per le stradine più comode e sicure, verso l'interno, le colonne americane che avevano preso terra. (da 'In nome della resa', pag.277)
In Sicilia, comunque, c'erano due suoi luogotenenti: Vito Genovese, la cui fede fascista si era squagliata col calare delle fortune del regime e Albert Anastasia, in divisa nelle file dei 'liberatori'. A Palermo gli americani non accontentarono i sogni separatistici ed installarono nel capoluogo una loro amministrazione militare, la AMGOT (creata il 17 luglio), ponendovi a capo Charles Poletti, colonnello dei servizi informativi, oriundo italiano, più o meno legato agli ambienti mafiosi che ricevette per giunta entro la fine dell'anno una laurea ad honorem dall'Università di Palermo. Damiano Lumia, nipote di Don Calogero Vizzini, divenne membro dell'AMGOT e Vito Genovese l'interprete ufficiale. Vizzini stesso assunse la carica di sindaco di Villalba; Genco Russo, sua mano destra, quella di sindaco di Mussomeli e altri loro amici andarono ad amministrare 62 dei 76 comuni della provincia di Palermo. […] II giorno dopo la caduta di Palermo, il 23 luglio, la 82a divisione Airborne prese Trapani, assolutamente senza perdite, visto che né il contrammiraglio Giuseppe Manfredi, comandante della piazza, né la 208a divisione costiera (generale Giovanni Marciani) opposero la benché minima resistenza, ammesso poi che quest'ultima esistesse ancora, visto che spesso interi reparti costieri si dissolsero, raggiungendo volontariamente i campi di prigionia americani! (da 'In nome della resa', pag.278)
Lo stesso 23 luglio gli americani raggiunsero Termini Imerese e il 24 Nicosia. Sempre il 24 luglio i britannici si impadronirono definitivamente di Leonforte e nell'occasione dei soldati canadesi liquidarono degli inservienti tedeschi di una batteria, dopo che questi si erano arresi. […] Durante le operazioni in Sicilia, anche la 45a divisione di fanteria statunitense si macchiò, per colpa di alcuni suoi elementi, di gravi crimini di guerra. Alexander Clifford, corrispondente britannico, afferma, infatti, di aver visto un soldato di questa divisione falciare con una mitragliatrice pesante, all'aeroporto di Comiso, un camion carico di prigionieri tedeschi (ne rimasero in vita solo due o tre) e poi un gruppo di altri 60 prigionieri, stavolta italiani. Clark Lee, corrispondente americano, afferma che il 14 luglio, presso Gela, il sergente Berry West uccise 36 prigionieri e lo stesso giorno, presso Butera, il capitano Jerry Compton ne uccise altri 43. (da 'In nome della resa', pag.279)
Sotto questo timore e in considerazione del fatto che, scaduto il teatro di guerra italiano a fronte secondario, un movimento armato nella Penisola era divenuto militarmente inutile, essi ridussero gli aiuti, li sospesero alle formazioni a loro meno gradite e, successivamente, provvidero a cautelarsi contro tutto il movimento. Il 13 novembre 1944, Alexander emanò allo scopo un proclama a tutti i partigiani, invitandoli a ridurre la loro attività alle sole azioni di sabotaggio ed a cercare nascondigli e rifugi per l'inverno, in attesa della ripresa dell'offensiva generale in primavera. A questa specie di 'congedo', il 7 dicembre, gli Alleati fecero seguire un provvedimento più rilevante. Convocati a Roma quattro delegati del Comitato di Liberazione dell'Alta Italia (CLNAI), imposero loro la stipulazione di un accordo col quale venne stabilito: 1. Il Comando Supremo alleato desidera che fra gli elementi che svolgono la loro attività nel movimento di resistenza, si stabilisca e si mantenga la più stretta cooperazione militare... 2. Durante l'occupazione nemica il Comando Generale dei Volontari della Libertà (CVL) dovrà eseguire tutte le istruzioni date dal Comando Supremo alleato... 3. Il comandante militare del CVL deve essere un ufficiale accettato dal comando alleato. 