http://web.tiscalinet.it/augustus/ossvolan.htm
Il gruppo terroristico denominato Volante Rossa agì a Milano lungo un arco di tempo di quasi quattro anni, dall'estate del 1945 al febbraio del 1949.
Fu costituito ad opera di partigiani comunisti provenienti dalle Brigate garibaldine 116a, 117a e 118a.
Il suo fondatore e capo fu Giulio Paggio, originario di Saronno, nome di battaglia Alvaro.
Nonostante il grande scalpore che le azioni di tale formazione terroristica fecero, e di cui parleremo, su di essa in questi cinquant'anni è calata una cortina di silenzio, rotta soltanto nel 1977 da un saggio di Cesare Bermani pubblicato sulla rivista "Primo Maggio" e nel maggio 1996 da un libro di Carlo Guerriero e Fausto Rondinelli edito da Datanews dal titolo "La Volante Rossa".
Si tratta di due saggi opera di autori di sinistra, ampiamente giustificazionisti, ai quali peraltro va riconosciuto il merito di aver rotto un vero e proprio muro di omertà che il Partito Comunista prima e il PDS poi avevano elevato intorno a questa scomoda ed ingombrante storia.
In particolare il secondo saggio ha una strana intonazione: troppo fazioso per apparire come una sera ricostruzione storica, troppo obiettivo per essere considerato solo un'opera apologetica.
Descrive ed enumera i delitti, indifendibili, commessi dagli aderenti alla Volante Rossa, ma si conclude con queste parole: "Nei decenni successivi il ricordo della formazione di ex partigiani milanesi era destinato a riaffiorare ogni volta che mobilitazioni antifasciste ed operaie tornavano a far salire la tensione nelle aree industriali del nord: segno evidente che il valore, anche leggendario, che quella lontana esperienza di lotta aveva assunto non era stato affatto intaccato né dalle strumentalizzazioni né dalla rimozione operata nei suoi confronti da parte del PCI." (Evidenziazione nostra).
Deve destare preoccupazione il fatto che nel 1996 vi sia ancora qualcuno che attribuisca ai crimini della Volante Rossa un valore, anche leggendario
Ma vediamo quali furono questi crimini, quasi tutti commessi a Milano.
gennaio 1947 - Omicidio di Eva Macciacchini e di Brunilde Tanzi, simpatizzanti di movimenti di destra.
14 marzo 1947 - Omicidio del giornalista Franco De Agazio, direttore della rivista "Meridiano d'Italia".
16 giugno 1947 - Assalto ad un bar di via Pacini 32, ritenuto luogo di ritrovo di simpatizzanti di destra, a colpi di sassi e di pistola.
6 luglio 1947 - Attentato contro l'abitazione di Fulvio Mazzetti, simpatizzante di destra, in Corso Lodi 33. La bomba a mano lanciata contro l'abitazione rimbalza contro una zanzariera e ricade in strada, ove ferisce uno degli attentatori, Mario Gandini. L'altro si chiama Walter Veneri.
10 luglio 1947 - Attentato contro la sede del settimanale missino "Rivolta Ideale". Qui una quarantina di persone erano radunate per ascoltare una conferenza del professor Achille Cruciani. Due terroristi lanciarono una bomba nella sala con la miccia già accesa. Uno dei presenti la raccolse e la lanciò giù dalla finestra, ove esplose danneggiando il palazzo di via Agnello 10 e tre automobili.
27 luglio 1947 - Un ordigno al plastico viene collocato all'interno di un cinema nel quale il professor Cruciani doveva tenere un'altra conferenza. La polizia lo ritrova prima che esploda.
11 ottobre 1947 - Assalto alla sede del M.S.I. di via Santa Radegonda, che viene devastata. Numerosi missini presenti vengono feriti.
29 ottobre 1947 - Al termine di una manifestazione indetta dalla Camera del Lavoro, viene assalita e distrutta la sede della rivista "Meridiano d'Italia".
4 novembre 1947 - Omicidio di Ferruccio Gatti, responsabile milanese del M.S.I., nella sua abitazione, in viale Gian Galeazzo 20.
4 novembre 1947 - Tentato omicidio di Antonio Marchelli, segretario della sezione del M.S.I. di Lambrate.
5 novembre 1947 - Omicidio, a Sesto San Giovanni, di Michele Petruccelli, aderente al Movimento "Uomo Qualunque".
12 novembre 1947 - Assalto alle sedi dell'Uomo Qualunque in Corso Italia, del M.S.I. in via Santa Radegonda e della rivista "Meridiano d'Italia".
13 novembre 1947 - A bordo di tre camion i terroristi della Volante Rossa si recano in via Monte Grappa e devastano la sede del Movimento Nazionale Democrazia Sociale.
14 novembre 1947 - Irruzione nella sede del Partito Liberale Italiano in corso Venezia.
27 novembre 1947 - Assalto alla Prefettura di Milano, insieme a centinaia di manifestanti che protestavano contro la sostituzione del Prefetto Troilo. Nella stessa giornata viene assalita la sede del M.S.I. e quella della RAI in corso Sempione.
6 dicembre 1947 - Aggressione ad una guardia giurata della Breda, a Sesto San Giovanni.
12 dicembre 1947 - Sequestro dell'ingegner Italo Tofanello, dirigente delle Acciaierie Falck, in via Natale Battaglia 29. Condotto in Piazza Duomo l'ingegnere viene costretto a spogliarsi e quindi viene rilasciato senza vestiti.
10 aprile 1948 - Disordini durante un comizio del M.S.I. in piazza Belgioioso.
25 aprile 1948 - Disordini durante una manifestazione non autorizzata a piazzale Loreto.
15 luglio 1948 - Scontri con le Forze dell'Ordine durante l'occupazione degli stabilimenti Bezzi e Motta.
13 ottobre 1948 - Aggressione ad alcuni dirigenti della Breda.
27 gennaio 1949 - Omicidio di Felice Ghisalberti in via Lomazzo e del dottor Leonardo Massaza in piazza Leonardo da Vinci, ritenuti entrambi simpatizzanti di destra.
L'elenco di questi crimini naturalmente rappresenta in modo assai sommario la vera attività della Volante Rossa. Si tratta degli episodi sicuramente attribuibili a questa formazione, mentre non compare una quantità di altre azioni che in quegli anni turbolenti furono commesse da estremisti di sinistra, quasi sicuramente appartenenti alla Volante Rossa, ma di cui non abbiamo documentazione certa.
Circa l'epilogo del gruppo terroristico, nel 1951 fu celebrato il processo contro 32 membri della Volante Rossa, di cui 27 in carcere e 5 latitanti.
I condannati furono 23, di cui 4 all'ergastolo.
Dei 5 latitanti 3 sfuggirono all'arresto grazie all'aiuto del P.C.I. che li fece espatriare oltrecortina: Giulio Paggio e Paolo Finardi in Cecoslovacchia e Natale Burato in Unione Sovietica.
Il 26 ottobre 1978 il neo-eletto Presidente della Repubblica Sandro Pertini firma il decreto di grazia per i 3 terroristi rifugiati all'estero.
Ed ecco un elenco, ampiamente incompleto, degli appartenenti alla Volante Rossa:
- Otello Alterchi (Otelin), elettricista, classe 1928;
- Felice Arnè, nome di battaglia Ciro, operaio, classe 1930;
- Giordano Biadigo (Tom), operaio, classe 1929;
- Bruno Bonasio, elettricista, classe 1926;
- Primo Borghini, custode della Casa del Popolo di Lambrate, classe 1920;
- Mario Bosetti, classe 1926;
- Natale Burato;
- Luigi Canepari (Pipa), meccanico, classe 1925;
- Camillo Cassis, idraulico, classe 1925;
- Ennio Cattaneo, elettricista, classe 1930;
- Domenico Cavuoto (Menguc), barista, classe 1930;
- Giulio Cimpellin (Ciro), meccanico, classe 1920;
- Ferdinando Clerici (Balilla), operaio, classe 1928;
- Luigi Comini (Luisott), fotografo, classe 1925;
- Walter Fasoli (Walter), disoccupato, classe 1917;
- Paolo Finardi;
- Mario Gandini;
- Pietro Iani (Iani), idraulico, classe 1926;
- Giacomo Lotteri (Loteri), meccanico, classe 1920;
- Angelo Maria Magni, elettricista, classe 1926;
- Sante Marchesi (Santino), radiotecnico, classe 1926;
- Antonio Minafra (Missaglia), classe 1919;
- Enrico Mondani, tipografo e segretario della sezione Lambrate del P.C.I., classe 1925;
- Mario Mondani, meccanico, classe 1927;
- Giulio Paggio (Alvaro);
- Ettore Patrioli (Iaia), meccanico, classe 1926;
- Carlo Reina, conciatore, classe 1926;
- Emilio Tosato (Lietù), elettricista, classe 1929;
- Ferruccio Tosi (Casso), elettricista, classe 1929;
- Eligio Trincheri;
- Angelo Vecchio (Tarzan), operaio, classe 1925;
- Dante Vecchio (Tino), meccanico, classe 1917;
- Walter Veneri;
- Italo Zonato (Italo), meccanico, classe 1925;
secondo la versione riportata sul sito http://www.scuolascacchi.com/storia_novecento/la_volante_rossa.htm con l'articolo
La Volante Rossa – Milano 1946-1949
(di Walter Ravagnati)
"… e 7 e 7 e 7 fanno ventuno,arriva la Volante non c’è nessuno".
La canzone di Ornella Vanoni ricorda in modo un po’ beffardo il primo numero telefonico d’emergenza creato dalle forze dell’ordine a Milano nell’immediato dopoguerra. Il 777 faceva intervenire la "squadra Volante", una pattuglia di agenti montati su automezzi provenienti dai surplus degli eserciti alleati, strumento che si racconta essere stato organizzato dal mitico funzionario della polizia milanese Mario Nardone, Commissario e poi Questore, noto anche per essere stato protagonista della risoluzione dei casi di cronaca nera di Rina Fort e della rapina di via Osoppo.
Era una Milano violenta
La banda Bezzi-Barbieri era solo una delle formazioni malavitose generate dallo sbandamento della guerra. Ma, naturalmente, non era solo la malavita a minacciare l’ordine pubblico in una società che era appena uscita dal trauma della guerra sovrapposto con quello ancor più grave della guerra civile.
Chi tutelava l’ordine pubblico? La polizia era polizia dello stato, polizia politica o polizia dei cittadini? Braccio armato del potere o organo statuale garante dei diritti? L'inizio fu difficile perché l’Italia repubblicana dovette fare i conti con la continuità pressoché integrale della polizia fascista, e bisogna peraltro sottolineare che fece pochissimo per alleggerire quell’eredità.