4. Quando il nemico si ritirerà dai territori occupati, il CLNAI farà ogni sforzo per mantenere l'ordine e la legge e per continuare a salvaguardare le risorse economiche del paese, in attesa che si costituisca il Governo Militare Alleato (AMG). Il CLNAI si impegna a riconoscere il Governo Militare Alleato ed a trasmettergli tutti i poteri di governo locale ed amministrativi di cui abbia disposto in precedenza. Al momento della ritirata nemica, tutti i membri del CVL passeranno alle dirette dipendenze del comandante delle forze alleate: essi saranno tenuti ad eseguire tutti gli ordini che riceveranno, anche quello di consegnare le armi e di sciogliere le bande. Era in pratica l'accettazione della 'resa incondizionata' da parte del movimento partigiano. A questo Diktat, il 26 dicembre, ne segui un altro fra il CLNAI ed il governo italiano di Roma, nel quale era detto: 'II governo italiano riconosce il CLNAI quale organo dei partiti antifascisti sul territorio occupato dal nemico. Il governo italiano delega il CLNAI a rappresentarlo nella lotta che i patrioti hanno impegnato contro i fascisti ed i tedeschi nell'Italia ancora liberata. Il CLNAI accetta di agire a tal fine come delegato del governo italiano, il quale è riconosciuto dai governi alleati come successore del governo che ò le condizioni di armistizio ed è la sola autorità legittima in quella parte d'Italia è già stata o sarà in seguito restituita al governo italiano dal Governo Militare Alleato'. Gli impegni di Roma misero ordine nel disordine della guerriglia, ma, l'obbligando il CLNAI a riconoscere il governo regio, erede della dittatura badogliana, come il solo legittimo; lo slancio rivoluzionario che animava la lotta partigiana venne imbrigliato. Questo era lo scotto da pagare per non aver voluto, saputo o potuto fare della lotta partigiana un movimento nazional-rivoluzionario contro i nemici vecchi e nuovi (e non solo nuovi) e soprattutto contro i due governi loro vassalli (e non solo contro uno dei due). Poiché solo questa era la via per creare un'Italia 'nuova'. Quest'Italia, però, non sarebbe stata una democrazia, bensì una dittatura poliziesca e intollerante di tipo stalinista. Ma, per un paradosso, proprio Stalin, alleato di Londra e di Washington, lo impedì, poiché egli appoggiava, attraverso Palmiro Togliatti, il governo regio, uno dei due governi vassalli. E che Togliatti fosse contro la lotta partigiana, lo riferisce anche Giorgio Bocca. Leo Valiani afferma addirittura che il movimento partigiano gli 'rompesse le scatole' e che, per di più, il segretario del PCI considerasse i partigiani dei guastafeste. Anche Pietro Nenni lo conferma. È il caso perciò di dire che la scelta del nome di 'Garibaldi', il battistrada dei Carignano, si rivelò per i partigiani comunisti una scelta sintomatica e di cattivo augurio! (da 'In nome della resa', pag.444-445)
Indubbiamente gli Alleati non avevano fiducia nei nuovi cobelligeranti che, ancora due mesi prima, erano membri a tutti gli effetti del Patto Tripartito. Chi poteva loro garantire che le divisioni italiane, una volta impegnate al fronte, non avessero improvvisamente riconosciuto il governo di Gargnano, oppure non avessero 'mollato', com'era avvenuto a Sidi el-Barrani, o se la fossero squagliata, come in Sicilia? I loro dubbi non erano del tutto privi di fondamento e, soprattutto, non sbagliavano quando ritenevano che le forze armate italiane fossero demoralizzate. (da 'In nome della resa', pag.467)
L'importante compito svolto nella battaglia dalle truppe marocchine fu infangato dal loro bestiale comportamento nei confronti della popolazione di quelle contrade italiane. I goumiers erano infatti provetti guerrieri, ma anche rozzi montanari provenienti dalle catene montuose dell'Atlante, il cui aspetto primitivo e la cui mentalità retriva li avrebbero resi sgraditi anche ai marocchini di Casablanca o di Tangeri. Nei paesi italiani tolti ai tedeschi, i goumiers commisero tremende atrocità, seminando il terrore per due settimane. Essi saccheggiarono, violentarono ed uccisero senza pietà. Ad Ausonia e ad Esperia, i due villaggi più colpiti, le vìttime furono oltre cinquecento. Per queste loro azioni, il generale Mark W. Clark, malgrado l'opposizione del comandante del CEF, maresciallo Alphonse Juin, ne impose l'allontanamento, che ebbe luogo nei giorni 21-23 luglio. L'esperienza italiana non bastò comunque ai comandanti alleati, che reimpiegarono la 2a divisione marocchina nella Foresta Nera, con il risultato che a Freudenstadt, nell'aprile del 1945, si verificarono episodi analoghi a quelli accaduti da noi. (da 'In nome della resa', pag.490-491)