Al termine dei processi celebrati nei primi tre mesi dopo la Liberazione vi furono appena tre poliziotti "dispensati dal servizio", ossia espulsi, e la percentuale degli epurati venne mantenuta sempre bassa nella convinzione che il coinvolgimento con il regime fosse stato generale e si dovessero da colpire soltanto i casi più eclatanti per non smobilitare l’intero corpo.
Ancora più significativa risultò la mancata revisione del Testo unico di Pubblica Sicurezza come se una democrazia potesse avvalersi indifferentemente delle regole usate da una dittatura.
D.C. e P.C.I., forzati alleati di governo, avevano prospettive diverse e non riuscirono a mettersi d’accordo, sperando ciascun partito di poter riscrivere più tardi il Testo a proprio piacimento. Modello di polizia, dunque, immutato: centralizzata, militarizzata, con ampio margine discrezionale sul campo.
La concezione autoritaria del fascismo andava oltre l’ordine pubblico materiale per puntare a quello ideale, inteso come omogeneizzazione del pluralismo a determinati valori.
Vi è anche da dire, per contro, che vi era stato un certo travaso di ex-partigiani direttamente dalle brigate Garibaldi alle forze di Questura e ciò controbilanciava in parte la situazione descritta a favore delle forze vincitrici, ma i quadri operativi rimanevano quelli della gestione politica precedente.
In un quadro come questo, le forze di polizia non potevano che essere viste, dai partigiani smobilitati e dalle forze di sinistra, come frange dello stato fascista sopravissute alla sua dissoluzione e, quindi, come nemiche di classe ed anche nemiche sul campo.
Quanto meno la polizia era vista con sospetto e timore da chi non voleva saperne di restituire le armi. Infatti, uno dei grandi problemi che le forze dell’ordine dovevano affrontare era la smobilitazione ed il riassorbimento dei componenti delle formazioni/bande partigiane, di cui la riconsegna delle armi che erano servite in montagna (ed anche in pianura, vedi il caso dei GAP che agivano in ambiente urbano) era un passaggio cardine inevaso.
I casi più difficili erano, ovviamente, quelli delle formazioni più politicizzate; quelle che, insoddisfatte della situazione venutasi a creare, tentavano di mantenere una loro organizzazione ed equipaggiamento in vista della "seconda ondata" che, a loro vedere, non poteva che essere vicina così come sembrava vicina l’alba del "sole dell’avvenire".
Ciò, principalmente, valeva per le formazioni comuniste delle Brigate Garibaldi. Nel P.C.I. milanese, in particolare, prevalevano istanze fortemente estremistiche, che contestavano la svolta legalitaria di Salerno impressa da Togliatti e, in fondo, con la stessa politica di unità delle forze resistenziali all’interno dell’esperienza del C.L.N. del primo dopoguerra. Gli organi dirigenti locali del P.C.I. praticavano una politica di odio di classe, condita con una incredibile violenza verbale nei confronti degli avversari.
Una tale linea praticata dai dirigenti non poteva che portare il comportamento di gregari e fiancheggiatori a logiche conseguenze, soprattutto laddove esistevano ancora quadri ed organizzazioni di tipo partigiano in armi che avevano mantenuto l’inquadramento bellico spesso dissimulato sotto le mentite spoglie di pacifiche associazioni culturali-ricreative viventi sotto l’egida delle organizzazioni collaterali del partito comunista, a loro volta spesso ospitate nelle ex case del fascio occupate nei giorni della liberazione e trasformate in "case del popolo". Erano, nella migliore delle ipotesi, comportamenti al confine dell’eversione, pronti a sfociare nell’eversione stessa, quando di fatto non la praticavano.
La Volante rossa
Emblematico è il caso della cosiddetta "Volante Rossa", oggetto del presente lavoro. Nel nome essa richiama l’odiata "squadra Volante" della questura di Milano, probabilmente il gruppo operativo più efficiente nel campo del mantenimento dell’ordine pubblico e di contrasto alla malavita.
Già nella scelta del nome, essa sembra voler essere contemporaneamente il contraltare di classe delle forze statuali e il simbolo di classe della rapidità, ineluttabilità ed efficienza della giustizia proletaria che intende rappresentare. E deve aver anche rappresentato un simbolo largamente imitato, tant’è che si trova traccia di "squadre volanti", dissimulate o meno da associazioni ricreative, in almeno un paio di racconti di Guareschi, e in tanti casi di vendette o di fatti di sangue degli anni successivi alla liberazione in molte zone dell’Italia settentrionale, che sono spesso addebitate a più o meno reali "Volanti Rosse".
Il gruppo terroristico denominato "Volante Rossa", o più propriamente "Volante Rossa Martiri Partigiani", agì a Milano lungo un arco di tempo di quasi quattro anni, dall’estate del 1945 al febbraio del 1949 e fu costituito ad opera di partigiani comunisti provenienti dalle Brigate Garibaldi 116a, 117a e 118a. La maggior parte degli aderenti alla Volante Rossa proveniva dal P.C.I. con qualche minima adesione di alcuni ex partigiani del P.S.I..
Spaventose violenze
Con sede nei locali della ex Casa del Fascio di Lambrate in via Conte Rosso 12, trasformata in Casa del Popolo dopo la Liberazione, la Volante Rossa Martiri Partigiani era formata per lo più da giovani di estrazione proletaria decisi a chiudere i conti della rivoluzione comunista aperti con la guerra civile e tali rimasti dopo il 25 aprile, in attesa che il Partito ordinasse la "seconda ondata" della cui imminenza ciascuno di costoro credeva ciecamente.
Comandata dal "tenente Alvaro" (al secolo Giulio Paggio, originario di Saronno e di professione guardia giurata all’Innocenti di Lambrate) la Volante Rossa mascherò così per quattro anni (1945-1949), dietro il paravento di un innocuo circolo ricreativo-culturale che si sosteneva ufficialmente eseguendo trasporti conto terzi (di giorno), una serie spaventosa di violenze che insanguinarono Milano e dintorni.
Era un’associazione che svolgeva un’attività apertamente fiancheggiatrice dell’attività politico sindacale del P.C.I. locale, essendo spesso stata impiegata nei servizi d’ordine durante le manifestazioni. Ma sia l’attività ricreativo-culturale sia quella più propriamente di servizio politico coprivano una ben più grave realtà: violenza nei confronti di coloro che erano considerati nemici politici e di classe oltre che di coloro che si erano a vario titolo compromessi col passato regime.
Ma vediamo quali furono questi crimini, quasi tutti commessi a Milano o, comunque, nelle immediate vicinanze.
17 gennaio 1947 - Omicidio di Eva Macciacchini e di Brunilde Tanzi, simpatizzanti di movimenti di destra.
14 marzo 1947 - Omicidio sulla porta di casa in via Strambio del giornalista Franco De Agazio, direttore della rivista "Meridiano d'Italia"
16 giugno 1947 - Assalto ad un bar di via Pacini 32, ritenuto luogo di ritrovo di simpatizzanti di destra, a colpi di sassi e di pistola.
6 luglio 1947 - Attentato contro l'abitazione di Fulvio Mazzetti, simpatizzante di destra, in Corso Lodi 33. La bomba a mano lanciata contro l’abitazione rimbalza contro una zanzariera e ricade in strada, ove ferisce uno degli attentatori, Mario Gandini. L’altro si chiama Walter Veneri.
10 luglio 1947 - Attentato contro la sede del settimanale missino "Rivolta Ideale". Qui una quarantina di persone erano radunate per ascoltare una conferenza del professor Achille Cruciani. Due terroristi lanciarono una bomba nella sala con la miccia già accesa. Uno dei presenti la raccolse e la lanciò giù dalla finestra, ove esplose danneggiando il palazzo di via Agnello 10 e tre automobili.
27 luglio 1947 - Un ordigno al plastico viene collocato all’interno di un cinema nel quale il professor Cruciani doveva tenere un’altra conferenza. La polizia lo ritrova prima che esploda.
11 ottobre 1947 - Assalto alla sede del M.S.I. di via Santa Radegonda, che viene devastata. Numerosi missini presenti vengono feriti.
29 ottobre 1947 - Al termine di una manifestazione indetta dalla Camera del Lavoro, viene assalita e distrutta la sede della rivista "Meridiano d’Italia".
4 novembre 1947 - Omicidio di Ferruccio Gatti, ex generale della Milizia responsabile milanese del M.S.I., nella sua abitazione, in viale Gian Galeazzo 20.
4 novembre 1947 - Tentato omicidio di Antonio Marchelli, segretario della sezione del M.S.I. di Lambrate.
5 novembre 1947 - Omicidio, a Sesto San Giovanni, di Michele Petruccelli, aderente al movimento Uomo Qualunque".
12 novembre 1947 - Assalto alle sedi dell’Uomo Qualunque in Corso Italia, del M.S.I. in via Santa Radegonda e della rivista "Meridiano d’Italia".
13 novembre 1947 - A bordo di tre camion i terroristi della Volante Rossa si recano in via Monte Grappa e devastano la sede del Movimento Nazionale Democrazia Sociale.
14 novembre 1947 - Irruzione nella sede del Partito Liberale Italiano in corso Venezia.
27 novembre 1947 - Assalto alla Prefettura di Milano, insieme a centinaia di manifestanti che protestavano contro la sostituzione del Prefetto Troilo. Nella stessa giornata viene assalita la sede del M.S.I. e quella della RAI in corso Sempione.
6 dicembre 1947 - Aggressione ad una guardia giurata della Breda, a Sesto San Giovanni.
12 dicembre 1947 - Sequestro dell’ingegner Italo Tofanello, dirigente delle Acciaierie Falck, in via Natale Battaglia 29. Condotto in Piazza Duomo l’ingegnere viene costretto a spogliarsi e quindi viene rilasciato senza vestiti.
10 aprile 1948 - Disordini durante un comizio del M.S.I. in piazza Belgioioso.
25 aprile 1948 - Disordini durante una manifestazione non autorizzata a piazzale Loreto.
15 luglio 1948 - Scontri con le Forze dell’Ordine durante l’'occupazione degli stabilimenti Bezzi e Motta.
13 ottobre 1948 - Aggressione ad alcuni dirigenti della Breda.
27 gennaio 1949 - Omicidio di Felice Ghisalberti in via Lomazzo, figlio di un ex maresciallo dei carabinieri che aveva preso parte all’uccisione di Eugenio Curiel, e del dottor Leonardo Massaza in piazza Leonardo da Vinci, ritenuti entrambi simpatizzanti di destra.
L’elenco di questi crimini rappresenta, naturalmente in modo assai sommario, la vera attività della Volante Rossa. Si tratta degli episodi sicuramente attribuibili a questa formazione, mentre non compaiono numerose altre azioni che in quegli anni turbolenti furono certamente commesse da estremisti di sinistra, a loro volta quasi sicuramente appartenenti alla Volante Rossa, ma di cui non esiste attribuzione certa.
Sul caso dei disordini seguiti alla rimozione del prefetto politico Ettore Troilo, nominato dal C.N.L. e rimosso dal governo dopo che si era dissolta la solidarietà delle forze che avevano portato l’Italia alla Liberazione, c’è una ricostruzione di Sergio Romano a pagina 45 Corriere della Sera del 4 gennaio 2008.
MILANO 1947: IL CASO TROILO FINISCE L'ERA DEL C.L.N.
Ettore Troilo era un avvocato abruzzese, socialista, amico di Turati e Matteotti, milanese d’adozione e, dopo l’8 settembre 1943, comandante di una formazione partigiana, la Brigata Maiella, che aveva combattuto con gli Alleati. Fu nominato prefetto di Milano nel 1946 quando molte cariche pubbliche venivano assegnate e distribuite nella logica del Comitato di Liberazione Nazionale. Ma l’epoca del C.L.N. si chiuse nella primavera dell’anno seguente quando De Gasperi si dimise e costituì un nuovo governo composto soltanto da democristiani, liberali (fra cui Luigi Einaudi al Tesoro) e indipendenti (fra cui Carlo Sforza agli Esteri e Cesare Merzagora al Commercio con l’estero). Lo stesso De Gasperi, nelle settimane precedenti, aveva preparato la svolta sostenendo che l’accordo fra i tre maggiori partiti (D.C., P.S.I. e P.C.I.) non era più adatto a gestire politicamente ed economicamente la fase della ricostruzione.
L’estromissione dei comunisti e dei socialisti aprì una delle fasi più delicate e rischiose nella storia del dopoguerra. Quale sarebbe stata la loro reazione? Avrebbero accettato il ruolo di oppositori democratici o avrebbero tentato la conquista del potere? La prova di forza ebbe luogo quando il Ministro degli Interni Mario Scelba, d’intesa con De Gasperi, decise che era giunto il momento di sostituire il prefetto socialista di Milano con un funzionario dello Stato. Giancarlo Pajetta, responsabile comunista per la Lombardia, decise che era giunto il momento di agire. Mobilitò il "parapartito", come lo definisce Giorgio Bocca nella sua biografia di Togliatti, e sbarcò in prefettura alla testa di uomini "apparentemente disarmati, ma con mitra e rivoltelle pronti nei camion o tenuti sotto i pastrani e le giacche a vento".
Di ciò che accadde nelle ore seguenti in Corso Monforte, esistono alcuni resoconti, fra cui quello di Mario Cervi, cronista del Corriere, che riuscì a entrare nello studio del prefetto e assistette ai concitati scambi di vedute fra i protagonisti della spedizione. Sappiamo che Troilo collaborò di fatto con gli occupanti. Sappiamo che alcuni sindaci lombardi, fra cui Antonio Greppi a Milano, si dimisero in segno di solidarietà con l’uomo del CLN. E sappiamo infine che Pajetta, sicuro di avere vinto la partita, fece alcune spavalde telefonate a Roma fra cui una al sottosegretario democristiano Achille Marazza nel corso della quale disse: "Caro Marazza, dì pure a Scelba che da oggi ha una prefettura in meno". Ma il "ragazzo rosso", come Pajetta veniva chiamato negli anni della gioventù, si scontrò con la fermezza di Scelba, deciso a non cedere, e la prudenza di Togliatti. Nella loro "Italia del Novecento", Indro Montanelli e Cervi scrivono che il leader del P.C.I., quando Pajetta gli comunicò la presa della prefettura, rispose gelidamente: "Bravi, e cosa intendete farne?". Bocca aggiunge che Togliatti, dopo essersi arrabbiato, ricorse all’arma dell’ironia chiedendo a Pajetta, quando aveva l’occasione d’incontrarlo: "Come va la rivoluzione?". Così finì, senza spargimento di sangue, il caso Troilo. Oggi sappiamo che una diversa soluzione avrebbe probabilmente cambiato il corso della storia d’Italia.
Romano Sergio
La vicenda si concluse dopo che, con le elezioni del 18 1prile 1948, essendo evidente che il Partito Comunista le aveva perse e che non si profilava la possibilità di conquistare il potere con la forza – cosa peraltro confermata dall’atteggiamento prudente di Togliatti dopo l’attentato che dovette subire dallo studente Pallante a Roma il 14 luglio successivo, che avrebbe costituito il pretesto e l’occasione ideale per un tentativo rivoluzionario - l’organizzazione perse molta della sua importanza ma non cessò l’attività.
Ma l’anno successivo, dopo che alcuni membri furono tratti in arresto, l’attività dell’organizzazione cessò definitivamente.
Il partito comunista, che li aveva a lungo sostenuti, li rinnegò: i vertici furono aiutati a fuggire in paesi al di là della "Cortina di ferro", mentre diversi altri appartenenti al gruppo furono abbandonati al proprio destino. Palmiro Togliatti, a proposito dell’omicidio dei due industriali firmato da una "presunta Volante Rossa", li scaricò definendo le loro azioni di "tipo terroristico", e concluse:
"Condanniamo e respingiamo nel modo più energico gli atti di terrore, veicolo fra l’altro, di delinquenza comune e di provocazione ma, in pari tempo, vogliamo capire su quale terreno questi atti maturano, perché essi sono sintomo sempre o quasi sempre, di situazioni gravi, di squilibri politici e sociali, su cui a lungo non ci si regge".
A sua volta, Mario Scelba, allora Ministro degli Interni, accusò apertamente il P.C.I. di "collusione" con la banda della Volante Rossa: intervenendo alla Camera il 25 febbraio 1949 sul caso in questione, affermò: "Io non desidero anticipare quale sarà il processo ma posso dire che abbiamo le prove documentate che il mandante e l’organizzatore dei delitti di Milano, il cosiddetto ‘Alvaro’, capo della Volante rossa, era il capo dei servizi di sicurezza della federazione comunista di Milano".
Il processo si svolse presso il tribunale di Verona, e si concluse il 21 febbraio 1951. A carico dei componenti della Volante Rossa, vennero comminate le seguenti condanne:
Giulio Paggio ("Alvaro"), latitante, venne condannato all’ergastolo;
Luigi Comini ("Luisott"), a otto anni di reclusione;
Giordano Biadigo ("Tom"), a trent’anni;
Mauro Bosetti ("Maurino"), già latitante in Cecoslovacchia e successivamente nel 1958 costituitosi ai carabinieri di Milano, venne condannato a quattro anni;
Natale Burato ("Lino"), latitante prima in Cecoslovacchia, poi in Russia, fu condannato all’ergastolo;
Paolo Finardi ("Pasticca"), latitante in Cecoslovacchia, condannato all’ergastolo; Sante Marchesi ("Santino"), condannato a nove anni e quattro mesi;
Primo Borghini, condannato a cinque anni e otto mesi;
Eligio Trincheri ("Marco"), condannato all’ergastolo;
Luigi Lo Savio, condannato a nove anni e quattro mesi.
Gli altri imputati furono condannati a pene varianti fra i due anni e otto mesi ed un anno e sei mesi.
Un calcolo preciso di quante furono le azioni della Volante rossa non è possibile, ma sicuramente esse furono molte e inevitabilmente quasi tutte cruente. Nel 1952 il Ministro dell’Interno Mario Scelba in Parlamento parlò di oltre settanta omicidi commessi dalla Volante Rossa oltre a centinaia di altre azioni, quali attentati dinamitardi, incendiari, e intimidazioni verso persone accusate di collusione con il vecchio regime.
Recentemente la vicenda è stata oggetto di una certa attenzione, con pubblicazione di articoli e monografie di cui fornisco una piccola scelta.
1951, Alla sbarra l’incubo della Volante Rossa
di Franco Tettamanti
Anni di sangue, di giustizie sommarie, di odio, di agguati, di vecchi conti da saldare. Milano con le ferite aperte. La guerra appena finita che resta un incubo. La ricostruzione delle case, della democrazia e degli animi. Milano di quelli che non abbandonano le armi. Decisi a proseguire la loro lotta di Liberazione e di rivoluzione. Quelli della Volante Rossa, ex partigiani comunisti, soprattutto operai. Si ritrovano nell’ex Casa del Fascio di Lambrate, in via Conte Rosso al 12, trasformata in Casa del Popolo. Si mischiano con le centinaia di persone che frequentano il circolo ricreativo. A guidare l’organizzazione clandestina è Giulio Paggio, nome di battaglia Alvaro, ex partigiano della Brigata Garibaldi. La storia della Volante Rossa è fatta di attentati ed esecuzioni (il numero totale delle vittime è sconosciuto) ai danni di persone legate al passato regime, di politici giudicati ostili al partito comunista o di dirigenti di fabbrica ritenuti, a torto o a ragione, responsabili di vessazioni nei confronti degli operai. Il 17 gennaio del 1947 vengono assassinate Brunilde Tanzi ed Eva Macciachini, attiviste di destra. Il 21 marzo è la volta di Franco De Agazio, direttore del nostalgico Il Meridiano d’Italia. Il 4 di novembre viene ferito gravemente il generale Ferruccio Gatti, che morirà in ospedale il 13 dicembre. Il giorno successivo a Sesto San Giovanni viene assassinato Michele Petruccelli, dell’Uomo Qualunque. Il 27 novembre la Volante Rossa sarà in prima fila durante l’occupazione armata della prefettura di Milano. Una scia di sangue che arriva al 1949 quando viene assassinato Felice Ghisalberti, figlio di un ex maresciallo dei carabinieri che aveva preso parte all’uccisione di Eugenio Curiel. È febbraio quando diversi membri dell’organizzazione paramilitare finiscono in manette. La Volante Rossa svanisce nel nulla. Molti riescono a fuggire all’estero. Nel 1951 il processo con 32 imputati (cinque sono latitanti) che termina con 23 condanne di cui quattro all’ergastolo. Giulio Paggio, Paolo Finardi e Natale Buratto, condannati all’ergastolo, riusciranno a riparare in Cecoslovacchia e Unione Sovietica. Saranno graziati nel 1978 dal presidente Pertini. Eligio Trincheri resterà in prigione sino al 1971, quando sarà graziato dal presidente Saragat.
Franco Tettamanti
(4 giugno 2008 Pagina 9) - Corriere della Sera
Vi racconto cos’era la Volante Rossa
di Tonino Bucci su Liberazione del 22/02/2009
Ho avuto una grave condanna, in passato.
La voce, tranquilla e bonaria, è quella di un anziano signore. Si conoscono per caso al telefono, lui - l'anziano signore - si chiama Paolo Finardi, mentre dall’altra parte del cavo c'è Massimo Recchioni, responsabile dell’Anpi in Repubblica Ceca. Si incontrano dopo qualche giorno - siamo nel mese di marzo 2006 - al tavolo d’un caffè di Bratislava, "all’ombra dei platani".