I vertici militari ormai si fidavano appieno dei mafiosi, dei loro metodi, dei loro complici. Gli Anastasia avevano sventato la minaccia di uno sciopero a oltranza sui moli che avrebbe danneggiato gli aiuti in partenza per la Gran Bretagna e l'Unione Sovietica. […] Ma nel tardo autunno del '42 Haffenden e i suoi colleghi non si ponevano simili interrogativi. Si chiedevano piuttosto se Luciano, Costello, Lansky, Adonis e la loro combriccola non potessero apportare lo stesso aiuto nella nuova missione: l'invasione della Sicilia. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.68)
Il bacino cui rivolgersi sono gli italiani d'America. Tra prima e seconda generazione assommano a sei milioni, ma la cospicua maggioranza di essi è ancora legata al fascismo, all'idea di uno Stato forte e rispettato diffusa da Mussolini nel decennio precedente. Gli unici che ritengono, invece, di avere un conto da chiudere sono i siciliani costretti dal regime a lasciare la propria terra. E alle loro porte che bussano gli uomini dell'OSS. Propongono l'ingaggio, accompagnato dalla promessa di un congruo stipendio, a quanti non abbiano ancora in Sicilia i genitori. I soldi sono tanti: 250 dollari a settimana, più una diaria giornaliera di 10. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.74)
Il 16 dicembre, nel corso di una sofferta riunione del gabinetto di guerra, Churchill giunge alla conclusione che l'invasione della Francia ipotizzata dagli americani andrà spostata di un anno e che il 1943 sarà l'anno dell'invasione dell'Italia e che essa avverrà in Sicilia. Perché l'Italia? Perché gli inglesi sono ormai convinti che Vittorio Emanuele per far cadere il fascismo ha bisogno di uno sbarco nemico sulla penisola. Perché in Sicilia? Perché gli indipendentisti, cioè i nobili e i grandi proprietari terrieri, sono già all'opera per preparare il terreno. Fra l'Italia e i suoi nemici si è stabilito un filo diretto. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.92-93)
Le autorità statunitensi puntarono forte su questa carta e stabilirono che bisognava creare un buon rapporto con quanti fossero in grado d'influenzare l'opinione pubblica. Rivolgersi ai mafiosi d'America divenne un passo quasi obbligato. Loro erano stati perseguitati dal fascismo, loro avevano dovuto abbandonare la Sicilia, da loro sarebbe venuto l'aiuto necessario per un felice esito dello sbarco. […] Attraverso la catena mafiosa vennero allacciati contatti con quanti erano rientrati nell'isola poco prima della guerra: molti di essi avevano conti in sospeso con la giustizia degli Stati Uniti, molti temevano che i genitori, i fratelli, le sorelle, i figli e le mogli rimasti negli USA potessero patire le conseguenze di un rifiuto. Vennero scovati italiani che non avevano mai chiesto la cittadinanza a o la cui domanda era stata respinta: fu promessa la regolarizzazione in cambio delle solite informazioni. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.103)
Al coinvolgimento di massa faceva da contraltare il reclutamento sotterraneo di personaggi che avevano conservato in Sicilia una ragnatela di contatti e amicizie. Ecco la testimonianza di Lansky dinanzi alla commissione Herlands, incaricata nel 1954 di far luce sulla commistione tra la marina e la mafia: 'Mi risultava dell'esistenza di certe persone fuggite dall'Italia a causa della loro appartenenza alla massoneria e, tra esse, di un tale che era stato sindaco di una delle maggiori città siciliane. I contatti con lui furono presi da quei signori che si recavano a visitare Charlie Luciano, i quali gli chiesero di prestare la propria opera. L'ex sindaco si dichiarò ben lieto e disposto reclutare anche altri'. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.104)