"Così sono venuto a conoscenza della lunga e incredibile storia che vado a raccontare" e che di fatto Massimo Recchioni ha raccontato nel libro Ultimi fuochi di Resistenza. Storia di un combattente della Volante Rossa, pubblicato da Derive Approdi in uscita in questi giorni (con prefazione di Cesare Bermani, pp. 160, euro 14).
Andiamo con ordine. Paolo Finardi accetta di essere intervistato dopo aver taciuto per quasi sessant’anni. E’ un racconto in prima persona, senza note aggiuntive, a eccezione del saggio introduttivo di Cesare Bermani, il primo storico che ha ricostruito da sinistra la vicenda della Volante Rossa. Paolo Finardi, alias "Pasticca", comincia dalle origini, dal paese natio, Castel Rozzone e di quando tutta la famiglia, per sfuggire alle ritorsioni dei fascisti, si trasferisce a Milano.
Qui Paolo, poco più che quindicenne, manovale in una ditta di costruzioni, si avvicina alla Resistenza. Entra a far parte della 118ma Brigata Garibaldi. Porta in giro per la città messaggi nascosti nel sellino della bicicletta, fa il palo durante le azioni contro i tedeschi, fino a che non prende a partecipare in prima persona.
Il pensiero vola in particolare a Eugenio Curiel, fisico triestino, ebreo e comunista, chiamato a dirigere l’Unità clandestina e ucciso alla fine del febbraio 1945 in un agguato dai repubblichini.
Ricordo che fummo tutti scioccati da quella notizia. Era davvero una brava persona e incuteva coraggio a molti di noi, soprattutto ai più giovani.
All’assassinio di Eugenio Curiel, vedremo, saranno in qualche modo legate le scelte e le sorti personali di Paolo Finardi.
Dopo il 25 aprile si apre una fase di incertezza. Tra le diverse forze politiche che hanno animato la Resistenza si generano sospetti reciproci.
Non fummo i soli a non consegnare le armi. Ci arrivavano voci di gruppi di partigiani che se le erano tenute, e in molti casi si trattava di partigiani "bianchi". Se le avevano tenute, un motivo ci doveva pur essere. Ma sicuramente lo scopo per cui loro e noi ce le eravamo tenute non era lo stesso... Morale della favola, a eventuale difesa non consegnammo praticamente nulla.
Sono anni di intensa attività politica delle massa, scrive Cesare Bermani nel saggio introduttivo del libro. Le disposizioni dei partiti a riconsegnare le armi furono in grandissima parte disattese. La storiografia di sinistra è stata fin troppo subalterna, scrive Bermani, sulla Volante Rossa perché ha rinunciato a ricostruire la storia sociale di quegli anni.
Nel P.C.I. "non esisteva neanche una vera e propria alternativa organizzata alla linea di Salerno, ma vi era in esso un marcato atteggiamento di preoccupazione per quanto poteva accadere in quell'Europa del dopoguerra e nel Paese. C’era allora nell'aria il pericolo di un colpo di Stato monarchico, operavano squadre armate fasciste e qualunquiste, e, anzi, tutti i partiti, in parallelo all'organizzazione politica, disponevano di una struttura militare, non solo per difendersi dai fascisti ma anche perché l’ala conservatrice della Resistenza diffidava di azionisti, comunisti e socialisti, e viceversa".
Anche la D.C. incamera armi, quelle dei partigiani bianchi e quelle mandate dagli americani a ridosso delle elezioni del 18 aprile 1948.
Ma non c’è quella Gladio rossa di cui gli americani parlano già a partire dal 1946 e che servirà da alibi per la creazione dell'unica vera Gladio, la struttura occulta della Nato.
La posizione del P.C.I. - scrive ancora Bermani - in materia di armi può essere così sintetizzata: se la gente per conto proprio e spontaneamente vuole accantonare le armi sono faccende sue, inclusi i rischi che corre e non sono problemi di nessuna organizzazione di massa. E i depositi di armi non debbono avere niente a che vedere direttamente con l'azione politica e il comportamento politico ufficiale né del Partito comunista né delle varie organizzazioni di massa sorte attorno a lui.
Timore di colpi di stato monarchici, gruppi neofascisti in formazione, armi americane e un forte conflitto sociale, nella fattispecie all’interno delle fabbriche del nord. Questo è lo scenario in cui agisce la Volante Rossa. Ufficialmente è un circolo ricreativo-sportivo alla Casa del popolo di Lambrate dove si organizzano gare, balli ed escursioni.
Ma era anche la sede di un gruppo - torniamo al racconto di Paolo Finardi - che vigilava su quanto stava continuando a succedere anche in tempo di pace. Nei tribunali venivano interrogati molti fascisti, ma quasi tutti venivano rilasciati e si contavano sulla punta delle dita i casi in cui erano messe sotto processo personalità di spicco del regime. Ancora meno frequentemente ci si occupava di quelli che si stavano riorganizzando. Eppure lo facevano quasi alla luce del sole e noi li conoscevamo quasi tutti: sapevamo chi erano, dove si incontravano e spesso sapevamo anche quali erano i loro progetti.
La Volante Rossa intensifica le azioni nel 1947 mentre stanno nascendo i gruppi fascisti delle SAM (Squadre d’Azione Mussolini) e delle FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria), prodromi dell’MSI.
Nel gennaio del 1949 Finardi partecipa a un doppio agguato: nei confronti di Felice Ghisalberti, responsabile dell'uccisione di Eugenio Curiel, e di Leonardo Massaza, una vecchia spia dell’Ovra, la polizia segreta fascista.
Da questo momento la vita di Finardi cambia. La polizia stringe il cerchio intorno a lui. Non resta che la fuga all'estero, oltre cortina. Il partito si fa vivo nella veste di due funzionari che gli fanno un discorso che più chiaro non si può. "Il partito non è obbligato a darti una via d'uscita, chiaro?
Quindi, il partito ci pensa nonostante non abbia chiesto a voi della Volante Rossa di andare in giro a fare i giustizieri. Se qualcuno ti ha detto che c’era un livello di sicurezza non siamo stati certo noi!
Il partito sa che queste cose succedono ma non le organizza affatto, anzi non ne sa proprio un cazzo, e questo dovevi averlo chiaro fin dall'inizio".
L'alternativa alla fuga all’estero sarebbe il carcere. Paolo Finardi sceglie la Cecoslovacchia. Ci arriverà con un viaggio travagliato, prima attraverso le montagne verso la Svizzera, poi in Austria, infine a Praga. Qui incontrerà altri fuoriusciti per gli stessi motivi politici suoi, anche se in mezzo c'è qualcuno che ne ha approfittato per attuare vendette personali, "ma si riconoscevano subito". E’ un lungo dopoguerra. Finardi frequenta scuole di partito e si mette a fare i lavori più svariati, nelle cooperative agricole come in fabbrica. Trascorre anche un periodo nella Cuba rivoluzionaria di Fidel Castro e del Che. E’ testimone della Primavera di Praga.
Rivisitando gli episodi accaduti in quei mesi col senno di poi, mi resi conto che molti di quelli chevedevano in Dubcek un innovatore erano davvero comunisti. Ma allora le cose non erano affatto così chiare. C'erano presumibilmente forze reazionarie, e non solo interne, che strumentalizzavano gli eventi. Quella situazione, soprattutto se seguita da altre analoghe, minacciava di diventare una mina vagante, una spirale estremamente destabilizzante.
Così le truppe del Patto di Varsavia invasero il paese. Sta di fatto però che "ci accorgemmo che lo strappo tra dirigenza e masse popolari ormai si era consumato. E avremmo capito solo dopo che proprio quello fu l'inizio della parabola discendente del sistema socialista cecoslovacco".
La fine di questo esilio arriverà solo più tardi con l’elezione del partigiano Sandro Pertini a Presidente della Repubblica. Paolo Finardi ottiene la grazia. Proprio quando in Italia la lotta armata è all’apice. E qui si affaccia un altro mito, quello del filo rosso tra l’esperienza della Volante Rossa e la nascita delle BR. E’ vero che nel linguaggio delle Brigate rosse torna spesso il motivo della Resistenza interrotta o, di più, della Resistenza tradita, delle aspirazioni a una rivoluzione sociale che non arrivò mai e di cui la Volante Rossa è stata nel tempo trasformata in simbolo. Eppure alle orecchie di chi della Volante Rossa fece parte davvero l’analogia non funziona.
Dall'Italia - racconta ancora Paolo Finardi - ci arrivavano notizie a dir poco sconcertanti. Il paese si trovava immerso fino al collo in quelli che venivano definiti gli anni di piombo. Un clima irrespirabile, non da guerra di liberazione come era stato trent’anni prima. Infatti le condizioni storiche e politiche erano completamente diverse da allora. Noi eravamo nei luoghi di lavoro, lì avevamo le nostre basi, ci vivevamo, eravamo radicati nei quartieri, seduti a ogni muretto, presenti in ogni capannello, in tutte le fabbriche sorgeva il bisogno di trasformazione in senso socialista della società e del superamento delle classi. Invece, dal clima di lotte fratricide che si stavano consumando a trent’anni di distanza, la grande assente sembrava proprio essere la classe operaia.
Ma neppure corrisponde a vero nel racconto di Finardi la tesi dei contatti tra brigatisti, vecchi partigiani fuoriusciti e servizi segreti cecoslovacchi.
Io vivo qui dal 1949 e ho sempre mantenuto stretti rapporti con i compagni di Praga. Se ci fosse stata la presenza di brigatisti italiani per esercitazioni paramilitari beh... credo proprio che almeno uno, dico solo uno, tra i compagni più informati e meno scemi di noi se ne sarebbe sicuramente accorto, o comunque ne sarebbe venuto a conoscenza, di persona o anche solamente per sentito dire. E invece no. Nulla del genere.
Concludiamo con le stesse parole di Paolo Finardi: "Chissà, più di una volta ho pensato che se anche l’Italia avesse provato a fare i conti col suo passato con processi veri e condanne esemplari dei colpevoli, molto probabilmente molti di noi non avrebbero fatto le scelte che hanno fatto. Per quello che riguarda me, sono sicuro che non ci sarebbe stato questo Paolo Finardi se coloro che erano preposti avessero fatto giustizia".
Il manifesto
Domenica 3 Agosto 2008 pagina 18
L'ULTIMA INTERVISTA
Incontro con l’ottantenne Luigi Colombo, protagonista dell’organizzazione di ex-partigiani comunisti che dopo la Liberazione volle "continuare la Resistenza". Spaesato, s’interroga sul disastro, che non ha capito, del socialismo reale
VOLANTE ROSSA UN SOGNO NEL CASSETTO CHE ANDAVA OLTRE IL 25 APRILE
Di Massimo Recchioni
L’ORGANIZZAZIONE
Da Lambrate, periferia di Milano, al "riparo" in Cecoslovacchia.
La Volante Rossa era composta da ex partigiani comunisti e operai che ritenevano di proseguire la lotta della Resistenza.
Era guidata da Giulio Paggio, il "tenente Alvaro" della 118esima Brigata Garibaldi e l’apparato organizzativo discendeva dai GAP in armi fino al 25 aprile. Svolgeva funzioni di sostegno alle attività dei comunisti, del sindacato durante gli scioperi e le manifestazioni, con servizi d’ordine e protezione da forze dell’ordine, provocazioni e rinascenti organizzazioni anticomuniste e neofasciste che riaprivano sedi, giornali e liste elettorali. Contro di questi la Volante Rossa organizzò attacchi e violenze. Fu attiva dal 1945 al 1949. Dopo le elezioni del 18 aprile 1948, dove il fronte delle sinistre e il P.C.I. vennero sconfitti - nel luglio del 1948 ci fu anche l’attentato a Togliatti - perse la sua influenza: si avviò la linea togliattiana del partito di massa. Nel 1949, accusati di omicidio, molti leader della Volante rossa vennero arrestati. Il processo si svolse nel 1951. Ci furono 23 condanne, 4 all’ergastolo. Alcuni ripararono in Cecoslovacchia.
Praga
Luigi Colombo è un uomo distinto, ben piazzato, ancora forte, di circa un’ottantina d’anni. Lo incontro nel ristorante in cui ci siamo dati appuntamento.
Arrivo 5 minuti prima, ma lui è già lì. Facciamo le presentazioni. All’inizio sembra reticente, mi dice che in tanti gli hanno chiesto del suo passato e lui ormai si era abituato a non parlare con nessuno, almeno con chi non sapeva niente.
Abituato da anni di diffidenza verso chiunque, anche gli amici, perché chiunque poteva essere una spia o riferire in malo modo qualcosa detta anche con significato diverso. Mi parla di un giornalista scozzese che recentemente, chissà come, è riuscito a trovare il suo numero e lo ha ripetutamente chiamato per un appuntamento, stava scrivendo un libro. E lui si era sempre fatto negare.
Ma piano piano mi accorgo che qualcosa succede, forse scatta qualcosa e lui comincia a raccontare cose che ha tenuto dentro per troppo tempo. Per esempio che si era avvicinato, giovanissimo, sul finire della guerra, alla Volante Rossa, formazione nata da alcune "Brigate Garibaldi" nel periodo bellico, ma che dopo il 25 Aprile non aveva smobilitato. Era rimasto nell’organizzazione paramilitare fino al 1949, quando avvennero i fatti per cui fu condannato in contumacia all’ergastolo.
Per sciogliere il ghiaccio, comincio con domande curiose.
Si legge in giro che voi della Volante Rossa (V. R.) compraste un camion militare americano...
Certo, era un’asta e c’ero anche io. Riuscimmo, in modo più o meno regolare, ad aggiudicarcelo noi. Anzi ricordo che partecipai personalmente con 10.000 lire, che erano bei soldi allora, Non ricordo se lo pagammo 110 o 120. Comunque quel camion lo rimettemmo completamente a nuovo e diventò indistruttibile.
So che è difficile farlo in poche righe, quali fatti della tua vita ti sono rimasti maggiormente impressi? Mi riferisco alla tua vita qui, dopo la fuga dall’Italia alla fine degli anni quaranta.
Ma ci sono anche molti ricordi di fatti in Italia. Quello che facevano gli agenti dell’Ovra, quello che i fascisti e i tedeschi facevano al campo Giuriati di Milano, cosa fecero a tanti miei amici, ad Eugenio Curiel.
Guarda che "prima" del 25 Aprile la lotta di Liberazione l’ho fatta anch’io, in una Brigata Garibaldi. Poi, dopo le elezioni del 18 aprile 1948, lo sdoganamento di tanti fascisti che tornarono in circolazione. Quelle elezioni servirono anche a questo. Come per dirci che la Resistenza l’avevamo fatta, ora grazie ma le cose erano cambiate.
E qui invece? Per esempio hai ritrovato qui qualcuno che conoscevi da prima?
Sì, qualcuno sì, coinvolto negli stessi fatti per i quali ero fuggito io, qualcuno per altri. Ma anche gente che con noi non c’entrava nulla, che aveva approfittato del momento per le sue vendette personali. Nella confusione del momento, il Partito si trovò costretto ad aiutare anche loro.
Comunque, tra quelli che incontrai qui c’era il nostro comandante, il tenente Alvaro, che in questi ultimi mesi, nel paesino dove si trova, non se la passa molto bene. Cominciamo tutti ad avere una veneranda età.
Cos’altro? Quello che successe a tanti di noi. Ho letto che si è molto scritto di compagni che sono entrati nella Radio cecoslovacca, in una sezione in lingua italiana che si chiamava "Oggi in Italia".
Non è vero che ci entravano i più colti. C’è entrata gente colta dopo e che con noi cosiddetti politici non aveva niente a che fare. Ma di noi ci entrarono quelli che avevano un peso politico maggiore, il tenente ad esempio,ma anche delle conoscenze. C’erano i compagni di Modena che avevano un trattamento particolare, non si sapeva esattamente perché.
Ma eravamo tanti e quelli che facevano i giornalisti erano davvero in pochi. Ne ho conosciuti tanti che stavano in fabbrica, molti nei campi delle Cooperative agricole morave, altri nelle miniere di Ostrava e dintorni.
Ogni tanto organizzavamo feste o raduni da tutta la Cecoslovacchia che ci davano modo di fare sia conoscenza, sia il punto della situazione. E si leggevano i bollettini, gente che non ce l’aveva fatta, qualcuno si era suicidato. E si davano, ai meno raggiungibili, notizie da casa, di genitori che se ne erano andati, di mogli che si erano stufate di aspettare. È stata dura.
Per quanti anni non hai avuto contatti con la tua famiglia?
Molti. Ricordo quando nel 1962 arrivarono le mie sorelle Angelina e Margherita a trovarmi, mi portarono questo anello, lo vedi?
Ci sono le mie iniziali vere. E un po’ di regali, e una copia del Corriere della Sera e una del Corriere milanese. L’ho preparata qui sul tavolo, aspetta. (ndr, tira fuori un pezzo di giornale, di un colore giallo sporco, di 45 anni fa. C’è la foto di tre cubani con una barba di 30 centimetri. In quella foto non c’è certo lui. Il titolo recita "Fra i barbudos di Fidel Castro i tre sparatori della Volante Rossa", e della foto dei tre si può dire davvero di tutto meno che siano italiani. Il titolo del Corriere milanese parla dei "pistoleros", non c’è foto alcuna, e dice che i tre si starebbero per trasferire a Cuba. Poi riprende a parlare). Tutte balle, ma questo mi preoccupò e mi fece capire che in quanto ci dissero all’inizio c‘era della verità.
Qualcuno doveva aver parlato, anche se le notizie erano inesatte. Ufficialmente nessuno di noi era andato a Cuba.
Quanto rimanesti a Cuba?
Più o meno un anno, lavorammo ognuno nel campo di specializzazione, io nel settore delle ricerche geologiche, che era una dipendenza del Ministero dell’Industria, e il Ministro cubano era allora Che Guevara.
Lavorammo a campionare il terreno intorno a Santiago de Cuba, a due passi da dov’erano, e sono ancora, gli americani. Ci trovammo benissimo, non si mangiava affatto male, c’era abbondanza di frutta di ogni genere; sai rispetto ai cibi grassi ai quali ci eravamo abituati qui… Un compagno si sposò e rimase lì, tornò in Cecoslovacchia, con tanto di moglie e figlia, diversi anni dopo….. ora loro sono a Cuba, e lui purtroppo non c’è più. Per tornare a Cuba, fu davvero un’esperienza positiva. Poi, era il 1964, mio fratello riuscì a portarmi una 600 usata, regolare, pagai quasi più di dogana di quanto fosse il valore della macchina, che fu la mia prima, e durò purtroppo solo 4 anni, poi riuscii a comprarmi una Simca, poi una Fiat 125 fatta in Italia. Qui all’Est poi cominciarono a girare anche le Lada fatte in Unione Sovietica con le vecchie catene di montaggio della Fiat.
Poi ci fu il 1968, l’anno dei riformatori... Sì, bisogna riconoscere che la cappa che era stata calata intorno ai cittadini di questo paese poteva essere in alcuni frangenti opprimente. Mi ricordo le trafile che bisognava fare quando un cittadino cecoslovacco andava in giro da qualche altra parte, per studio, per lavoro. O anche la moglie cecoslovacca di uno di noi. Questa specie di burocrazia non so se abbia più aiutato a proteggere lo Stato socialista o gli abbia fatto più male. Ma è vero anche che in questa ed altre acque si tuffarono come pesci quelle forze socialdemocratiche riformiste, anche se nei nostri ambienti erano molto forti sensazioni e notizie che fossero i servizi segreti occidentali a finanziare tutto.
Sta di fatto che non si ebbe il tempo per valutare quali cambiamenti e di quale portata ci sarebbero stati con Dubcek. Voglio dire che non è tutto oro ciò che luccica, e chissà dove saremmo arrivati se si fosse proseguiti su quella strada. Ora io non so neanche se la situazione si poteva risolvere senza l’intervento delle truppe del Patto di Varsavia.
Sai, dare giudizi ora è facile, ci sono stati periodi storici in cui si stava da una parte o dall’altra. Se non ci si è passati, non lo si può capire. Questo vale anche per i fatti del dopoguerra che sono all’origine di tutta la mia storia. Perché se prendi un evento storico e lo sradichi dal suo contesto, quell’evento può sembrare completamente diverso.
E dal 1978 cominciai a fare le fiere, facevo il traduttore per le ditte italiane, nonostante quello che trapelava la possibilità di fare qualcosa per conto proprio c’era. L’ho fatto per 10 anni, ho venduto materiali per celle frigorifere, ho addirittura venduto tori, prima che intervenissero dei blocchi sanitari. Ricordo il 1978 come un anno molto importante per me, con i lavori che facevo riuscivo ad avere una vita assai dignitosa, e in quell’anno la ciliegina sulla torta fu l’arrivo della grazia, che il Presidente Pertini mi aveva concessa! A me ed altri che avevano condiviso la mia stessa storia.
Quindi sei potuto andare in Italia?
Certo, anche se non lo feci subito. Aspettai qualche mese, cercai diverse conferme, e la certezza di potermi presentare in Consolato senza che mi trattenessero. Dovetti prima fare la trafila per avere il permesso di soggiorno con il mio nome vero, poi andai in Consolato per registrarmi e farmi fare il passaporto. Solo allora potei tornare.