A compiere l'atto di clemenza non poteva che essere il governatore dello Stato di New York. Dal 1 gennaio era Thomas Dewey, colui che da procuratore aveva inchiodato Luciano e che ora si sentiva pronto per ben altri traguardi. […] Lucky si era detto dispostissimo, aveva indicato il golfo di Castellammare come il luogo adatto, garantiva di poter convincere parecchi compaesani ad appoggiare l'arrivo degli americani e di poter fornire in prima persona notizie utili sulle infrastrutture militari e sulle fortificazioni. […] Ma se Luciano non fu arruolato sul campo, molti altri lo furono. Nell'inverno del '43 cominciarono a essere inviati in Sicilia parecchi immigrati che avevano conservato la cittadinanza italiana. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.105-106)
Nell'inverno '43 la 'sezione Italia' dell'OSS mise le tende al Club des Pins di Algeri. Scamporino e Anfuso vi effettuarono veloci puntate dagli Stati Uniti lasciando a Corvo la responsabilità operativa. E il giovane Max in primavera cominciò a fare avanti e indietro dalla Sicilia con la sua squadra. All'inizio venivano sbarcati in prossimità delle coste dai sottomarini, che ormai scorrazzavano nel Mediterraneo, poi presero a salire sui pescherecci siciliani, si confondevano coi marinai, scendevano nei porticcioli, studiavano le insenature e le spiagge sulle quali si sarebbe iniziata l'invasione. I capitani e gli equipaggi che li accoglievano a bordo erano legatissimi a Cosa Nostra: prima della guerra avevano trasportato droga, latitanti, ragazze per i bordelli di Tripoli, Tunisi, Algeri, emigranti clandestini da stipare nelle bagnarole dal Marocco e dalla Tunisia verso gli USA. […] In tal modo, agli Amici e ai Bravi Ragazzi, gli Alleati si assicurarono un passaggio continuo e un incalcolabile patrimonio d'informazioni. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.109)
Veniva diffusa una propaganda sottile e inesauribile: s'infiltrava in ogni ganglio della società e la minava dall'interno. Le citta, i paesi, i villaggi sapevano che gli yankee sarebbero arrivati ed erano pronti a spalancare le porte e le braccia com'erano avvezzi a fare da secoli nell'accogliere i tanti invasori della Sicilia. Le famiglie consideravano la guerra già conclusa: l'aveva persa il fascismo, di conseguenza che fosse esso ed esso soltanto a pagarne le conseguenze. Le madri raccomandavano ai figli costretti a servire nelle divisioni del regio esercito di non rischiare la vita, buttare il fucile e di alzare le mani non appena il primo americano si fosse profilato all'orizzonte. E i militari siciliani costituivano il 75 per cento delle truppe adibite alla difesa permanente della costa (cinque divisioni, due brigate, un reggimento) e di due delle quattro divisioni di fanteria (Napoli e Aosta). (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.110-111)
[…] molto più semplice e veloce fu il tragitto del colonnello inglese Hancock, inviato in Sicilia per definire gli obiettivi militari assegnati al gruppo di Canepa e per stringere gli ultimi accordi con i rappresentanti del movimento indipendentista. Il 16 aprile Hancock fu depositato da un sottomarino su una spiaggia vicino Gela, preso in consegna dai mafiosi e accompagnato nella villa dell'ex deputato Verderame, esponente di spicco del MIS. Da qui, sempre protetto da Cosa Nostra, Hancock fu trasferito a Palermo in un palazzo di via Mariano Stabile, dove aveva lo studio l'avvocato Antonio Ramirez. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.113)
Il buon esito delle missioni di Hancock e di Poletti persuase definitivamente i vertici militari anglo-americani che all'asse Mafia-Chiesa poteva essere assegnata la cogestione della Sicilia dopo l'invasione. Per la prima volta, infatti, gli Alleati si trovavano nella condizione di dover installare una nuova forma di governo su un territorio straniero. Era chiaro che essi avrebbero mantenuto il controllo civile e militare dell'isola, tuttavia per la soluzione dei problemi pratici, per la trasmissione degli ordini serviva un interlocutore locale. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.114)