Ma se dicessi che non vedevo l’ora direi una cosa inesatta, qui oramai era casa mia, chissà che effetto mi avrebbe fatto rivedere famiglia, amici, posti. Morale della favola, tornando a Milano mi feci spiegare per telefono come arrivare, avevo appuntamento con la mia famiglia per strada, all’uscita della tangenziale, tangenziale che ovviamente 30 anni prima non c’era. Ci misi parecchio tempo a riconoscere le strade, le case, non era rimasto molto. Ci sono tornato spesso, a trovare mia madre, e gli altri della mia famiglia, e qualche volta al mare. Poi, era il 1988, andai in pensione, e lo Stato socialista cecoslovacco mi avrebbe seguito di lì a non molto. Vedi quel quadro? C’è una poesia che mi scrissero i miei colleghi e mi regalarono il mio ultimo giorno di lavoro.
Avevo 60 anni. (ndr, traduco la poesia, e mentre la leggo vedo nei suoi occhi una commozione che contrasta con i temi ed i toni di quanto mi ha raccontato finora).
Non ti è mai venuto il dubbio di ritornare a casa, intendo in Italia?
No. Qui, dopo il primo periodo difficile, avevo messo radici. Certo in Italia cominciai ad andarci più spesso, e volentieri. Ma io qui lavoravo ancora, e mi mancavano quasi dieci anni per andare in pensione.
Ad esempio nel 1979 andai a Roma, a trovare i compagni di Est Europa, così si chiamava una cooperativa che lavorava con gli Stati socialisti. Che bella Roma! Accompagnato da un certo compagno Giuliani me la fecero vedere tutta. L’altra unica volta c’ero stato nel 1948, quando ci fu la manifestazione nazionale dopo l’attentato a Togliatti.
Quindi non avevo visto nulla nel 1948, anche se di allora ricordavo ancora lo scomodissimo viaggio in treno per arrivarci, una miriade di gente alla manifestazione, il vino dei Castelli che ci comprammo.
Cosa è cambiato ora qui, al di là del fatto che Cecoslovacchia e Muro non esistono più?
Eravamo giovani, avevamo un sogno nel cassetto e negli anni avevamo visto questo sogno assumere i contorni di un’esperienza reale con tutti i difetti dei quali solo i sogni sono sprovvisti.
Ho visto con amarezza gente che del socialismo se ne infischiava, che approfittava della sua posizione per farsi i cavoli propri, mai quelli della gente comune.
Ma una cosa la posso dire con certezza, e non temo di essere smentito. La classe operaia difficilmente in altre parti del mondo ed in altri periodi storici starà meglio di come stava qui fino al 1989. Il sindacato esisteva per organizzare le ferie dei lavoratori, tanto i lavoratori stavano bene.
Questo Stato che si dice fosse così duro non fu abbastanza duro da costringere le persone a lavorare, e uno Stato che paga tutto e non produce alla fine chiude. Tutti avevano una baita per le vacanze, abbiamo ancora oggi i residui di un’istruzione e di una sanità pubblica invidiabile, anche se ahimè pian piano si sta smantellando tutto. Prendi me per esempio. Arrivato con le elementari, sono arrivato a diplomarmi.
Sta per uscire un libro che racconta la tua storia, quanto c’è di vero?
Ho pagato i miei conti con la giustizia, ho fatto 30 anni da fuggiasco quando qualcuno se l’è cavata, restando in Italia, con molto meno. Ora, grazie soprattutto all’appassionato interessamento di Roberto Galtieri e dell’avv. Clementi di Milano sono a tutti gli effetti tornato un cittadino come gli altri. Trent’anni dopo la grazia che mi concesse Pertini, ora ho ottenuto la totale riabilitazione. Ho letto negli ultimi anni tante bugie, ho sentito chiamare assassini personaggi, come Francesco "Gemisto" Moranino che conobbi qui, che tanto avevano contribuito alla liberazione del Paese. Di alcune cose si sta perdendo la memoria, cominciando a mancare i protagonisti si cerca di riscrivere la storia. La mia, di storia, in questo senso, penso potrà essere un contributo interessante.
secondo la versione fornita dal sito web http://www.italia-rsi.org/icriminideldopoguerra/lavolanterossa.htm con l'articolo
LE SANGUINOSE IMPRESE DELLA VOLANTE ROSSA
1948 Quello che la scuola di Berlinguer eviterà di ricordare di Paolo Pisanò
LA VOLANTE ROSSA
Il ministro della Pubblica istruzione, Luigi Berlinguer, si appresta ad assegnare agli Istituti storici della Resistenza la tenuta dei corsi di aggiornamento per gli insegnanti delle scuole medie (corsi indispensabili per ottenere gli avanzamenti di carriera). Come dire: la storia italiana contemporanea in appalto istituzionale alla fazione.
E il pericolo di cadere dalla padella della "non storia" insegnata nell'ultimo mezzo secolo di reticenze e di menzogne alla brace della "storia di regime" sfacciatamente affidata agli Istituti suddetti, non riguarda solo il periodo catastrofico della guerra civile, con le sue foibe, le sue stragi compiute per innescare e alimentare la spirale del sangue, le sue doppiezze, le sue efferatezze, le sue fosse comuni , i suoi manicheismi e i suoi misteri mai spiegati agli italiani, ma anche il "dopo", ossia la seconda metà degli Anni Quaranta quando il Partito comunista italiano di Palmiro Togliatti ma anche di Pietro Secchia (l'uomo che voleva la lotta armata) perseguiva la politica del doppio binario, democratica e legalitaria nella facciata ma eversiva e rivoluzionaria nell'anima (e nei fatti). Pochi sanno infatti che vent'anni prima dell'apparizione sulla scena politica italiana della "strategia della tensione" e deIle "stragi di Stato", anche il Pci si era abbondantemente servito della tecnica della provocazione usando un apparato terroristico-militare che era la filiazione diretta di quello gappista "garibaldino" impiegato nella guerra civile fino al 25 aprile 1945.
Cade proprio quest'anno, in concomitanza con il cinquantesimo anniversario della sconfitta elettorale del Fronte Popolare (18 aprile 1948) e del successivo attentato a Togliatti (14 luglio 1948) il cinquantenario della caduta in disgrazia di una delle formazioni terroristiche comuniste più tristemente note di quel periodo iniziale di prima Repubblica: la "Volante Rossa" di Milano. Acquartierata nei locali della ex Casa del Fascio di Lambrate in via Conte Rosso 12, trasformata ovviamente in Casa del Popolo dopo il 25 aprile, la Volante Rossa Martiri Partigiani era formata per lo più da giovani di estrazione proletaria decisi a chiudere i conti della rivoluzione comunista aperti con la guerra civile e tali rimasti dopo il 25 aprile, in attesa che il Partito ordinasse la "seconda ondata" nella quale ciascuno di costoro credeva ciecamente. Comandata dal "tenente Alvaro" (al secolo Giulio Paggio, di professione guardia giurata all'Innocenti di Lambrate) la Volante Rossa mascherò così per quattro anni (1945-1949), dietro il paravento di un innocuo circolo ricreativo-culturale che si sosteneva ufficialmente eseguendo trasporti conto terzi (di giorno), una serie spaventosa di violenze, che insanguinarono Milano e dintorni, spezzando le vite di giovani e vecchi, uomini e donne colpevoli solo di essere stati segnalati come fascisti irriducibili (ex militari, giornalisti, possidenti) sopravvissuti al massacro della primavera 1945. Vittime della Volante Rossa, o di delitti di folla consumati sotto la sua regia, furono tra gli altri l'ex generale della Milizia Ferruccio Gatti; il giornalista Franco De Agazio direttore del Meridiano d'Italia assassinato la sera del 14 marzo 1947 sulla porta di casa in via Strambio, e il possidente Giorgio Magenes, aggredito nella sua fattoria di Mediglia (Milano) e linciato dopo che si era difeso uccidendo un assalitore.
Anche se la verità ufficiale vuole la Volante Rossa come una scheggia impazzita della guerra civile e gli onorevoli D'Alema e Berlinguer inorridirebbero alla sola idea di riconoscerle uno spazio nell'"album di famiglia", i suoi legami con la federazione milanese del PCI furono tali da permettere di scoprire, più avanti, che il Partito comunista non si era limitato a ispirarla ma se ne era addirittura servito per organizzare dei falsi attentati nell'ambito della sua strategia della tensione ante litteram.
I FALSI "BRIGANTI NERI"
La provocazione comunista prevedeva, di massima, due tipi di applicazione: l'attentato organizzato da elementi del PCI e quello organizzato dal PCI ma eseguito da elementi etichettabili come appartenenti a organizzazioni avversarie. Gli anni che seguirono la fine della guerra furono pieni di episodi del genere. Per quanto riguarda gli attentati organizzati dal PCI a Milano vale la pena di ricordare che il Partito comunista, attraverso i suoi agenti travasati direttamente dalle brigate Garibaldi negli organici della Questura, riuscì perfino, verso la fine del 1945, a creare dal nulla un fantomatico pericolo di "restaurazione fascista". Con l'appoggio del tenente Corti, un ex partigiano diventato ufficiale di Pubblica Sicurezza, i dirigenti comunisti di allora (Giuseppe Alberganti, Pietro Vergani, Piero Montagnani, Giancarlo Pajetta), fecero credere che i fascisti stavano preparando sabotaggi e tentativi insurrezionali. Per dimostrare che tutto ciò costituiva un pericolo per la rinata democrazia, l'apparato comunista organizzò delle azioni terroristiche che poi vennero imputate ai "briganti neri risorgenti", tanto per usare il linguaggio dell'epoca. Ma i capi comunisti si rivelarono ancora più abili nell'orchestrare una serie di azioni la cui esecuzione doveva essere affidata a elementi facilmente identificabili come appartenenti alle file neofasciste.
La tecnica della provocazione, in questi casi, consisteva, prima di tutto, nell'infiltrare negli ambienti avversari gli agenti comunisti. Costoro, manifestando feroci sentimenti antimarxisti, riuscivano a conquistare la fiducia degli elementi più sbandati, inquieti ed estremisti e potevano così individuare i personaggi più facilmente agganciabili, sul piano psichico e politico, all'azione terroristica. A questo punto si mostravano loro armi, esplosivi e li si convinceva che l'organizzazione disponeva di mezzi potenti e tali da garantire l'impunità. Con questo sistema i comunisti giunsero a costituire squadre di attentatori pronti a agire nell'assoluta convinzione di fare parte di formazioni "anticomuniste" agli ordini di "centri occulti", politicamente influenti, italiani o esteri.
Una volta eseguiti gli ordini, però, questi giovani si videro denunciati alla polizia: e solo allora compresero di essere stati le pedine del gioco comunista. Questa durissima esperienza toccò nell'immediato dopoguerra a più di un giovane dell'area neofascista: ricordiamo per tutti Ferruccio Mortari, Domenico Nodari e Andrea Esposito che, a Milano tra il 1946 e il 1947, vennero agganciati dagli agenti provocatori marxisti, usati per atti di provocazione e poi consegnati nelle mani della giustizia.
MILANO SCONVOLTA
Ed ecco la storia di nove "attentati neofascisti" organizzati dal PCI tra l'estate del 1945 e la fine del 1947.
Primo attentato. Il 4 settembre 1945 un congegno incendiario a orologeria esplose nei locali del palazzo dell'Arengario, in piazza Diaz, dove era stata allestita la Mostra della Ricostruzione organizzata dal Comitato di liberazione nazionale per l'Alta Italia. L'esplosione venne subito attribuita ai neofascisti e la stampa socialcomunista ne prese lo spunto per sostenere che i seguaci di Mussolini stavano organizzandosi e che, di conseguenza, la magistratura doveva colpire duramente quei fascisti in attesa di essere giudicati dalle Corti d'Assise straordinarie. Vi furono manifestazioni di piazza e comizi. In realtà l'attentato venne organizzato e compiuto da partigiani comunisti già appartenenti alla disciolta 110° brigata Garibaldi. Motivo dell'attentato: la Corte d'Assise straordinaria di Milano aveva condannato a soli 20 anni di carcere Carlo Emanuele Basile, già prefetto di Genova della Rsi.
Secondo attentato. Alle ore 18 del 17 maggio 1946 una bomba esplose negli uffici comunali di Via Larga. L'ordigno era stato sistemato nella toilette accanto alle stanze che ospitavano gli uffici elettorali in vista dell'ormai prossimo referendum del 2 giugno. La deflagrazione provocò il ferimento del telefonista Mauro Tarantini. Subito dopo il Pci scatenò una serie di violente dimostrazioni contro il "fascismo risorgente" che "voleva ostacolare la libera espressione della volontà popolare". L'attentato venne invece eseguito dai componenti di una squadra di sicurezza alle dirette dipendenze del compagno Fabio, al secolo Pietro Vergani, poi deputato del Pci.
La squadra era agli ordini di un certo F. P., che in seguito, però, si staccò dal partito. Motivo dell'attentato: le elezioni amministrative tenute nei primi mesi del 1946 avevano rivelato che il Pci, considerato il partito più forte durante le giornate dell'aprile 1945, non disponeva di un'eccezionale forza elettorale. I capi del Pci avevano quindi ritenuto opportuno galvanizzare l'opinione pubblica contro un inesistente pericolo fascista allo scopo di figurare poi come i "difensori della democrazia".
Terzo attentato. Anche questo venne determinato dagli stessi motivi e fu eseguito dai medesimi elementi. Obiettivo prescelto, in questa occasione, fu la sede del Pci di Sesto San Giovanni, ex villa Zorn. L'azione venne compiuta la notte del 26 maggio con il lancio di una bomba a mano tipo Breda. Non ci furono vittime.
Quarto attentato. La notte tra l'1 e il 2 giugno, vale a dire poche ore prima dell'inizio delle votazioni per il referendum, due bombe a mano di tipo tedesco vennero lanciate contro la tipografia Same, in piazza Cavour, dove di stampava l'Unità. La duplice esplosione provocò il ferimento di cinque operai. Motivo e autori: come nei due casi precedenti.
1948 Quello che la scuola di Berlinguer eviterà di ricordare La Volante Rossa tradita dai compagni Gli ultimi attentati dei terroristi comunisti a Milano e la loro misera fine mentre i capi vengono spediti oltre cortina Paolo Pisanò
La scorsa settimana abbiamo pubblicato la prima parte della rievocazione dei crimini compiuti dalla Volante Rossa, la famigerata formazione terroristica usata dai comunisti nell'immediato dopoguerra. La Volante aveva sede a Milano nella ex Casa del fascio di Lambrate trasformata, dopo la Liberazione, in Casa del popolo. Dietro l'apparenza di un innocuo circolo ricreativo e culturale, celava un'attività clandestina tesa a colpire con crescente violenza chiunque si opponesse ai disegni del Partito di Togliatti. Al comando del partigiano "Tenente Alvaro" al secolo Giulio Paggio, guardia giurata all'Innocenti durante il giorno e capobanda di notte. Dopo aver ricostruito i primi quattro attentati, organizzati tra la primavera '45 e il giugno '46, proseguiamo il racconto delle altre imprese sino alla fine della sanguinosa parabola.
Quinto attentato. La sera del 23 agosto 1946, alle ore 22,20, una bomba a orologeria scoppiò proprio all'interno della Casa del Popolo di Lambrate, in via Conte Rosso, alla periferia di Milano, dove aveva la sua base operativa la Volante Rossa. In quello stesso istante un gruppo di uomini armati di mitra attaccò l'edificio. I partigiani che presidiavano la Casa del Popolo risposero prontamente alle raffiche. Lo scontro a fuoco fu breve e violento. Uno degli attaccanti cadde ucciso. Un secondo venne catturato dagli uomini di "Alvaro". La polizia, subito chiamata dai comunisti, scoprì che sia il caduto sia il prigioniero erano noti per i loro sentimenti fascisti. Il morto si chiamava Euro Zazzi, il prigioniero Alfredo Portinari. Ambedue dimoravano a Gorla, presso Milano.
SCATTA LA TRAPPOLA
L'episodio venne sfruttato dal Pci con uno spiegamento di mezzi pubblicitari mai visto prima. Si urlò dovunque che i fascisti stavano rialzando al testa al punto da osare attacchi aperti contro le sedi comuniste. Si pretese che le autorità intervenissero decisamente contro la "belva risorgente". Ma nessuno, allora, riuscì a scoprire l'incredibile verità che si nascondeva dietro quell'attacco: l'attentato alla Casa del Popolo di Lambrate era stato infatti organizzato, per ordine del Pci, dalla Volante Rossa che aveva sede appunto in quell'edificio. Ideatore e stratega di tutta l'operazione fu Giulio Paggio, detto Tenente Alvaro, capo dell'organizzazione terroristica, che venne poi condannato all'ergastolo in contumacia per la lunga serie di delitti compiuti da lui e dai suoi uomini in quel periodo.
Il Tenente Alvaro incaricò dapprima un suo partigiano, che aveva militato durante la Rsi nelle Brigate Nere, di agganciare qualche estremista fascista proponendogli di partecipare a un'azione di tipo squadrista. Il Zazzi e il Portinari caddero nel tranello. Senza afferrare la realtà della situazione, accettarono di formare una squadra di terroristi con altri tre camerati: uno di questi era l'ex brigatista nero che li aveva arruolati. Gli altri due, che si spacciavano per ex marinai della X Mas erano, in realtà, due comunisti della Volante Rossa.
La sera del 23 agosto i cinque attentatori si avvicinarono alla Casa del Popolo protetti dalle tenebre. Ma, nell'edificio, il Tenente Alvaro era già in attesa con i suoi uomini. Il segnale dell'attacco venne dato dall'esplosione di una bomba che Alvaro, d'accordo con i suoi amici che dovevano fingersi attaccanti, aveva sistemato in una stanza al pianterreno. Dopo lo scoppio, infatti, incominciò la sparatoria. Euro Zazzi cadde ucciso quasi immediatamente, colpito di fianco da una raffica esplosa da uno dei due falsi marinai della Decima. Il Portinari, a sua volta, non fece nemmeno in tempo a capire che cosa stesse accadendo, che si trovò scaraventato nell'interno della Casa del Popolo tra le braccia dei difensori.
L'esito di questa perfetta messa in scena fu pari all'aspettativa: la polizia, infatti, si trovò di fronte al cadavere di un fascista e a un prigioniero che ammise subito di essere fascista pure lui. Che altro occorreva per scatenare una campagna di stampa e sostenere che i fascisti stavano rialzando la testa? Un morto e un prigioniero erano più che sufficienti per suffragare drammaticamente la tesi comunista. Il Portinari, operaio alla Pirelli, venne condannato a una dura pena detentiva.
Ed ecco il motivo di questa azione così bene organizzata. In quei giorni il servizio di sicurezza del Pci aveva saputo che i fascisti si stavano effettivamente riorganizzando e cercavano di dare vita a un nuovo partito che si sarebbe chiamato Movimento sociale italiano. La notizia aveva creato un certo panico nelle file comuniste. Si diceva infatti che il nuovo partito si sarebbe valso di ingenti fondi occultati in tempo utile da Mussolini e si sarebbe appoggiato a una potente organizzazione paramilitare creata poco prima dell'aprile 1945 dal Partito fascista repubblicano. Fu così che i capi del Pci diedero incarico alla Volante Rossa di creare le premesse necessarie a una violenta campagna antifascista e ottenere così, dal governo, il "non riconoscimento" legale della nuova formazione politica.
Sesto attentato. Il 9 ottobre 1946 una violenta esplosione devastò i sotterranei della Casa del Popolo di Porta Genova uccidendo il piccolo Franco Fiammeni di 5 anni, figlio del custode dello stabile. Immediatamente l'apparato comunista sì scatenò in una martellante campagna antifascista accusando dell'infame delitto i "rigurgiti di fogna delle Brigate Nere". Tutta Milano venne mobilitata. Ai funerali del piccolo Franco, che si snodarono per le vie principali della città, partecipò tutta la cittadinanza. Anche la stampa borghese si unì al coro delle esecrazioni.
IL BAMBINO DILANIATO
Le indagini, però, non approdarono a nulla. Dai "neofascisti" arrestati non si seppe niente di positivo. Un giorno dopo l'altro il clamore si placò e del piccolo Franco Fiammeni nessuno parlò più. Ma anche la verità su questo tragico episodio mette a nudo una speculazione politica. Franco Fiammeni, infatti, non fu vittima di un attentato anticomunista, ma della criminale incoscienza di alcuni ex partigiani della 117a Brigata Garibaldi.
Ecco l'esatta ricostruzione dei fatti. Nei mesi che seguirono la fine della guerra, i partigiani comunisti trasformarono quasi tutte le sedi del Pci in depositi di armi e munizioni. Anche il sotterraneo della Casa del Popolo di Porta Genova divenne un'armeria. Ogni tanto qualche partigiano scendeva nell'ampio scantinato e lubrificava mitra e moschetti. Un giorno, però, gli addetti alla manutenzione, uscendo dall'armeria, si dimenticarono di chiudere la porta della cantina.
Fu così che il piccolo Franco, il quale poteva muoversi a piacimento nell'edificio, finì col trovarsi davanti a quella porta che non aveva mai potuto varcare. La curiosità lo vinse. Penetrò nello scantinato e si trovò in mezzo ad armi di ogni genere. Si mise a giocare con una mina anticarro Breda, ma il gioco finì tragicamente. La mina esplose e Franco restò dilaniato. La tragedia poté essere ricostruita esattamente perché l'esplosione della mina restò isolata: le cassette di munizioni e le bombe a mano accatastate nel sotterraneo, infatti, non scoppiarono a loro volta.