Povero duce, non sapeva neppure un decimo. Ignorava ad esempio che gli uomini dell'OSS razzolavano in ogni luogo. Il maggiore Francis Toscano sovrintendeva ai lavori di fortificazione di Monte Lungo, vicino Licata, zona cruciale per lo sbarco della 7a armata di Patton. L'11 luglio Toscano e quindici operai della sua squadra si mostreranno con la divisa statunitense ai licatesi, con i quali per oltre un mese avevano mangiato, bevuto e giocato a tressette. […] All'aeroporto militare di Ponte Olivo faceva l'operaio il capitano Asquini. Era ritenuto una persona affidabile e fu selezionato per il gruppo che collocò le mine anticarro sulla spiaggia di Gela. A Rosolini l'11 luglio scopriranno che l'ufficiale incaricato di sovrintendere all'amministrazione civile, il tenente maltese James Asphar, era il popolare Gaspare. Nei mesi precedenti tutti l'avevano visto girovagare con il carrettino di frutta e verdura. Gaspare si esprimeva soltanto in dialetto, la sua merce aveva prezzi invitanti, accettava sempre un bicchiere di vino ed era disponibile ad ascoltare ogni discorso. Per vender i suoi prodotti faceva il giro delle postazioni più isolate: spesso lo invitavano a trattenersi. Così poteva dare un'occhiata ai bunker, ai camminamenti sulla spiaggia, segnarsi i turni di guardia. Il tenente Asphar racconterà ai conoscenti di Rosolini che teneva la ricetrasmittente sotto le cassette dei pomodori e delle melanzane. […] In un'intervista concessa nel 1959, Lucky Luciano svelò che nella primavera del '43 era stato ingaggiato un giovane laureato in legge di Patti, il ventitreenne Michele Sindona. Faceva l'impiegato presso l'ufficio imposte di Messina e rimpinguava il modesto stipendio con un redditizio commercio di agrumi. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.119-120)
Titolo e Alfieri cercavano i siciliani indicati da zio Lucky. Erano quelli rientrati fra il '40 e il '41 dagli Stati Uniti e avevano ricevuto l'avviso di tenersi pronti. Da mesi raccoglievano notizie e le riversarono, usando il non dimenticato broccolino, sui paisà d'oltreoceano. Marsloe spiegherà alla commissione Herlands che l'apporto di quei mafiosi era stato prezioso. […] La mattinata fu infiocchettata dal colpo gobbo di Alfieri. Una settimana prima dell'invasione era giunta al quartier generale della marina statunitense a Tunisi un'indicazione precisa: una villa vicino Gela circondata da uno splendido parco è la sede segreta del comando navale italiano; i piani, i documenti, i codici stanno dentro la cassaforte nella stanza attigua allo studio dell'ammiraglio. L'incarico di prelevare quelle carte ritenute determinanti per il prosieguo dell'avanzata fu assegnato ad Alfieri, l'esperto di serrature e di combinazioni. E dai mafiosi rintracciati nei dintorni di Gela Alfieri si fece indicare l'esatta ubicazione della villa. […] con una carica di esplosivo fece saltare lo sportello. Cifrati, mappe, fascicoli con su scritto riservato, buste da aprire in caso di particolari ordini facevano bella mostra di sé. […] Secondo Marsloe i documenti recuperati da Alfieri contribuirono ad accelerare la resa dell'Italia. Manca una lista esatta della spesa, tuttavia pare che le carte non riguardassero soltanto la Sicilia, ma anche la dislocazione dell'aviazione tedesca nel Mediterraneo e gli ordini riservati per le divisioni della Wehrmacht nella penisola. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.204-205)
Gli statunitensi lamentarono parecchie perdite e s'invelenirono per l'inaspettata resistenza. Catturati 36 soldati italiani, alcuni dei quali in abiti civili, il capitano John Compton, comandante della compagnia C, ordinò di fucilarli immediatamente. Era soltanto l'inizio della mattanza ignorata per oltre mezzo secolo in Italia e ricostruita da Ezio Costanze in Sicilia 1943. Altri 48 prigionieri, 3 dei quali tedeschi, erano nelle mani della compagnia A. Il sergente Horace West doveva scortare 37 italiani nelle retrovie, affinché fossero interrogati, invece li fece schierare lungo un fosso, s'impossessò di un fucile mitragliatore Thompson e aprì il fuoco. Ne caddero 36, uno provò a fuggire e fu abbattuto da un caporale, dietro preciso ordine di West. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.236-237)