I danni, comunque, furono ingenti e la deflagrazione venne udita in tutto il popoloso quartiere di Porta Genova. Il tragico episodio venne immediatamente a conoscenza dei capi del Pci. Che fare? Ammettere la verità significava confessare che lo scantinato della Casa del Popolo era, in realtà, una specie di polveriera. Si rendeva quindi necessario imbastire al più presto una storia che potesse risultare attendibile e, nello stesso tempo, fare ricadere la responsabilità della morte del piccolo Franco sulle spalle di qualcuno. Allora, su due piedi, venne inventato il "nefando e criminale attentato neofascista".
Settimo attentato. La notte del 25 settembre 1947, alle ore 1 e 15, la zona dei bastioni di Porta Volta venne squarciata dall'esplosione di una carica di tritolo posta presso il basamento di uno dei pilastri d'ingresso della Federazione comunista in piazza 25 Aprile. I danni furono limitati ma, come al solito, il Pci ne approfittò per un'ennesima campagna antifascista. Le indagini vennero rivolte, naturalmente, in senso unico, vale a dire che vennero setacciati gli ambienti giovanili nazionali. I risultati, questa volta, parvero positivi. La polizia fermò alcuni giovani i quali ammisero di avere fatto parte di gruppetti che si erano prefissi di compiere attività terroristica. Tra questi, però, non emersero i nomi dei veri responsabili. Mentre le indagini continuavano, a distanza di 39 giorni dall'esplosione in piazza 25 Aprile, se ne verificò un'altra nella sede della Casa del Popolo di via Andrea Del Sarto. Da quel momento, come ora racconteremo, gli avvenimenti presero una piega del tutto particolare.
Ottavo attentato. Alle ore 1 del 4 novembre 1947, una carica di tritolo, collocata nel vano di una finestra al pianterreno della Casa del Popolo in via Andrea Del Sarto, esplose con grande fragore provocando però danni molto limitati. Pochi giorni più tardi la polizia, in seguito a una segnalazione anonima, riuscì ad arrestare tre giovani, due uomini e una donna appartenenti a formazioni nazionali: gli indiziati ammisero di essere stati gli autori non solo dell'attentato in via Andrea Del Sarto, ma anche di quello contro la Federazione comunista. Nel processo che ne seguì, i giovani furono condannati a dure pene detentive. Attorno a tutta la vicenda, però, continuò sempre a gravare una pesante coltre di mistero. Tra l'altro, due mesi dopo l'attentato di via Andrea Del Sarto, il padre di Ferruccio Mortari, uno degli arrestati, venne assassinato misteriosamente.
Solo in seguito fu possibile dare l'esatta versione dei tragici episodi e rivelare la manovra condotta dai comunisti allo scopo di spingere dei giovani neofascisti a compiere imprese che facevano comodo al Pci. Le due azioni terroristiche, infatti, vennero decise dai dirigenti comunisti. Motivo: nel maggio del 1947 il Pci era stato eliminato dal governo e le masse comuniste, secondo Togliatti, non avevano reagito con sufficiente fermezza. Tre mesi più tardi, infatti, nel corso di una sua visita a Milano, il segretario del Pci aveva lanciato pesanti accuse contro i dirigenti comunisti della capitale lombarda accusandoli di cecità e di incapacità politica. In realtà il Pci, in quel periodo, stava attraversando un momento di stanca: le masse non reagivano o reagivano con molta pigrizia.
DOCUMENTI PERICOLOSI
L'accusa di Togliatti, comunque, spronò i capi militari del Pci a prendere delle iniziative e, secondo una tecnica ormai usuale, venne stabilito che per svegliare l'opinione pubblica era necessario vitalizzare le masse comuniste suscitando la loro indignazione. Un piano del genere prevedeva l'intervento di "tecnici" molto specializzati. Ancora una volta entrò così in scena la Volante Rossa già brillantemente collaudata con l'attacco alla Casa del Popolo di Lambrate. Il suo capo, il Tenente Alvaro, si mise al lavoro. Riuscì a infiltrare uno dei suoi, certo M. G., ex brigatista nero reduce per di più dal campo di concentramento di Coltano, nell'area neofascista. M. G. agganciò alcuni tra gli elementi più estremisti e li convinse ad agire. Cosa che avvenne, appunto, con un primo attacco contro la Federazione comunista la notte del 25 settembre.
Subito dopo, però, la vicenda cominciò a complicarsi. I piani comunisti, infatti, prevedevano più di una azione terroristica. Accadde invece che il G., al quale spettava il compito di coordinare l'attività degli attentatori reclutati fra i neofascisti, venisse arrestato dalla polizia nel corso di una retata assieme a una decina di altri giovani sui quali pesavano dei sospetti. I veri autori dell'attentato, però, restarono a piede libero e, fedeli agli impegni presi fra di loro sotto l'incitamento del G., attaccarono anche la Casa del Popolo di Via Andrea del Sarto.
A questo punto, però, la Federazione del Pci intervenne nel timore che i neofascisti, non più controllati dal "compagno pilota", cominciassero a fare sul serio: andò a finire che i componenti della squadra furono subito arrestati in seguito a una misteriosa delazione. Nel processo che ne seguì questa verità non venne a galla. I giovani attentatori vollero assumersi tutte le loro responsabilità e, forse, non seppero mai di essere stati delle pedine manovrate dall'apparato comunista di sicurezza. Un solo particolare di questa storia non è mai stato chiarito: i motivi che spinsero gli uomini della Volante Rossa ad assassinare il padre di Ferruccio Mortari, uno dei giovani attentatori, due mesi dopo l'arresto del figlio.
Nono attentato. Il 12 novembre 1947, alle ore 12,15, un'esplosione scosse nuovamente il palazzo che ospitava, in piazza 25 Aprile, la sede della Federazione comunista. La polizia, subito chiamata, appurò che una bomba, collocata sotto una panca di legno situata in un corridoio del primo piano, accanto all'Ufficio stralcio delle Brigate Garibaldi, affidato allora all'onorevole Cavallotti, aveva provocato un incendio. Le fiamme avevano distrutto tutti gli incartamenti riguardanti il movimento amministrativo delle brigate partigiane comuniste durante e dopo la guerra civile.
L'attentato, naturalmente, provocò indignate, grandi manifestazioni antifasciste. Masse di dimostranti, capeggiate dalla Volante Rossa, si diressero dalla sede del Pci verso il centro cittadino assalendo e devastando la redazione del Mattino d'Italia, quotidiano liberale, e le sedi de l'Uomo qualunque, del Movimento sociale italiano e del Mrp (Movimento di resistenza partigiana), un'organizzazione di ex partigiani dissidenti dal Pci.
Ma la verità, ancora una volta, non aveva niente a che fare con i motivi dell'indignazione popolare. Il "crimine fascista" era stato organizzato dal Pci per un motivo ben preciso. In quei giorni era in pieno svolgimento l'inchiesta sull'oro di Dongo affidata a un magistrato militare, il generale Zingales, del quale erano ben note l'intelligenza e l'intransigenza. Il generale Zingales, a un certo momento, aveva ordinato il sequestro di tutti gli incartamenti relativi all'amministrazione delle Brigate Garibaldi. Lo scopo era chiaro: da un'analisi delle somme entrate e uscite (specie di quelle uscite) sarebbe stato possibile accertare l'entità dei valori entrati in possesso dei capi comunisti. Il Pci, ovviamente, non aveva alcun interesse a consegnare gli incartamenti. Fu così che il solito tenente Alvaro, capo della Volante Rossa, venne incaricato di sistemare la faccenda. Fu un gioco da ragazzi. D'accordo con i dirigenti del Pci, Alvaro attese che gli uffici della Federazione chiudessero per l'intervallo di mezzogiorno, depose la bomba, la fece scoppiare, versò un po' di benzina sugli scaffali pieni della carta straccia con la quale erano stati sostituiti gli incartamenti compromettenti messi prima al sicuro, e se ne andò indisturbato. Se la polizia si fosse presa la briga di indagare un poco su tutta la faccenda non avrebbe tardato a capire che solo un comunista poteva avere eseguito l'attentato: era infatti impossibile che un estraneo all'ambiente dei dirigenti comunisti potesse raggiungere, in pieno giorno, i piani superiori della Federazione del Pci di Milano, presidiati in permanenza da guardie armate. Ma nel 1947 la polizia era composta, per lo più, di ex partigiani che fingevano di non vedere e non sentire.
LA FINE DELL'ILLUSIONE
Dieci anni dopo, quando si svolse a Padova il processo per i fatti di Dongo, l'onorevole Cavallotti, chiamato a deporre circa la sorte subita dai famosi incartamenti, si limitò a presentare un verbale della polizia dal quale risultava che i documenti erano andati distrutti in seguito alla criminale azione neofascista. La sua deposizione venne accolta da una fragorosa risata generale, ma intanto i documenti non vennero mai prodotti.
Non finì con una risata generale, invece, la parabola sanguinosa della Volante Rossa. Dopo la sconfitta elettorale delle sinistre alle elezioni del 18 aprile 1948 il Tenente Alvaro e i suoi uomini cominciarono a risultare scomodi. Soprattutto dopo l'attentato a Togliatti quando, nel pomeriggio del 14 luglio 1948, nel pesantissimo clima insurrezionale che era calato su tutta l'Italia del Centro-Nord, la Federazione milanese del Pci riuscì a fermare appena in tempo il tenente Alvaro e i suoi uomini subito usciti dalla sede di via Conte Rosso muniti anche di armi anticarro e decisi allo scontro rivoluzionario. Da quel momento, a poco a poco, allo stesso modo in cui erano stati illusi e usati spietatamente, altrettanto spietatamente Alvaro e i suoi vennero isolati e scaricati. Il raffreddamento del partito e quindi del brodo di coltura nel quale l'organizzazione nuotava, ebbe sulla Volante Rossa lo stesso effetto che alcuni decenni più tardi avrebbe avuto la presa di coscienza del progressivo "distacco delle masse" sui terroristi rossi degli anni di piombo: la spinse ad appoggiarsi alla criminalità comune, stabilendo con questa canali interattivi sempre meno politici e sempre più criminali.
Pochi mesi dopo, al culmine di questo processo degenerativo, il Pci chiuse il capitolo consegnando nelle mani della giustizia "borghese" i pesci piccoli. Fra questi, Eligio Trincheri, killer maldestro e autore degli ultimi omicidi, che rimase in galera fino al 1971 allorché fu graziato dal presidente Giuseppe Saragat. Gli altri vennero graziati da Sandro Pertini nel 1978. Il Pci riservò un trattamento di favore solo ai tre elementi di punta dell'organizzazione: Giulio Paggio, Paolo Finardi e Natale Buratto che poterono fuggire in Cecoslovacchia, al riparo della Cortina di Ferro, sia pure inseguiti da condanne all'ergastolo.
E là rimasero a meditare sul fatto che la rivoluzione tanto sognata era finita prima di cominciare ma che di ciò erano stati avvertiti solo quando non erano serviti più.
(da L'UOMO QUALUNQUE Numeri 6 e 7 del 19 e 26 Febbraio 1998)
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