Talune foto, talune sequenze dei Combat-Film sono strazianti. Su un lato della strada colonne di prigionieri italiani assistono sbigottiti all'esultanza con cui vengono accolti i nemici contro i quali hanno combattuto fino a pochi minuti prima. L'incessante opera di proselitismo svolta dagli agenti del Naval Intelligence e della 'sezione Italia' dell'OSS dette da subito risultati eccellenti. Alfieri, Titolo, Corvo, Fiorilla ricevettero l'appoggio dei capibastone, dei latifondisti, della borghesia. Da questi contatti germinò l'idea di concedere un veloce ritorno a casa a tutti i soldati siciliani che avessero disertato o si fossero arresi. Quelli dell'OSS ne parlarono a Bradley. Il freddo Omar colse al volo i tanti aspetti positivi del progetto. Gli americani avevano già 22.000 prigionieri italiani e non sapevano che cosa farne e dove metterli. Un quarto di questi erano locali, Bradley disse ai suoi che il miglior impiego sarebbe stato di mandarli a raccogliere il grano, la frutta, l'uva, le olive in modo da non far pesare integralmente sull'intendenza USA il compito di sfamare la popolazione. Così, all'insaputa dello stesso Patton, prese il via l'operazione che avrebbe alla fine liberato quasi 35.000 soldati siciliani e che accelerò lo sfaldamento delle divisioni di Guzzoni. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.240)
In quelle lande desolate i mafiosi assunsero il compito che era stato delle guide indiane nella colonizzazione del selvaggio West. Aprivano la strada in tutti i sensi. Nei centri del Vallone, a Villalba, Mussomeli, a Valledolmo, a Vallelunga, a Montedoro i reparti dell'esercito consegnarono le armi direttamente nelle mani dei boss. La campagna d'arruolamento dell'OSS procedette spedita. Corvo e Scamporino avevano in pochissimi giorni ricreato e spedito in mare i pescherecci. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.243)
Dal molo della città partì una squadra della 'sezione Italia'. I ragazzi di Scamporino e Corvo avevano una delicata missione da compiere. Liberare nell'isola di Favignana il centinaio di mafiosi che il regime aveva rinchiuso. Una delle tante operazioni sotterranee, su cui si è sempre preferito tacere. Probabilmente faceva parte del patto stipulato fra l'OSS, i Bravi Ragazzi di Luciano e la mafia siciliana. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.248)
Il 27 luglio era stato designato sindaco di Villalba Calogero Vizzini: il tenente Beher del Civil Affair aveva dovuto scandire l'atto di nomina a voce alta per venire incontro alla difficoltà del neo sindaco con la lettura di vocali e consonanti. Don Calò raccontava agli estimatori che nella lieta circostanza era anche avvenuto il suo arruolamento nell'esercito USA con il grado di colonnello ad honorem. A Vizzini e ai suoi Bravi Ragazzi era stato concesso il porto d'armi per difendersi dai fascisti, che, poveracci, non li avevano infastiditi neppure quando detenevano il potere. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.285)
Giuseppe Genco Russo ebbe la sovrintendenza dell'ente comunale di assistenza di Mussomeli. A Montedoro i rappresentanti dell'AMG si presentarono dal medico condotto, Calogero Volpe, stupendosi di vederlo pure d'estate con una coppola nera: sapevano che senza il suo assenso era difficile persino che venisse impastato il pane. […] A Villabate l'OSS arruolò Giuseppe Cottone jr, figlio del rispettato 'capofamiglia' Giuseppe sr. Max Mugnaini, che tra le due guerre si era conquistato la fama di principale trafficante internazionale di stupefacenti ed era ricercato da una dozzina di polizie, ebbe in consegna il deposito dei medicinali della 7a armata: la morfina andò letteralmente a ruba. D'altronde su Palermo cominciava a gravitare Vito Genovese. Per la giustizia statunitense era un latitante con a carico un processo per omicidio e la possibile condanna alla sedia elettrica. Eppure entrò nella cerchia degli intimi di Poletti, lo arruolarono e gli misero indosso una divisa militare. (da 'Arrivano i nostri - 10 luglio 1943: gli Alleati sbarcano in Sicilia', pag.286)
estratto dal sito web http://www.controstoria.it/guerra-civile.html
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